di Giovanni Tomasin*
Una premessa. Il presente articolo è stato scritto nel febbraio di quest’anno per il sito d’informazione curdo Şırnak Medya. Era in corso la battaglia di Kobane, il mondo era ancora sconvolto per gli attentati di Parigi. Ora la battaglia contro l’Isis infuria sullo Sinjar, ma è sempre Parigi ad essere colpita dal terrore. Quanto scritto allora vale oggi.
“Se Dio non esiste, allora tutto è lecito” è una frase apocrifa di Dostoevskj: anche se l’autore non la scrisse mai, esprime in sintesi il pensiero di un suo personaggio, Ivan Karamazov. Negli anni scorsi il filosofo sloveno Slavoj Žižek ha utilizzato l’espressione, rovesciandola, per descrivere il dispositivo che permette al radicalismo religioso di operare in politica: “Se Dio esiste, allora tutto è lecito”.
In queste parole si cela la chiave ideologica dei movimenti reazionari, dell’odierno Is come dei fascismi del secolo scorso. Il fine dichiarato di queste forze politiche è sempre lo stesso: combattere la “decadenza” della società moderna contrapponendole dei presunti valori “eterni”, ben sintetizzati dalla triade fascista “Dio, Patria, Famiglia”. Dogma religioso, gerarchia, patriarcato sono i mezzi che il reazionario si propone di utilizzare per curare la “mollezza” del mondo moderno. I cardini del conservatorismo convertiti al totalitarismo.
È in questa posizione che dobbiamo andare a cercare il duplice meccanismo che fa dei movimenti reazionari un prodotto tipico della modernità capitalista, ovvero qualcosa di molto lontano dalle velleità rivoluzionarie che essi stessi si attribuiscono. Il primo aspetto è forse il più scontato: pur criticando nella forma lo stato di cose presente, il reazionario non sottopone mai a critica reale la sostanza, ovvero la struttura economica su cui si regge il sistema. Il regime nazista non ha mai costituito un problema per gli industriali tedeschi, così come oggi l’Is non propone null’altro che la creazione di un altro stato imperialista nel cuore del Medio oriente.
L’altro aspetto del meccanismo è di carattere ideologico e verte sul rapporto del reazionario con il nichilismo. Formalmente il nichilismo è agli antipodi dei movimenti antimoderni, che infatti vedono in esso il nemico da distruggere: la colpa maggiore che i reazionari imputano alla modernità, in fondo, è il «relativismo» e lo svuotamento dei valori che essa porterebbe con sé. Ma il rapporto tra i due è più complesso: un apparato ideologico reazionario è il requisito indispensabile per la creazione di movimenti nichilisti di massa.
Il Nulla è un fardello difficile da portare. La completa assenza di senso, l’inconsistenza di qualsivoglia verità, la liceità per l’uomo di compiere qualsiasi genere di atto non sono basi sulle quali si possano mobilitare grandi masse. “Avanti, date sfogo ai vostri impulsi più segreti, nessuno vi punirà!” non è un appello a cui la maggior parte degli esseri umani risponda con coscienza tranquilla.
Bisognerebbe poi chiedersi se prendere atto del vuoto porti in modo automatico alla liberazione degli istinti repressi e mortiferi dell’uomo: secondo Nietzsche l’assunzione su di sé del nichilismo è il primo passo per il suo superamento. Il filosofo tedesco sostiene che chi ha la forza di lasciarsi alle spalle ogni sistema di regole domina le proprie pulsioni elementari, non ne è dominato.
