Intervista a Devis Bonanni
di Stefano Tieri
L’alternativa al modello di produzione capitalista esiste: si chiama decrescita, ed è ben diversa dallo stereotipo con cui questa corrente di pensiero viene raccontata dai mass media, dove l’oscuro quanto urticante concetto viene di fatto sovrapposto – in senso dispregiativo – a quello di crisi economica. E se invece il discorso si potesse ribaltare mostrando come, proprio attraverso delle pratiche di decrescita (individuali e collettive), si possa superare l’impasse determinato dall’attuale crisi economica? La posta in gioco è decisiva: si tratta di una radicale mutazione di prospettiva, che ridefinisca le nostre priorità e i valori che organizzano le nostre vite. Consumare di meno, eliminando il possibile (“i beni superflui rendono superflua la vita”, ammoniva Pier Paolo Pasolini), puntare alla sostenibilità alimentare ed energetica, mantenendo sempre un occhio di riguardo agli equilibri dell’ecosistema di cui facciamo parte. Un’alternativa che, pur partendo dalle iniziative del singolo, punti a riscoprire il valore della comunità e del suo auto-sostentamento, mirando a sviluppare piccole reti di economia solidale.
Devis Bonanni, già autore di Pecoranera, torna in libreria con Il buon selvaggio, pubblicato sempre da Marsilio. Se il testo d’esordio era principalmente autobiografico e raccontava la vita di un informatico che decide di abbandonare il “posto fisso” per fare il contadino, qui l’autore entra di petto nell’attuale dibattito su tutto ciò che ruota attorno al buen vivir. Nell’Europa di oggi si discute sempre più di alimentazione sana, le aziende fanno a gara a sfoggiare il marchio “bio” e non è più possibile trovare un esperto che non spenda qualche buona parola sulla così detta “green economy”. Devis cerca di fare ordine in questa confusione, dove tutti – a parole – sembrano essere d’accordo, mentre la devastazione del pianeta continua indisturbata.
“Il Buon Selvaggio non sono io o l’ultimo indio dell’Amazzonia. Il Buon Selvaggio è dentro ognuno di noi e se vogliamo darci una mossa per cambiare le cose dobbiamo ascoltarlo”. La responsabilità collettiva parte dai singoli, non possiamo sentirci chiamati fuori dalla sfida che determinerà il nostro prossimo futuro.
Partiamo dalla fine (del libro). L’Expo di Milano, optando per un titolo come “Nutrire il pianeta. Energie per la vita”, ha scelto di focalizzarsi sul tema dell’alimentazione. Scrivi di esserci andato “per dovere di cronaca”. Qual è l’idea che ci si fa una volta usciti dalla kermesse, dove il Mc Donald si trova a due passi dallo stand di Slow Food?
L’Expo tradisce il suo slogan preferendo essere un evento eno-gastronomico. Chi ci entra con poche idee esce con idee confuse. Sembra che gli organizzatori non si siano nemmeno posti la domanda “nutrire il pianeta, come?” ma che si accontentino di un risultato enciclopedico proponendo un itinerario nella world cousine e sulle diverse modalità di consumare il cibo (da Mc Donald a Slow Food, per l’appunto).
Il cibo a Expo è sempre presente, abbondante, sicuro, facile e a portata di mano. Se un extraterrestre visitasse la manifestazione milanese si convincerebbe che la fame è l’ultimo dei problemi di quest’umanità.
L’alimentazione è strettamente legata alla salute. A tal proposito hai una posizione molto chiara, in netta antitesi alla fiducia nelle “magnifiche sorti e progressive”, riguardo l’aspettativa di vita delle giovani generazioni.
Siamo d’accordo sul fatto che la medicina compia passi da gigante. Quello che non leggiamo tra le righe è che la sanità costa. È un po’ come sostenere una guerra: alla lunga, se hai troppi nemici su troppi fronti, i rifornimenti per le tue truppe inizieranno a scarseggiare. Curare malattie cronico-degenerative (diabete, tumori, problemi cardiovascolari, osteoporosi,…), che si stanno trasformando in epidemie, non è alla portata dei nostri sistemi sanitari. E infatti sottotraccia si inizia a parlare di sanità privata, polizze assicurative e i medici vi scongiurano di “camminare almeno mezz’ora al giorno a passo svelto ed evitare le bibite zuccherate”. Purtroppo non c’è peggior sordo…
Uno dei tuoi bersagli critici è il nostro modello economico, “divinità assoluta” per la quale persino la patologia è fonte di business. Quale altra economia contrapporre e secondo quali strumenti? Che valore ha la comunità in tutto ciò?
Io sento che come esseri pensanti abbiamo abdicato parte della nostra sovranità. Si dice: “il mercato” e questa parola galleggia nell’aria senza che ne afferriamo la sostanza, il significato. È un neo-paganesimo con tante nuove divinità: il “PIL”, la “domanda”, la “produzione industriale”. Tutto è sacrificato e tutto pare sottomesso a una nuova religione.
A questo non so bene come oppormi. Forse si potrebbe ripartire dalle cose semplici. Ricreare filiere locali tra persone che si conoscono e che imparano a fidarsi le une delle altre. Magari per rispondere intanto ai bisogni primari come il cibo, la casa, la socialità, la mobilità. Sarebbe una buona palestra. Alcuni la chiamano “economia solidale”. Sento che c’è bisogno di sperimentare.
A tal proposito, nel libro menzioni un esempio virtuoso: il caso della cittadina inglese di Todmorden, dove l’agricoltura è integrata e diffusa sul territorio. Come funziona?
