di Alina Tomasella e Andrea Muni
(Immagine di Leonardo Sica)
Se oggi domandassimo a una persona qualunque per strada, a una persona “reale”, cosa ne pensa del ruolo della donna rispetto all’uomo nella nostra società, o se ritiene corretto promuovere l’approvazione di un disegno di legge a contrasto di ogni forma di discriminazione e istigazione all’odio di genere, quale risposta ci verrebbe davvero riservata? Cosa risponderebbe, davvero, la signora seduta al bar o il ragazzo che prende il sole sul bagnasciuga? Cosa pensa la gente, fuori dai denti, dell’amore e dell’eros, ora che le grandi battaglie per la liberazione sessuale si studiano sui libri di storia?
È il 1963, Pier Paolo Pasolini imbraccia microfono e telecamera, esce dai salotti della borghesia intellettuale romana e gira l’Italia per ascoltare la gente su sesso, amore e dintorni. Ne nasce un film: Comizi d’Amore. Un esperimento di “cinema-verità” in cui coesistono naturalmente le opinioni degli “istruiti” e quelle degli “ultimi”, quelle degli intellettuali e quelle del “popolo” – spesso culturalmente rozzo, ma retto e gentile (come piaceva dire a PPP). Ne scaturisce una raccolta di facce, parole e pensieri senza filtro; il ritratto di un popolo che (specialmente al sud) è ancora totalmente ignaro dell’imminente stravolgimento di valori che inizia già a investire il Paese, che di lì a poco Pasolini denuncerà col nome di “mutazione antropologica”.
È impressionante la lucidità con cui Pasolini è stato in grado di fotografare, praticamente in diretta, l’incredibile stacco “esistenziale” tra i giovani italiani degli anni Sessanta e quelli del decennio successivo. Gli ultimi anni della vita di PPP possono anche essere letti come una dolorosa cronaca del vertiginoso incupimento e abbrutimento dei giovani (soprattutto di quelli più poveri) durante le epocali trasformazioni politiche e sociali di quel decennio – un abbrutimento di cui egli soffriva doppiamente, come intellettuale comunista e come amante dei giovani del sottoproletariato urbano.
Per Pasolini infatti la “mutazione antropologica” in pochi anni è riuscita a svalutare, a demolire antichissimi modelli e forme di vita popolari che da tempo immemore permettevano ai giovani proletari e sottoproletari di trovare una loro particolare, autonoma realizzazione umana: un loro posto nel mondo che riusciva realmente a renderli “felici”. A mano a mano che questa “mutazione” si compiva, i giovani, specie quelli poveri, hanno iniziato sempre più a vivere e a vedere i loro tradizionali modelli sottoculturali come “inferiori” e “spregevoli”, mentre al contempo non avevano assolutamente i mezzi, né spesso la cultura, per abbordare quelli proposti dal nuovo potere.
L’atroce infelicità dei giovani deriva dallo scompenso tra cultura e condizione economica: dall’impossibilità di realizzare (se non mimeticamente) – a causa della persistente povertà – modelli culturali borghesi. È cambiato il modo di produzione, ma la produzione non produce solo merce: essa produce anche rapporti sociali, umanità. Oggi i “figli”, sia quelli dei borghesi sia quelli dei proletari, si trovano uniti in una stessa storia. Una storia che produce l’idea [assurda] che il male peggiore del mondo sia la povertà e che, quindi, la cultura delle classi povere debba essere sostituita dalla cultura della classe dominante. (Pier Paolo Pasolini, “Scritti corsari”)
Qualche parallelismo con la situazione che viviamo oggi? A voi la parola.
Perché un “nuovo” Comizi d’amore?
Comizi d’amore è un’istantanea scattata a un Paese che muove i suoi primi passi nel mitico boom economico; la fotografia di un popolo che ha molto sofferto nei decenni precedenti e che, insieme al benessere, inizia a familiarizzarsi con l’american way of life. La Fiat nel ’63 vende 650 mila autovetture (seguita dall’Alfa Romeo con 50 mila), la Rai quadruplica i propri abbonati rispetto a cinque anni prima (toccando quota 4 milioni e 285 mila). Tra i programmi più seguiti c’è “Carosello”, l’onnipotente propaganda di spot pubblicitari che per Pasolini ha rappresentato la più feroce avanguardia ideologica del consumismo edonista e dell’omologazione (all’apparenza interclassista) che iniziavano a essere proposti come unico modello esistenziale possibile.