L’unico modo per scatenare quegli istinti, e per farlo su larga scala, è lasciare al soggetto un feticcio che gli consenta di sentirsi “una brava persona” a dispetto degli atti che compie. Per farlo il movimento reazionario crea un’area protetta, una comunità di eletti, all’interno della quale valgono ancora i principi tradizionali, mentre fuori dai suoi limiti gli istinti peggiori hanno libero corso. Qualsiasi materiale ideologico può prestarsi a definire l’area confortevole di “normalità”: la “Nazione”, la “Razza”, la “Fede” sono tutti potenziali denominatori del “Noi” che delimita la zona in cui le vecchie regole del vivere sociale sono ancora valide. Ecco quindi che l’ufficiale delle Ss può essere un buon padre quando siede al tavolo circondato dalla moglie e da un gruppo di bambini biondi, senza porsi alcun problema quando al mattino dopo va al campo di concentramento a far uccidere centinaia di persone. Ecco quindi che il militante di Daesh può sentirsi un buon musulmano, pregare cinque volte al giorno, frequentare la moschea e al contempo decapitare, violentare e brutalizzare quelli che un tempo erano i suoi vicini. In entrambi i casi il meccanismo che consente al soggetto di compiere gli atti più nefandi senza impazzire è lo stesso: “Con i miei fratelli tedeschi, con i veri musulmani, sono un buon tedesco e un buon musulmano. Con tutti quelli che non rientrano in questa categoria io posso fare ciò che desidero, in fondo non sono nemmeno umani”. Superfluo specificare che il movente segreto di tutto ciò non è l’essere una “brava persona” all’interno del proprio gruppo, bensì il poter dare libero corso agli istinti distruttivi con il resto del mondo. Ecco spiegato il “se Dio esiste, allora tutto è lecito” di Žižek.
Il desiderio segreto di disporre illimitatamente del prossimo, ridotto a oggetto inanimato, è in fondo un riflesso del mondo consumista. Ciò è evidente nel caso dell’Is e dal modo in cui il movimento rappresenta sé stesso. L’immaginario prodotto dalla macchina del consumo capitalista è una componente essenziale dell’odierno “pseudofondamentalismo islamico”, come spiegato dallo stesso Žižek in un recente articolo per New Statesman. Integralismo e capitalismo sono fenomeni intimamente connessi, poiché il primo è un sottoprodotto dell’estensione mondiale dell’altro. Ciò si riflette fin nei minimi dettagli, ad esempio nei video di propaganda dell’Is, infarciti di cliché hollywoodiani e di citazioni involontariamente postmoderne dal mondo dei videogiochi. La stessa identità autenticamente «islamica» rivendicata dal sedicente califfato non è altro che la riproposizione degli stereotipi orientalisti disinnescati ormai decenni fa da Edward Said: il modo in cui Baghdadi e la sua banda di criminali si raccontano ha molto a che fare con film come Lawrence d’Arabia e Le crociate di Ridley Scott e nulla a che fare con la realtà dei califfati dei primi secoli dell’Egira.
Il califfato di cartapesta di Daesh ricorda da vicino le ridicole scenografie del fascismo italiano, volte a stabilire un legame del tutto immaginario fra l’Italia moderna (uno stato nato in seguito a sanguinose guerre di conquista nel XIX secolo) e le antichità dell’impero romano. In questo senso i movimenti nichilisti-reazionari condividono la caratteristica di inghiottire il materiale culturale che hanno a disposizione per vomitarlo poi sotto forma di uno sgangherato polpettone ideologico, utile alla mobilitazione totale.
L’operazione che i fascismi del XX secolo portarono a compimento con i valori conservatori della borghesia, trasformare la triade “Dio, Patria, Famiglia” in un feticcio totalitario, è la stessa che oggi lo Stato islamico mette in atto portando all’estremo gli aspetti conservatori dell’islam. L’idea che il mondo sia opera di Dio diventa una scusa per giustificare qualsiasi forma di male, soprattutto quando a realizzarlo sono i fedeli: si crea così un ordine sacro artificiale, in cui tutto è destinato a essere sottomesso allo Stato islamico e tutto ciò che lo Stato islamico fa è sacro. Ne consegue che i militanti di Daesh possono fare tutto.
