Appunti su Pavese, la poesia, il mito

di Giuseppe Navacolline

1. Lavorare stanca, unica raccolta poetica pubblicata in vita da Cesare Pavese, esce nel 1936. A quel tempo lo scrittore piemontese non ha ancora delineato quella “poetica del mito” che teorizzerà negli scritti del 1943-44, sotto l’influsso di studi di etnologia, e che metterà in pratica in romanzi come Feria d’agosto o La bella estate. Eppure già nelle poesie – a partire da quella I mari del Sud che costituisce il “nuovo inizio” di Pavese nel 1930 – se ne possono ravvisare i tratti. Le storie e i personaggi di Lavorare stanca, pure se riconducibili a precisi luoghi e vicende (le Langhe, terra d’origine di Pavese; Torino; il confino a Brancaleone Calabro), sono caratterizzati da una tensione che li porta al di fuori del tempo storico, a diventare storie e personaggi originari a cui ricondurre ogni storia e ogni personaggio successivi. Il primo centro e motore di questo meccanismo poetico è l’infanzia/adolescenza, il momento decisivo in cui si costruisce la mitologia personale dell’uomo a partire dalla scoperta del mondo. “Il mito è insomma una norma, lo schema di un fatto avvenuto una volta per tutte, e trae il suo valore da questa unicità assoluta che lo solleva fuori dal tempo e lo consacra rivelazione”, scrive Pavese nel 1943. Più di una poesia della raccolta è emblematica di questa tensione: Il dio-caprone, i vari Paesaggi, Mito (ça va sans dire…), Una stagione. “Ma la notte ventosa, la limpida notte / che il ricordo sfiorava soltanto, è remota, / è un ricordo. Perdura una calma stupita / fatta anch’essa di foglie e di nulla. Non resta, / di quel tempo di là dai ricordi, che un vago / ricordare” (La notte).

2. Il mito si costituisce come traccia originale, come stampo per ogni creazione futura. Per poter essere tale, non può derivare da questo mondo, ma va ‘raccolto’ da una realtà al di là del sensibile. Le parole del mito sono dunque parole magiche, e colui che le raccoglie – che quindi ha un contatto con questo mondo ‘altro’ – ha i tratti del veggente: Omero, il poeta, è cieco come Tiresia, l’indovino. Il momento di contatto con il mondo ultrasensibile si identifica con l’ispirazione, e si concretizza quindi nella poesia. Anche Pavese scrive di una “immagine o ispirazione centrale” che per il poeta è il “foco centrale non soltanto della sua poesia ma di tutta la sua vita”. D’altronde il momento dell’ispirazione è il luogo comune per eccellenza di ogni attività artistica, fino a diventare un abusato stereotipo. Ma la poesia non è il mito: “in essa si sa d’inventare, ciò che non accade nel concepire mitico. La ragione perché la poesia può nascere sempre e dovunque e invece ogni popolo finisce per uscire dal suo stato mitologico, è che per trasformare in fede l’invenzione non basta volere”. Il mito dell’infanzia che sta alla base della vita dell’uomo si sfalda man mano che l’uomo stesso ne prende coscienza, riducendolo a una “inconsapevole forma del nostro fantasticare”. Pertanto, “la vita di ogni artista e di ogni uomo è come quella dei popoli un incessante sforzo per ridurre a chiarezza i suoi miti […] cioè distruggerli”. “Ridurre a chiarezza” il mito significa, per il poeta, disintegrarlo nella consapevolezza critica della propria opera. A quel punto l’ispirazione si è affievolita, e la poesia si illude di poter attingere ancora alla potenza insita in quell’unica immagine originaria. Ma “il mito vive di fede”, e solo così è possibile credere e riproporre l’evento in un rito che lo mantiene al di fuori della storia. “Soltanto tempre straordinarie di creatori riescono a conservare sotto questa tensione religiosa la prontezza e l’agilità del mestiere poetico. […] I più forti […] sfondano il mito e insieme lo preservano ridotto a chiarezza”.

