“Festa”: l’editoriale

L’articolo che segue è l’editoriale del numero 34 di Charta Sporca, che è possibile trovare qui

Non sarà stato il frutto di una decisione volontaria. L’esigenza di scrivere della festa deve essersi insinuata così, senza preamboli, strisciando tra gli altri argomenti, sgomitando alle nostre spalle. Lo si fiutava nell’aria: la festa appartiene al novero delle forme di vita comune che in questi ultimi anni abbiamo visto repentinamente declinare. Se non la capofila, essa è quanto meno la pubblica vedetta dei gesti politici più necessari: quelli compiuti senza scopo, per sé stessi, a tempo perso. Ne facciamo sempre meno (le felici eccezioni non sono certo mancate), ma i discorsi volti a condannarla sono sempre di più. Forse, il senso di una rivista è anche questo: far parlare ciò che, di volta in volta, sembra essere sul punto di scomparire, soffocato dalla tristezza e dal rancore che informano le nostre morali e le nostre sgangherate narrazioni mediatiche.

D’altronde, questa rivista – ce lo ricorda il racconto-saggio di Stefano Tieri – è nata sotto il segno della festa. E non soltanto perché leggere e scrivere, incontrarsi e scontrarsi con altri punti di vista (l’abbiccì di qualunque redazione) sono attività intrinsecamente festose, ma anche perché qualcosa come una Charta Sporca non sarebbe stato possibile se alcuni studenti, dieci anni fa, non si fossero incontrati in una notte di occupazione, cominciando a conoscersi tra assemblee e sonni gualciti, nella festa che parlava al fondo di quella mobilitazione collettiva, per rivoltarsi al fiato mortifero della riforma Gelmini. Che l’università abbia seguito sordamente il proprio corso e il proprio ulteriore declino, non ha impedito che qualcosa, intanto, venisse portato in salvo: un’amicizia e una voglia, semplice e testarda, di continuare a essere studenti, a prescindere dall’anagrafe e dalle occupazioni di ogni giorno, e di costruire, ai margini dei discorsi ufficiali, il controcanto minimo che una rivista indipendente tenta di offrire al piccolo mondo che la costituisce e la circonda. Parlare di festa sarà allora anche un modo di festeggiare il nostro decennale compleanno; ma festeggiare il nostro compleanno significherà soprattutto resuscitare il punto in cui festa e rivolta vengono a intersecarsi, e di cui la nascita della nostra rivista non è che un esempio tra i tanti.

Testimoniare la festa dall’interno è difficile, quasi contraddittorio, come per tutte quelle esperienze che implicano il dissolvimento del soggetto che vi partecipa. Si potrebbe dire, riprendendo il titolo di una prosa di Andrea Muni, che la festa è sempre di nessuno; non ha proprietari né garanti, perché comincia ad affiorare nel momento stesso in cui un individuo inizia a sciogliersi in un che di più vasto. Di qui, il suo intimo legame con gli stati modificati della coscienza e con la transe, di cui Piero Cipriano delinea – disossando il grande classico di Georges Lapassade, Dallo sciamano al raver – le stratificate declinazioni culturali e i molteplici risvolti: dal mistico, al terapeutico, al politico.

Eppure, l’atto di raccontare rimane forse uno dei mezzi più disponibili a restituire l’atmosfera che attraversa questo genere di esperienze. In uno dei pochi romanzi italiani che abbia tentato di raccontare il mondo dei free party e della “cultura rave”, Muro di casse (Laterza, 2015), Vanni Santoni afferma di aver scelto la forma del romanzo, anziché quella del saggio o dell’articolo, proprio a partire “dalla consapevolezza che nessun dato può avvicinarsi al significato profondo del trovarsi lì, a ballare fino al mattino, e sovente fino a quello ancora successivo”, perché solo un romanzo potrebbe rendere giustizia alla complessità di ciò che realmente accade “in quelle industrie abbandonate, in quei capannoni, in quei boschi, in quelle ex basi militari, fiere del tessile, ballatoi, vetrerie, depositi ferroviari, rifugi montani, bunker, uffici smessi, pratoni, centrali elettriche, campi, cave, rovine di cascinali, finanche strade di città e metropoli”.