Per comprendere meglio il rapporto che intercorre tra fascismo e valori borghesi, così come tra l’Is e la religiosità tradizionale, possiamo forse ricorrere a una fonte teologica. Ovvero a quel che Sergio Quinzio, il più eretico dei teologi italiani del secolo scorso, scrisse nella sua opera La croce e il nulla, testo in cui si interrogava sul rapporto fra fede e nichilismo:
L’ordine sacro, qualunque ordine sacro, elude lo scandalo del male, e mediante tale elusione acquista il suo titolo di credito mondano. Il suo compito consiste nel convincere che la realtà del mondo è, per l’appunto, un ordine sacro, dove tutto cioè accade secondo i divini decreti, che dispongono ogni cosa per il meglio. Se il terremoto di Lisbona ha potuto scuotere in Voltaire la fiducia nel migliore dei mondi possibili, se per Dostoevskij niente e nessuno, nemmeno Dio, può giustificare le lacrime di un bambino che soffre, per l’uomo dell’ordine sacro, questo progenitore del borghese con le sue sicurezze, tutto invece è perfettamente logico e perfettamente giustificato per definizione.
Il parallelo che Quinzio traccia tra borghese e uomo dell’ordine sacro consente di spiegare il carattere nichilista dei movimenti reazionari. L’ordine borghese e quello sacro consentono di “farsi una ragione” del male, giustificandone l’esistenza: il ragionamento reazionario porta a un rovesciamento paradossale di quell’ordine, liberando il soggetto da ogni limite morale purché sfoghi i suoi istinti al di fuori dei limiti ristretti della comunità “eletta”. Al di fuori della propria area di sicurezza, il reazionario non si limita a giustificare il male, ma è libero di metterlo in atto senza sensi di colpa: tutto ciò che accade è giustificato da Dio, quindi al seguace di Dio è permesso di compiere qualsiasi azione nei confronti di chi è escluso dagli “eletti”.
Nel corso degli ultimi anni Mario Tronti, il filosofo e politico fondatore dell’operaismo, si è interrogato sul possibile rapporto fra fede e politica: secondo Tronti la divisione non corre più tra chi crede e chi non crede, ma tra “idolatri e non idolatri”. Il filosofo sostiene che per essere in pace con sé stessi, oggi, è necessario “essere in guerra con il mondo”. Per “mondo” qui si intende proprio quell’ordine sacro adorato come un idolo dagli integralisti: un’eternità di plastica che trasforma il vivere degli uomini in un luna park della morte, in cui tutto è lecito e giustificabile. Contro una simile spiritualità distorta, glorificante il dolore, Tronti si accosta allo “Spirito che disordina il mondo”, alla forza incontenibile che rifiuta di accettare le “lacrime di un bambino che soffre” di cui parla Dostoevskj.
Non c’è dubbio che questo “Spirito” di libertà soffi oggi a fianco di chi nel Rojava e nel Kurdistan iracheno combatte contro il sedicente Stato islamico: le guerriere e i guerrieri curdi e degli altri gruppi etnici e religiosi che lottano al loro fianco per affermare i principi libertari e socialisti della democrazia, del femminismo, dell’ecologismo. In giorni in cui le Cassandre dello “scontro di civiltà” tornano a chiedere nuove guerre sante, è importante ricordare a tutto il mondo che sono i soldati di Ypj e Ypg, e non i capi di stato che hanno sfilato a braccetto nelle strade di Parigi, a difendere e incarnare i principi universali dell’umanità. Il ruolo simbolico della battaglia di Kobane è pari alla sua importanza militare: a Kobane non soltanto si combatte contro un male che riguarda l’umanità intera, lì si costruisce la speranza rinata di un mondo diverso. Kobane è una lama piantata nel cuore del Nulla.
Forse è appropriato concludere questa disamina con un’incursione nella cultura popolare, contrapposta all’uso schizofrenico che Daesh fa del cinema hollywoodiano, citando la serie televisiva True Detective. Guardando al cielo notturno siamo tentati di pensare che le tenebre abbiano conquistato molto più terreno rispetto alle stelle. Il reazionario direbbe che questo è l’ordine ciclico dell’universo e che il male è parte della struttura immutabile del tutto. Ma così non è: dove oggi vediamo le stelle un tempo era soltanto il buio. La battaglia tra la luce e l’oscurità è la storia più antica del mondo. E la luce sta vincendo.
* Articolo pubblicato su mimesis-scenari, lo riproponiamo qui con il consenso della testata