3. Sulla fascetta editoriale dell’edizione definitiva di Lavorare stanca (1943), lo stesso Pavese fa scrivere “Una delle voci più isolate della poesia contemporanea”. Non si può certo dargli torto, se confrontato con la poesia italiana di quegli anni. Ne prende le distanze fin dalla scelta metrica: “Mi ero altresì creato un verso […] il verso libero non mi andava a genio, per la disordinata e capricciosa abbondanza ch’esso usa pretendere dalla fantasia […] Nei metri tradizionali non avevo fiducia, per quel tanto di trito e di gratuitamente (così mi pareva) cincischiato ch’essi portano con sé”. Ecco dunque una “cadenza enfatica” assimilabile a un ritmo anapestico (tecnicamente: sequenze di due sillabe atone e una tonica; Alfredo Giuliani, nel saggio La forma del verso, suggerisce un antecedente nei doppi ottonari dal ritmo dattilico di Emilio Thovez), anche se lo stesso Pavese sconfessa ogni intento di trasformazione ‘barbara’ e rivendica piuttosto una scoperta semi-istintiva.

Su questo ritmo Pavese crea delle scabre narrazioni – delle poesie-racconto – in cui si evidenzia tutta l’angoscia del suo sguardo sul mondo. Appuntando dettagli su un paesaggio umano e geografico desolato e desolante, dominato dalla necessità di lavorare per (soprav)vivere, egli fissa immagini con tanta laconicità che a volte rasenta la monotonia. Si tiene così alla larga da retorici slanci lirici, mantenendo intatta una sentita e rispettosa adesione a quelle comuni, ‘piccole’ storie disperate in cui trova tanta grandezza. Come quella di Deola, la prostituta: “È intontita ma fresca stavolta, / e le piace esser libera, Deola, e bere il suo latte / e mangiare brioches. Stamattina è una mezza signora / e, se guarda i passanti, fa solo per non annoiarsi”; oppure la donna che ha ucciso il marito nel campo: “e la segue il fruscìo della brezza sui sassi / e una sagoma tenue che le morde le piante, / e la doglia nel grembo. Rientra curva nell’ombra / e si butta sui sassi e si morde la bocca. / Sotto, scura la terra si bagna di sangue” (da confrontare qui col Machado di La tierra di Alvargonzàles). O ancora l’uomo solo che è stato in prigione di Semplicità: “Uno crede che dopo rinasca la vita”.

4. Grazie ai diari e ai molti scritti letterari lasciati da Pavese, sappiamo del suo fortissimo senso autocritico, della sua lucida capacità di analizzare il proprio lavoro. Ma fa comunque un certo effetto la disarmante onestà con cui sembra liquidare l’esperienza poetica di Lavorare stanca nel breve saggio A proposito di certe poesie non ancora scritte, messo a postfazione dell’edizione ’43. Inserendo nell’edizione definitiva alcune poesie scritte tra il 1935 e il 1940, Pavese si domanda se da quelle egli può presagire un futuro lavoro poetico: “Non pare. La novità di Lo steddazzu era solo apparente. Il mare, la montagna e la stella, l’uomo solo, sono elementi o fantasie che si trovano già in Ulisse, in Gente spaesata, in Mania di solitudine. Né il ritmo del fantasticare è diverso o anche solo più ricco che in passato. Non si esce dalla figura umana veduta nei suoi gesti essenziali e attraverso questi raccontata». In inglese si usa l’espressione “one-trick writer” per definire in senso dispregiativo un autore che sfrutta sempre gli stessi trucchi ed espedienti, diventando prevedibile e noioso – un po’ come l’amico che racconta sempre la stessa barzelletta. Pavese non vuole essere un one-trick writer, innanzitutto per onestà verso se stesso: il progetto di Lavorare stanca è concluso, su quelle stesse basi non è possibile produrre più nulla, bisogna ripartire da zero. Il mito è stato ridotto a chiarezza, e il nuovo percorso dovrà confrontarsi in un altro modo con quell’assoluto “fuoco centrale”. Lo scritto si conclude rimarcando questa consapevolezza come base del futuro lavoro poetico. Siamo nel 1940. Prima di togliersi la vita dieci anni più tardi, consumato da una depressione sempre più cupa, Pavese pubblicherà in rivista solo altre nove poesie sotto il titolo La terra e la morte, mentre compariranno postumi i testi di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.

5. “Ma non è da credere che in sé quest’esperienza del mito sia un privilegio dei poeti e, a un grado più discosto, dei pensatori. È un bene universalmente umano, è la religione che sopravvive anche nei cuori più squallidi o più meschini, i quali sarebbero ben stupiti se qualcuno gli spiegasse che dentro di loro è un germe che potrebbe diventare una favola. E occorre dirlo? – la condizione su cui si fonda l’universalità e la necessità della poesia” (C. Pavese, Il mito, in “Cultura e Realtà”, n.1, maggio-giugno 1950).

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