Sono questi gli anni in cui si piantano i semi della “mutazione antropologica”, i fagioli magici da cui germinerà nel successivo mezzo secolo quella mala pianta che oggi ci impone di riconoscerci come consumatori e imprenditori di noi stessi senza possibilità di scarti o sottrazioni. Un rampicante ideologico che, arrivando fino al cielo rovesciato dei nostri pensieri e desideri più intimi, li plasma dal di dentro, ci illude di una libertà puramente “mentale”, che non si attualizza mai in nessun atto o gesto; una dilagante libertà “potenziale”, di plastica (“se puoi sognarlo puoi farlo”), che si mangia via giorno dopo giorno il coraggio che ancora ci rimane di osare vivere almeno un po’ diversamente le nostre vite.
La libertà che normalmente sperimentiamo infatti è piuttosto quella che ci vuole liberamente conformati nelle scelte che dovrebbero renderci felici – felici allo stesso modo di tutti gli altri; liberi di essere diversi, purché entro i canoni tollerati; liberi di esprimerci, certo, ma entro l’alveo controllato di una comunità che dileggia e odia senza esclusione di colpi tutto ciò che (consapevolmente o meno) devia dai percorsi tracciati; liberamente in lotta gli uni contro gli altri, nella masochistica auto-imposizione di paradigmi irraggiungibili.
Non ci troviamo oggi, come giovani e come popolo, in un momento esattamente rovesciato rispetto a quegli anni Sessanta raccontati da Pasolini in Comizi? Non ci troviamo noi invece in un momento storico di vertiginosa, pericolosa e rapidissima ri-proletarizzazione del ceto medio (e di tutto il popolo) italiano? E non è paradossale e inquietante accorgersi di come, nonostante o forse proprio grazie a questa disperazione, spopoli come non mai il mito del successo? Il successo e la ricchezza non sono mai parsi così a portata di mano – così capaci di risolvere con una botta di fortuna, e individualmente, un dilagante dramma sociale. Oggi la ricchezza e la fama sono venduti a tutti come più che possibili, come “oggetti” e “destini” desiderabili sopra ogni altra cosa e potenzialmente sempre raggiungibili.
Sarà dovuta a questo la strana sensazione di disagio che invece provano i tanti “fannulloni” che non si sono ancora lasciati sedurre da questa propaganda – preferendo di no? Questa consapevolezza, questo lutto, questa tragica presa di coscienza, non sono più differibili. Ma possono essere d’impulso affinché la “gente” – quel popolo italiano che esiste, vive, respira, ride, piange e ha una storia – riscopra il desiderio, il gusto, di tornare ad “ascoltarsi”, davvero. Tornare ad ascoltare se stessi e gli altri, farlo fino a dove fa più male, lì dove non siamo certi che sentiremo qualcosa che ci piacerà, dove le risposte potrebbero spiazzarci, deluderci, ferirci, turbarci persino.
Intendere tutto questo come una missione culturale, come la tragicomica e fiera missione di una generazione che non si fida più di un mondo e di una cultura che negli ultimi decenni non hanno fatto che imporre le proprie regole, lasciando ben pochi spazi di manovra alternativa, e promettendo in cambio solo fagioli magici.
In questo particolare momento storico la lezione di Pasolini – il suo rapporto sincero, viscerale, con le persone – è un grande tesoro nascosto che può riscoprire chiunque desideri reiniettare “cultura” nel mondo reale. Il mondo “reale” che nessuno racconta, che non è quello dei talk show di Barbara D’Urso, ma che – di sicuro – non è nemmeno quello dei festival di filosofia, degli attivisti social di professione e dei media pseudo-progressisti.
Rimettersi in ascolto del Paese, delle persone, di quelle reali, che ci piacciano o meno. Senza preconcetti e con la sola ambizione di trascendere, da un lato, i quadretti buonisti dei benpensanti, delle elité, della stampa, e dall’altro le narrazioni grottesche di social e televisione.
