Uno spettro si aggira su questo sito – la voce anonima che conduce la scrittura di un articolo senza firma, simulando un sintetizzatore vocale incapace di comprendere ciò che legge. Se è vero che passiamo una buona parte della nostra esistenza connessi, e che nei manuali diagnostici di psichiatria ormai si parla, senza più remora, di “dipendenza da Internet”, è arrivato il momento – in un gesto di radicale strabismo – di guardarci negli occhi e interrogarci su quel che stiamo diventando, e che in parte siamo già.
Nel porci la fatidica domanda – chi siamo? – ci imbattiamo in un primo paradosso: lo sappiamo fin troppo bene, e al tempo stesso ne siamo completamente all’oscuro. Se il celebre incipit de La genealogia della morale – “Siamo ignoti a noi medesimi” – rimane in fondo attualissimo, al tempo stesso ci viene costantemente fornito, come risposta, un surrogato di identità: siamo la nostra immagine virtuale. L’avatar, emendato da tutto ciò che non crediamo sufficientemente in grado di riscuotere il consenso della nostra cerchia di “amici”, ha preso il posto del nostro corpo – con le sue storture, i suoi difetti, le sue difficoltà.
Questo processo di “psico-pulizia”, per certi aspetti più terrificante ancora della “psico-polizia” di orwelliana memoria, trova una sponda nell’algoritmo: ricondotta ogni soggettività alla rispettiva formula matematica, la nostra presenza virtuale si inscrive in una narrazione di cui sono già state dettate, proprio da noi stessi, le regole. E che si sviluppa costantemente senza possibilità di tradirle. Vedere soltanto una deteminata porzione di realtà – ciò che “mi piace” – porta infatti a quell’effetto “bolla” di cui i sociologi si stanno tanto interrogando, e così al perpetuarsi meccanico di ogni narrazione, al blocco delle alternative possibili. L’ultimo effetto di quel sistema politico che potremmo chiamare neoliberismo – la soggettività fluida: sii ciò che vuoi, al di là di ogni costrizione fisica o psicologica – si capovolge nel suo opposto: siamo divenuti servi di una narrazione edificata in tempi immemori da noi stessi.
È allora che l’alternativa si presenta in tutta la sua radicalità: scomparire. Il che non significa cessare di essere tout court, ma semplicemente rifiutarsi di ostentare una presenza ingombrante – nascondersi, evitare di lasciare tracce, novelli animali braccati da predatori a caccia di dati. L’effetto è duplice: bloccare quell’algoritmo in grado di restituirci l’immagine così perfetta di noi, e così facendo danneggiare – nell’unica maniera in grado di farli star male: economicamente – quelle realtà che sui nostri dati (la nostra anima) capitalizzano. La fine dei “Big Data” deve partire da noi, ne va della stessa possibilità del cambiamento (nostro, prima ancora che collettivo).
Ho preso questa decisione quando ho compreso che un “fake account” dall’identità fittizia era, in fondo, più reale di me – con i suoi commenti spasmodici e aggressivi, frustrati, una forza passivamente nichilista e continuativamente presente, pur nella sua assenza reale. Non mi si venga a dire che il concetto di realtà, oggigiorno, è superato: lo so bene, ma bisogna pur trafficare con queste parolacce arruginite, fino a quando non ne verranno coniate di nuove per descrivere ciò che ci circonda. Tutto è reale, così come niente (ormai) è più reale: qui la parola dimostra tutta la sua inadeguatezza, e arrossendo di vergogna si rintana in un angolo, coprendosi il viso tra le mani.
La prima frase (“Niente è più reale”) è tutta giocata sul piano della narrazione – profondamente ideologica – che la “rivoluzione digitale” fa di se stessa, e si sviluppa a livello degli effetti nella sua pervasività e nella possibilità di riplasmare continuamente il mondo, a partire dalla psiche degli individui connessi. Mentre la prima (“Tutto è reale”) dimostra la sua concretezza quando cambiamo prospettiva: internet è codice, ma prima di tutto si fonda su “magazzini digitali” di server pieni di informazioni – siamo al cospetto di una concretezza oscena, che però tenta di nascondersi dietro la retorica del cloud.