Forse, per entrambi questi motivi – la difficoltà e insieme la necessità di narrare la festa –, i racconti che costellano questo numero, nel loro piccolo, tendono tutti ad assumere una prospettiva obliqua, a porsi a lato del loro oggetto. Marginale e defilata è la prospettiva di chi ritorna nella Bologna dei suoi primi anni di studio, come nel racconto di David Watkins, in cui il ricordo delle esperienze vissute attorno a centri sociali come l’XM 24 si mescola al presente irreale e fantasmatico di una festa di laurea, dei cessi pubblici, e dell’altrove, che è poi il solo luogo in cui ci sia dato ritornare; altrettanto marginale è il piglio lucido e straniato di chi, per prendere sonno e dimenticare la musica che viene dalla stanza attigua del vicino, si ritrova a fare i conti – letteralmente – con le feste, a ipotizzare il quantitativo di birra e di piscio evacuato negli anni, tentando di sussumere, non senza una certa comicità, un materiale tanto fluido e dispersivo nel rigore del linguaggio matematico, come accade nel testo di Giuseppe Nava; defilate anche le allucinazioni ipnagogiche che racconta Andrea Balietti, dove la festa si confonde con un turbinio di immagini e suoni che tornano e si infittiscono al buio, tra tempie e cuscino, piovendoci addosso in un lungo, invalicabile dormiveglia. Gli spiriti che aleggiano sul racconto di Rubern Salerno, con le sue danze e i suoi precipizi, i suoi brindisi e le sue torri, sembrano provenire dal medesimo fondo impalpabile delle immagini che si danno alle soglie del sogno, abitano il crinale in cui non possiamo più distinguere il reale dal suo rovescio allucinato: incredulo sarà l’ascolto, incredula la voce nel narrare.

Ma la festa si dice in molti modi. E se per i più essa ha un fondo velatamente dionisiaco, non mancano coloro che, come Beatrice Achille e Carlo Selan, tentano di portarla dall’altra parte: nell’attenzione al minimo gesto di ogni giorno e nella presenza a sé stessi, nella pienezza del soggetto e non nella sua sospensione, al di là del ritmo binario che separa, impoverendoli entrambi, il tempo ordinario da quello della festa, troppo spesso relegata a prevedibili, prestabiliti momenti d’eccezione; o ancora, chi pone l’accento sulle sue zone d’ombra, come Ilaria Moretti, quando denuncia la “festa a tutti i costi” che ci ha divisi in fobici e spavaldi, ma accomunati da un medesimo individualismo, proponendo però di guardare in faccia l’amarezza che sopravvive all’euforia e che spesso la informa dall’interno, senza cedere a comode rimozioni. Nel suo dialogare con Manet, Francesco Bercic assume lo sguardo di chi sta al di fuori della festa, racconta la malinconia dell’individuo che guarda la folla dall’esterno, ma per intravedere infine la luce di un incontro ancora possibile. Altre volte, come nella poesia di Sara Nocent, la festa viene a coincidere con gli ultimi istanti di vita di una falena: il suo andare a sbattere contro la finestra ripete forse l’insistenza con cui noi stessi cerchiamo le immagini e la luce, senza accorgerci che “è già tutto esposto per essere visto”. E il collage letterario non è forse pensabile come una festa dei testi che vi si rimestano, un vortice, macabro e gioioso, di tradizioni apparentemente inconciliabili? Quello di Piero Rosso ci costringe a rispondere di sì: Julien Sorel, uscendo da Il rosso e il nero, potrà finalmente danzare assieme a Pippi Calzelunghe, apprendere il suo segreto sbarazzino.

Sarà allora il caso di riascoltare queste righe, tratte dall’intervento di Andrea Muni, perché riassumono ciò che questo numero, forse, finisce per dire nel suo insieme, al di là delle varie posture dei singoli autori: “come può una singola esperienza rappresentare l’apice, la condensazione, la pienezza di sentimenti e percezioni così contrastanti? L’apice della solitudine e l’apice della comunione – con gli altri, con se stessi, persino con la natura. Ci sembra a volte impossibile che la festa possa contenerli tutti”.

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