Comizi d’amore, come festa di piazza e occasione per ritrovarsi nel dopo-lockdown
Guardare oggi Comizi d’amore ci lascia in bocca il sapore di un tempo e di un popolo che non ci sono più, e nei cui confronti può capitare di provare una curiosa nostalgia. Se quella cultura non esiste più, e l’omologante che l’ha sostituita non ci piace (per usare un eufemismo), allora forse Comizi d’amore 2.0 può essere anche una preziosa occasione per costruire un minuscolo tassello della cultura che vorremmo e che verrà.
Una cultura nuova, che sia all’altezza delle trasformazioni che stiamo vivendo (e che forse troppo spesso non vogliamo riconoscere per paura di doverle fronteggiare da soli). Una cultura diversa, fatta di persone che si ascoltano, che vogliono conoscersi, legarsi, giocarsi, senza aver già deciso le squadre e le regole del gioco. Una cultura popolare, che recupera il valore dell’oralità perduta, della discussione, valorizzandola, davvero, come patrimonio di pensiero di una comunità. Una specie di ridicolo, semi-ingenuo e fiducioso primo giorno del mondo, è così che immaginiamo Comizi d’amore 2.0.
Per i giovani poveri di un tempo l’allegria e il riso rappresentavano una forma di vitalità spontanea – direttamente legata a una (sotto)cultura a cui sentivano di appartenere e in cui erano immersi fin dalla nascita. Le nuove generazioni, quelle di oggi, successive all’omologazione della mutazione antropologica, hanno forse un compito rovesciato ma non meno importante: non di riscoprire, bensì di reinventare, senza nostalgismi, una cultura in cui il riso, la festa e l’allegria tornino ad avere un ruolo centrale e non accessorio, né funzionale alla produzione e al narcisismo neoliberali. Una rinnovata cultura popolare – del riso, della festa e della piazza – capace di inventare nella pratica nuovi assetti, nuove forme di alleanze tra le persone, fuori (per quanto sia possibile) dai meccanismi previsti.
Il fornarino [il garzone], prima della mutazione antropologica, aveva da contrapporre al mondo della ricchezza un proprio mondo altrettanto valido. Giungeva alla casa del ricco con un riso naturaliter anarchico, che screditava tutto: benché egli fosse magari rispettoso. Ma era appunto il rispetto di una persona profondamente estranea. E insomma, ciò che conta, questa persona, questo ragazzo, era allegro.
(Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari)
Nel mondo in cui la narrazione dei social e del web (non più ahinoi solo della televisione) sembra dire a chiunque che può diventare chiunque, lo stesso mondo in cui si pretendono eliminate le distanze sociali – tra ricchi e poveri, tra nord e sud, tra operai e vip, tra un intellettuale e un “non so” – nel nostro mondo insomma, non si distinguono più la storia, l’identità, l’umanità degli individui, e forse non si riconosce più nemmeno se stessi.
E nonostante tutta la sua arretratezza, culturale e civile, è difficile dire lo stesso dell’Italia simpaticamente ingenua e profondamente genuina fotografata da Pasolini in Comizi d’amore: un’Italia in cui esistevano ancora le differenze di classe, un universo multicolore in cui la prostituta, lo studente, il contadino, la scrittrice potevano rivendicare le proprie opinioni non solo come individui, ma anche come specchio della complessa stratificazione del costume, delle aspirazioni, dell’ideologia di una collettività. Più osiamo oggi guardarci dentro quello specchio (ancora in bianco e nero), più sentiamo un certo disagio per il magma vischioso del nostro perbenismo, dell’omologazione odierna.
Non solo, con disagio osserviamo come la mutazione antropologica abbia “rubato” molti degli aspetti indiscutibilmente positivi della rivoluzione sessuale degli anni Sessanta e Settanta. Se guardando Comizi ci emozioniamo nell’ascoltare la chiara voce delle molte ragazze di allora, giovani volenterose di sfilarsi dai gioghi della società cattolica e patriarcale, sappiamo anche – insieme al Pasolini più tetro e rassegnato degli ultimi anni – che queste fondamentali rivendicazioni di lì a poco saranno parassitate e viziate in quelle false liberalizzazioni che lui stesso dirà regalate dal potere.