Si tratta di un piccolo centro che si è posto l’obiettivo di raggiungere l’autosufficienza nell’approvvigionamento di frutta e verdura in pochi anni. Per fare ciò ha coinvolto i suoi circa diecimila cittadini in un recupero e riuso delle aree pubbliche e private adibendo giardini pubblici e terreni abbandonati ad orto-frutteto. Ovviamente per fare ciò è stato necessario un dibattito pubblico, l’assistenza di amministratori attenti e corsi di formazione per la cittadinanza.
La cittadina ha capito che si possono risvegliare energie sopite (il tempo libero, i disoccupati, i pensionati, i bambini) per creare piccole reti di auto-produzone gestite dal basso molto più performanti e sensate della grande distribuzione.
A chi propone di “tornare tutti alla terra”, si potrebbe ribattere che la popolazione mondiale è ormai troppo grande per poterlo permettere. Nel tuo libro riporti l’opinione di Strauss, per il quale la libertà dell’indigeno è tanto maggiore quanto grande è lo spazio che egli ha a disposizione. L’autosufficienza alimentare è possibile anche su larga scala?
Potrei rispondere con una domanda: il sistema agro-industriale è sostenibile? Per produrre una chilocaloria alimentare ne consumiamo svariate di origine petrolifera. È opinione ormai diffusa che sistemi di produzione e distribuzione su piccola scala siano più sostenibili. Non si confonda produzione locale con abbandono della meccanizzazione. Mi piacerebbe solo capire perché importiamo zucchine dalla Germania in pieno agosto. Una società che delega al 3% della popolazione la produzione di tutto il cibo secondo me sottovaluta l’impatto e l’importanza che l’alimentazione ha nella storia dell’umanità.
Nelle pagine del tuo libro emerge il forte legame che hai con la tua terra, la Carnia. Un territorio con forti problemi: come osservi, “molto dell’umanità rurale di queste contrade è già andato perso o è stato musealizzato”. Se nella campagna di un tempo società e natura trovavano un qualche bilanciamento, questa condizione sembra essere difficile da raggiungere ora.
Dal momento in cui la terra diventa fattore produttivo la campagna si trasforma in un mero asset economico. A cosa serve la montagna? Qualche cava, un po’ di formaggio e una valvola di sfogo per chi vive e produce in città, nei grandi poli industriali. Sarebbe come dire che uno si chiude in casa (la città) per sei giorni su sette, poi la domenica esce in giardino ed esclama: ma qui è tutto abbandonato!
La via “metropolitana” è un modo per creare masse ricattabili. Il contadino che in campagna aveva tutto (una casa, una famiglia, il cibo, una rete sociale) va in città ed improvvisamente si scopre solo, costretto al mutuo o all’affitto, obbligato all’acquisto coatto perché l’unica cosa che gli è rimasta è la sua forza lavoro da barattare per uno stipendio.
Forse a noi sembra che vada tutto bene ma che mi dite dei paesi in via di sviluppo? Consiglio di leggere gli ammonimenti di Gandhi a proposito della situazione dell’India. Gandhi lottò per salvare l’India dei villaggi. Nel villaggio vedeva l’autonomia e la dignità di uno sviluppo possibile attraverso una tecnologia su piccola scala, gestibile da basso. Insomma una grande democrazia basata sulla democrazia delle risorse e della produzione diffuse e non centralizzate. Purtroppo, in India come altrove, si è verificato l’esatto opposto, cioè la crescita selvaggia delle megalopoli.
Il tema dell’eco-sostenibilità pare essere finito al centro dell’attenzione mediatica. Persino i grandi colossi industriali ora parlano di “green economy”…
“Che tutto cambi affinché nulla cambi” si diceva ne Il Gattopardo. L’economia vince perché cattura l’anima di qualsiasi spinta al cambiamento assorbendola in se stessa. Ed ecco che la spinta al “green” diventa “green economy”. Della serie, ditemi ciò che vogliono e noi glielo daremo!
In seguito alla pubblicazione del tuo primo libro aveva fatto scalpore la notizia che vivevi con soli 200 € al mese. Una vita in qualche modo legata alla “rinuncia”, parola che giudichi “abolita dalla neolingua che ha accompagnato i vari boom economici”. Qual è la posta in gioco di questo sacrificio?
Rinunciare ha oggi un’accezione unicamente negativa. Io ho sperimentato che rinunciare è altrettanto appagante di soddisfare il desiderio. Ovviamente non una rinuncia fine a se stessa ma come puntello di una presa di coscienza delle mie vere necessità. Forse un percorso quasi liberatorio in un’epoca dove gli oggetti ci assediano. Per fare spazio alle cose che contano davvero.
Nel corso de Il buon selvaggio tessi un dialogo continuo con la civiltà dei nativi americani, considerati una specie di antitesi rispetto alla nostra per quanto riguarda il rapporto tra uomo e natura. Qual è il loro principale insegnamento a cui oggi dovremmo prestare ascolto?
Ciò che è stupefacente è come una società letteralmente all’età della pietra avesse conseguito uno sviluppo spirituale ed ecologico così profondo e ragionato. Ci si potrebbe chiedere chi fosse, all’epoca, il vero selvaggio. Gli Stati Uniti sono nati da un olocausto etnico ed ecologico innescato dagli europei dell’epoca. La storia stessa di questo popolo e le testimonianze raccolte dai pochissimi coloni che ebbero l’intelligenza di stabilire un dialogo con gli indiani ci parlano di un ecologismo ante-litteram. Consiglio, oltre il famosissimo testo Alce nero parla di J. Neihardt anche l’ottimo Strade Rosse di W. McClintock.