È in quei magazzini che è racchiusa la nostra “anima”, ed è lì che dobbiamo agire per smontarla, pezzo a pezzo. Ci sono pratici servizi in grado di assisterci nell’ardua impresa, mentre navighiamo nel web – a cominciare dal motore di ricerca DuckDuckGo, continuando con Tor, Https Everywhere, Ghostery… – ma lo strumento migliore resta senza dubbio l’autoconsapevolezza che ogni traccia potrà essere usata “contro di noi”. Costituirà infatti la base per produrre una richezza di cui non verremo resi partecipi, e che invece contribuirà a rafforzare i giganti hi-tech (Facebook, Amazon, Microsoft, Alphabet – ovvero Google – e Apple), già padroni incontrastati di quella che solo pochi anni fa era ancora terra di nessuno.
Fa quasi sorridere vedere i fautori del libero mercato tessere le lodi di un simile sistema, la cui prima conseguenza è il consolidamento di un progressivo monopolio – ecco un secondo capovolgimento, analogo a quello che dalla fluidità porta alla fissità dei soggetti. Un monopolio che verosimilmente si concluderà con la nascita di un’unica realtà (ovviamente privata) in grado di fornirci ogni tipo servizio: un processo già iniziato, visibile con l’acquisto da parte dei colossi prima menzionati di realtà concorrenti, e prefigurato da Dave Eggers nella finzione romanzesca The Circle. Nel ritratto distopico dello scrittore statunitense ogni anonimato è ormai reso, di fatto, impossibile: questo grazie all’unica azienda (il Cerchio, appunto) con la quale si interfaccia l’utente connesso, che in tal modo fornisce al colosso hi-tech un quadro completo della propria soggettività. Non a caso uno dei servizi offerti si chiama “TruYou”. L’identità su internet si trova a coincidere con quella “reale”:
La TruYou, inconfondibile e immodificabile, era la persona che pagava, firmava, rispondeva, visionaria e revisionava, vedeva ed era vista.
Mi si dirà: ma in tal modo si riesce a contrastare il fenomeno dei “fake account” tanto biasimato! Certo, ma a quale prezzo? Cosa ne resta dell’identità? Siamo davanti a un soggetto-consumatore, che giunge a fare persino della propria vita un bene di consumo: ogni esperienza non è tale se non è trasparente, se non viene condivisa sui social network, e perciò tramutata in dati in grado di accrescere il capitale (e il potere) del Cerchio. Tutto ciò vi suona familiare? Quanto si afferma nel romanzo non è pura fantasia: a osservare le politiche di Facebook, Google & co. (per non parlare dei comportamenti di chi naviga) ci si rende presto conto che si tratta del futuro verso il quale ci stiamo dirigendo.
Che fare allora? E cosa significa “scomparire” dal web? Se gli spazi d’azione (metaforici e non) sembrano sempre più ridotti, è giunta l’ora di riappropriarcene – insieme ai legami sociali da essi inscindibili. Per questo motivo non si deve scambiare questa “scomparsa” per una fuga, per un ritirarsi ascetico dalla comunità globale – lo si consideri invece l’inizio di una battaglia, giocata dentro e fuori queste regole. Dentro: nelle fenditure che ancora è possibile aprirsi nel mondo digitale, in bilico fra lecito e illecito, secondo una pratica costante di disobbedienza civile. Fuori: a tu per tu con dei volti sempre più ripiegati in basso, ingobbiti verso lo schermo del proprio smartphone, convinti che il mondo inizi e finisca in quel rettangolo di microchip e coltan.
Le immagini che accompagnano l’articolo sono tratte dalla geniale serie tv “Black mirror”, di cui consiglio la visione.