All’epoca di Comizi Pasolini assume lo sguardo di chi – nell’immergersi con fiducia in una quasi mitica veracità di strada, che profumava ancora di Commedia dell’arte, di neorealismo e di una visione squisitamente popolare e carnevalesca del mondo e della vita – non si avvicina estraneo agli intervistati, ma compartecipa della loro esperienza mettendo senza sosta in discussione, con il passante come con il poeta, la propria cultura borghese. E questo accade persino quando, senz’altro con dolore, egli deve ascoltare le brutture che molti italiani si lasciano scappare sul conto delle persone omosessuali (come lui).
Il regista sembra infatti essere mosso da un interesse propriamente umano e antropologico, non da una sterile curiosità intellettuale ed entomologica di cui sono invece affetti molti pseudo-intellettuali impegnati odierni. Un approccio che trasuda dell’amore che PPP provava per quella sottocultura “pre-morale” (oggetto della sua polemica con Moravia), che è sempre stata il suo cruccio erotico e, insieme, la sua consolazione morale.
Quella sottocultura di fronte a cui Pasolini non ha mai smesso di mettere in gioco la parte più pura e coraggiosa di se stesso e la sua profonda esigenza di prossimità, di contatto reale e non alienato con gli altri. Questa è stata la vocazione dell’uomo e dell’intellettuale Pasolini, ed è anche quella del suo documentario. Non è un caso infatti che Comizi termini con un’apertura, un rilancio, una sfida che suonano come un congedo da ogni presunzione intellettuale. Nel dubbio finale, che chiude la pellicola, Pasolini si chiede infatti se sia poi riuscita davvero l’impresa di far emergere l’Italia reale tanto cercata, o se invece la parte più “vera” del Paese (come sottoinea anche Foucault nel suo I mattini grigi della tolleranza) non si sia spontaneamente sottratta al suo microfono.
È astratto, disumano e stupido invece chi pronuncia facili condanne contro interi periodi storici della storia umana in cui il popolo ha risposto alla sottomissione con la rassegnazione. Il momento dello spirito di tale popolo che fosse potenzialmente rivoluzionario trovava sempre il modo di esprimersi altrimenti: magari proprio attraverso la rassegnazione e, sopratutto, attraverso la totale estraneità alla cultura della classe dominante.
(Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari)
E proprio qui sta il nodo, la questione forse più intrigante di tutta l’inchiesta, che si rinnova oggi nel nostro interesse a riaprirla nei metodi e nella prospettiva, non senza aggiornarne le formule. Fino a che punto è possibile oggi raccogliere testimonianze inattese, che si collochino fuori dagli orientamenti del senso comune, del conformismo, del politically correct, e che mostrino come la pensa davvero la gente su questioni come l’amore, il sesso, il gender ed altre tematiche annesse? Quali differenze, se esistono, si potrebbero rilevare tra le opinioni e quale potrebbe esserne il risultato? Cosa ci racconterebbe “Comizi D’amore 2.0” dell’Italia contemporanea?
Lungi dall’essere un racconto sociologico o uno studio statistico, e immaginandosi piuttosto come una riflessione poetica organizzata, questo progetto sarà un’occasione per creare degli spazi di dibattito pubblico dal basso, primariamente inclusivi: si svolgerà – durante l’estate a Trieste e, sperando in un’ampia adesione, per tutto il Friuli Venezia Giulia – per le strade, dentro i bar, in spiaggia, nei circoli, in tutti i luoghi in cui c’è ancora speranza di incontrare uno scambio libero e un confronto aperto.
L’obiettivo è quello di fare di nuovo quel passo, fuori dagli ambienti riconosciuti, per sentire la gente reale, senza pregiudizi o intenti moralizzatori, per dibattere, per comprendere, per dubitare, rimettendo al centro la qualità della partecipazione come atto politico. L’invito è perciò aperto a chiunque voglia contribuire: scriviamoci, ma soprattutto incontriamoci e iniziamo ad attivarci per costruirlo insieme.
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