di Sara Nocent
“La città che quando è senza vento permette agli artisti di ritrovare se stessi”
All’improvviso, o forse ormai da tempo, il vento caratteristico di Trieste ha smesso di correre per le sue vie. Non soffia più, non parla più. Ci si potrebbe chiedere che cosa resta ora, che cosa può succedere.
Ci troviamo di fronte a una città riscoperta ed evocata dalle voci e dai pensieri degli artisti che popolano Trieste senza bora, libro di Corrado Premuda edito da Watson nel 2021.
Diverse vite si sfiorano in uno spazio urbano e letterario dove i tempi si confondono e si aprono addirittura a ricordi futuri e dove alcune parole sembrano restare sospese, non più portate via dal vento.
Movimento
La città è il punto di convergenza di tre storie caratterizzate da movimenti diversi: un ritorno, una visita, una partenza. Una musicista convalescente torna a Trieste aspettando qualcuno, un grande regista teatrale polacco si aggira in cerca di ispirazione, una pittrice triestina trasferitasi da anni a Parigi riceve la visita di un misterioso figlio.
I protagonisti hanno in comune il fatto di essere artisti, stranieri in una terra straniera in cui si consumano riconoscimenti e addii. Trieste li accoglie come un “approdo, rifugio, città-raccoglitore”, come leggiamo in uno degli estratti rubati dagli appunti per un nuovo spettacolo intitolato I reduci, raccolti probabilmente dalla penna del regista in cui ci sorprendiamo di riconoscere Tadeusz Kantor.
Il passaggio di quest’ultimo a Trieste si compone di una serie di visite ad alcuni luoghi caratteristici come l’ex ospedale psichiatrico, Kleine Berlin, il Molo Audace. La città si presenta come una scacchiera metafisica su cui si muovono uomini e fantasmi alla ricerca dei ricordi più intimi, di ritorni mancati.
Ma non si può restare. In un luogo che spinge i suoi abitanti a essere viaggiatori bisogna partire proprio quando si è trovato qualcosa.
Assenza
La bora è un fenomeno “simbolico, letterario”, come nota uno dei personaggi: il vento parla senza il permesso di un autore, si lamenta, dice forse la verità.
Proprio la mancanza di questo discorso ulteriore, che resta invocato con nostalgia nella mente dei protagonisti, sembra spingere gli artisti a confrontarsi con le loro voci interiori.
Tuttavia, a lungo andare, il vento fuggito lascia spazio alla nebbia, al ristagno, al provincialismo. La città viene occupata dagli ottusi colombi di cui parla terrorizzata una madre alla figlia pittrice, che la ascolta al telefono nel suo salotto parigino. A sua volta, la donna si trova di fronte a un giovane artista che è forse un ammiratore, un figlio, un soggetto uscito dai suoi quadri.
Le storie sono attraversate anche da queste figure di madri-città lontane, assenti, ritrovate.
Pluralità
Nel libro i punti di vista si moltiplicano e si fondono. Gli specchi che ritroviamo nelle storie fanno svanire i limiti dove cominciano e finiscono le vicende dei personaggi.
Trieste moltiplica questo gioco di riflessi attraverso le testimonianze di diverse epoche e culture. Ma sono le persone a offrire lo spettacolo più sorprendente grazie alla fluidità con cui passano da un’identità all’altra, da un genere all’altro. Umano e animale si incontrano e condividono sensazioni, mentre le voci maschili e femminili sono libere di scambiarsi e di unirsi in un unico canto androgino nel suggestivo “sesto rigo” di cui parla il primo racconto.
Arte
Non solo letteratura. A Trieste grandi artisti del mondo della musica, del teatro e della pittura si interrogano su ciò che li lega a questo luogo e ispira la loro arte.
La loro creatività cerca tra le vie, nella semplicità dei colori, delle voci dei passanti. Tuttavia, le loro opere non rappresentano direttamente posti e situazioni: si mettono piuttosto in ascolto, si lasciano suggerire. Una città-madre-specchio li guarda e in essa riflette un intero secolo.
In un caso sembra addirittura che la bora, soffio e anima triestina, si sia trasferita a Parigi seguendo una delle pittrici più ribelli e cosmopolite del Novecento italiano: Leonor Fini.
Appartenenza
La bora quindi non solo arriva ma può anche partire seguendo il destino dei viaggiatori. Ci si potrebbe chiedere ora se è questo vento ad appartenere a Trieste oppure l’incontrario. In realtà è una domanda che non ha molto senso: il vento è indipendente, il vento è gatto, foglia, spirito. A sua volta il lembo di terra su cui soffia non si lascia definire, è dove capiamo che appartenere non vuol dire stare bensì, molto più spesso, ritornare, anche solo con il pensiero.
Ed è questo l’invito di Trieste senza bora: un ritorno alla città, ai suoi luoghi immaginati, alle sue storie uniche.