di Carla Troilo
Sono circa cinque giorni che tento di scrivere una recensione sull’ultimo film di Guadagnino e continuo a cancellarla perché cado nel manierismo.
Indubbiamente Bones and all è un film di maniera, è fatto a regola d’arte, un perfetto prodotto americano, forse una delle cose migliori che il cinema americano ci ha regalato negli ultimi anni. Tuttavia Bones and all è molto di più di un film ben confezionato, è molto di più dei corpi splendidi e della meravigliosa e impeccabile recitazione di Timothée Chalamet e Taylor Russel, è più di un road movie così come è più di uno splatter.
Bones and all ci mette a confronto con due cose: con la nostra fottuta nostalgia degli ultimi anni Ottanta e con ciò che chiamiamo desiderio. Si sono spese molte parole sul fatto che sia una tenera storia d’amore, seppure cannibale. Si sono già spese molte parole sul fatto che Guadagnino ci racconta l’America del secondo mandato di Regan e ci mostra spazi desolati, case dismesse e tanta marginalità. E in effetti questa è una storia ai margini, i due protagonisti vivono sulla soglia, una soglia che li separa dalla normalità perché sono terribili e pericolosi e non possono stare nel mondo, ma cercano disperatamente di poterlo abitare, o almeno di costruire un mondo per loro.
Ma proviamo a procedere con un po’ di ordine. Maren è una diciottenne che cerca di farsi nuovi amici nella città in cui si è appena trasferita con suo padre. Ha cambiato varie città, adesso cerca una vita normale e si reca, una sera, a un pigiama party a casa di una nuova amica. In quell’occasione, però, viene fuori la vera natura di Maren: ha fame di carne umana, certe volte non può farne a meno. L’emergere della natura di Maren porterà la giovane donna e suo padre a trasferirsi di nuovo, ma in quest’ultimo trasferimento suo padre si renderà conto che non può più stare con la ragazza, è maggiorenne ed è ora che se la cavi da sola, lasciandola con qualche soldo e un’audiocassetta che accompagnerà la giovane donna e noi spettatori per la prima parte del film.
Maren decide di partire, di andare alla ricerca di sua madre e per lei inizierà un viaggio nel Midwest, alla ricerca delle sue radici e di se stessa.
Scopre presto di non essere l’unica, in piena notte, mentre aspetta un autobus viene approcciata dal vecchio Sully che la riconosce dal particolare odore che emana, anche Sully ha fame di carne umana e le svelerà qualcosa su se stessa e su quelli come lei, eppure Maren, di Sully non si fida e scapperà via.
L’incontro con Lee (un formidabile Chalamet dai capelli rossi e i jeans strappati) non andrà allo stesso modo: l’odore è lo stesso, i due si riconoscono, ma intraprenderanno un viaggio assieme. Un viaggio alla ricerca della madre della ragazza, ma anche un viaggio di scoperta, dei loro corpi, della loro pulsione atroce, un cammino che si snoda tra i cieli sconfinati dell’America profonda, dormendo in case occupate solo temporaneamente e a volte scegliendo di dormire nella natura a bordo del furgone blu che accompagna i due ragazzi nel loro viaggio disperato eppure pieno di speranza, forse come solo la disperazione sa essere.
E qui entra in gioco il primo tema che ho evocato poc’anzi: la fascinazione per quegli ultimi anni Ottanta/primi Novanta che hanno segnato generazioni di quarantenni di oggi che non hanno fatto ancora i conti con ciò che sono stati, o che hanno sognato, sperato e immaginato. Chalamet è un Sid Vicius con la malinconia di Layne Staley, scattante, nervoso, bellissimo mentre si esibisce cantando un brano dei Kiss. Lee (Chalamet) ha fame, ma la sua è una fame di vita, divora la vita così come gli passa davanti, solo, disperato, tenero e romantico. Ama la sua famiglia, torna spesso dalla sorella minore, è un outsider, ma non lo è per scelta, lo è per necessità.
L’incontro tra lui e Maren è intenso, intimo, tenero e delicato. Nel loro viaggio incontreranno altri come loro, ma quell’incontro non li riconcilierà con la loro natura, anzi, sarà l’esatto opposto. Incontreranno una persona volgare, tronfia, che rende il dolore inflitto agli altri solo una sottospecie di godimento, come se il desiderio e la perversione non avessero a che fare con l’umanità.
In un discorso sguaiato e senza grazia, il cannibale dice qualcosa di interessante a Lee: “forse solo l’amore ti renderà libero”, non ci crede, lo dice prendendosi gioco di lui, eppure quella frase ci dice molto del senso del film. No, l’amore non renderà i due giovani liberi fino in fondo, ma per loro sarà una redenzione e in quella redenzione ci crederanno fino in fondo. Facendo i conti con il rimorso, con il senso di colpa, con la paura e con il loro desiderio, i due giovani proveranno a fermare il loro viaggio, a vivere una vita che possiamo chiamare “normale”, a tenere a bada la carne, a non avere più paura di ciò che sono.
Torniamo ai due motivi per cui questo film mi ha colpito: la nostalgia degli ultimi anni Ottanta e i conti che facciamo costantemente con il nostro desiderio. Sul desiderio, che dire, ritroviamo qui il dionisiaco nietzscheano in tutto il suo splendore: come non pensare alle menadi che sbranano Penteo nella loro orgia smaniosa. Si percepisce e si sente quel desiderio di carne, di lacerazione e dolore che i greci ci hanno cantato così bene. Ma, aldilà di questo, il film ci mette di fronte al nostro rapporto con il male, quel male che Bataille ha provato a decifrare e a redimere in molti dei suoi scritti. Il male con la M maiuscola, quel male che anela al sacrificio dell’altro, ma anche di noi stessi, e che in quel sacrificio estremo ci fa dire: “amami e mangiami”.
Senza nessuna scena erotica, il film riesce a rappresentare l’erotismo, un erotismo che, sempre con le parole di Bataille, è “l’approvazione della vita fin dentro la morte”, c’è tanta vita in Bones and all, così tanta che il confine tra vita e morte sfuma, in quella soglia che ci tiene sempre sull’abisso. Un abisso che abbiamo smesso di scandagliare, di vedere, che abbiamo sublimato e dimenticato.
Quell’abisso che Nietzsche in Nascita della Tragedia ci mostra bene citando Schopenhauer e l’uomo che sulla zattera guarda il mare in tempesta. Quell’abisso di desiderio che dobbiamo cercare di tenere a bada ogni giorno, perché altrimenti ci distrugge e ci conduce aldilà dei nostri limiti, in quella sfera dionisiaca che abbiamo rimosso, perso, cancellato e che spesso ci porta all’abiezione.
I due protagonisti di Bones and all non cedono all’abiezione, ma fanno i conti con il loro desiderio, con la morte e con il sangue, fanno i conti con il male e in quel male che li accompagna riescono a scoprire l’amore, tenero e feroce come solo l’amore vero, quello che è disposto a perdere e non a conservare, sa essere.
L’altro tema, strettamente connesso a questo, riguarda ciò che noi quarantenni ci portiamo dentro dagli anni Novanta (il film è ambientato nel 1987, ma il clima è quello, o almeno preannuncia ciò che sarà). Alcuni di noi hanno una malcelata nostalgia di quegli anni, che non hanno nemmeno vissuto veramente, ma che hanno annusato e sentito attraverso la musica e i film. Ciò che non ci fa abbandonare quell’immaginario, a mio avviso, è quello strano senso di sconfitta che ci portiamo dentro e al quale facciamo fatica a rinunciare.
Vite disperate, dissolute, sempre ai margini, raccontate dalla musica che ci diceva che non c’era speranza, eppure c’era qualcosa dentro quel dolore, anzi quel dolore era la salvezza e il nostro sublime. Mai arte ci ha riconciliato così tanto con la bellezza come quella musica gridata, graffiata e poco armonica che era la New Wave e poi il grunge, passando per il punk. Quella musica lì ci permetteva di vivere, di andare avanti, di sublimare rabbia e dolore, era il nostro dionisiaco. Guadagnino ci regala anche questo: Trent Reznor alla colonna sonora che con le sue chitarre ci accompagna e ci fa stringere cuore e stomaco a ogni accenno di melodia.
Una scena, poi, vale tutto il film. I due ragazzi nel furgone blu, i cieli del Midwest e l’inizio, sincopato e solo strumentale di Atmosphere dei Joy Division. Sentiamo la voce di Ian Curtis quando i due sono su una ruota panoramica, la musica è potente, ci entra dentro. I due si baciano e lei dice: “ho fame”. Fine della musica.
Una scena di rara bellezza, solo qualche minuto che resta attaccato addosso. Una scena, un film.