di Andrea Muni
Si è scritto e detto molto sulla figura “scandalosa” di Georges Bataille, forse troppo. Al contempo è pur vero anche il contrario, l’importanza e il ruolo avuti da Bataille nella cultura del suo tempo rimangono infatti ad oggi clamorosamente silenziati (e non è difficile comprenderne i motivi, se lo si è letto anche solo di sfuggita).
Bataille è un autore incredibilmente in sintonia col nostro tempo, al punto tale che leggerlo fa quasi male. Ma cosa vuol dire “il nostro tempo”? Sarei tentato di rispondere molto seccamente, e nietzscheanamente, che il nostro tempo è quello di una storica, e per certi versi inavvertita, trasformazione nella morale. Si sente spesso lamentare l’assenza di morale e di moralità (il “nichilismo”) di cui la cultura neo-liberale sarebbe foriera, ma personalmente non credo che le cose stiano esattamente così: la cultura neo-liberale è altamente morale, il punto è piuttosto che essa ha prodotto e produce valori nuovi e differenti rispetto a quelli “tradizionali”: buono oggi – nella nostra cultura – non è chi aiuta gli altri, chi si fa in quattro, chi si sacrifica; cattivo non è chi mente, ruba, froda, odia. Buono è piuttosto chi vince, chi si soddisfa, chi si realizza, chi si diverte, mentre cattivo è chi perde, chi soffre, chi piange, chi è insoddisfatto, chi invidia.
Questa è la morale neo-liberale, una morale (forse solo) apparentemente simile alla morale dei Signori della Genealogia nietzscheana, e piaccia o no essa ha il pregio/difetto di aver polverizzato la morale cristiano-cattolica che ha pervaso l’Occidente negli ultimi due millenni. Eppure, come ogni morale, anche quella neo-liberale si regge sul suo peculiare segreto di Pulcinella: essa è solo una regola del gioco, prodottasi storicamente e politicamente in virtù del fatto che “soddisfa a qualcosa”. In Bataille possiamo trovare una quantità sconvolgente di entrate e di strategie attraverso cui poter provare a sovvertire, per noi stessi (sempre che la cosa ci interessi), la regola d’oro della morale neoliberale, quella che presiede alla soddisfazione individuale.
Purtroppo non è questa la sede per passare in rassegna la sterminata opera di Bataille. Vorrei limitarmi piuttosto a qualche flash, inevitabilmente e ridicolmente disordinato e incompleto, ma per lo meno ben raccordato con alcune delle situazioni più pratiche e attuali della nostra quotidianità.
La prima considerazione che mi preme concerne l’attuale esperienza della sessualità e del godimento sessuale. È un opinione abbastanza diffusa al giorno d’oggi quella secondo cui il sesso sarebbe un piacere, un qualcosa da concedersi senza troppi problemi – restando ovviamente sempre nell’ambito della “normalità” – e che poi, magari, questo possa acquistare ulteriori virtù “fusionali” una volta che entrino in gioco i cosiddetti “sentimenti”.
Tra i grandi pregi di Bataille c’è quello di aver costruito un’erotica, e aver pensato una storia dell’erotismo, profondamente avverse a entrambe le dominanti vulgate sulla sessualità: quella occasional-istintiva e quella romantico-affettiva. Per Bataille infatti l’erotismo è prima di tutto l’esperienza vertiginosa di trovarsi sul limite, continuamente francato, di se stessi. L’esperienza erotica è sempre spaesante: si tratta di confondersi, di diventare e perdere parti e pezzi di corpo dentro e intorno a parti e pezzi di corpo di qualcun altro. In questa esperienza strutturalmente spaesante dell’erotismo, quel che troppo spesso viene pseudo-edonisticamente definito “piacere” si rivela molto frequentemente un fenomeno di copertura, e di fuga, rispetto a un’esperienza destabilizzante, pericolosa, intollerabile e certamente molto più complessa (forse perché più semplice) del godimento – un’esperienza che Bataille tematizza con lucidità incredibile e senza cedimenti.
Questo non significa ovviamente – come lamentava Tinto Brass – che i grandi autori debbano per forza sempre ammorbare il sesso con ombre di malessere, sporcizia, perversione o vergogna, ma piuttosto che – proprio perché l’erotismo possa anche solo iniziare ad essere vissuto in una maniera anti-edonistica – potrebbe essere necessario passare anche proprio attraverso la sua dimensione più bassa, disindividualizzante, sporca e inquietante. L’erotismo mette infatti in gioco qualcosa che nella nostra cultura, ad onta di tutta la pubblicità che se ne fa, rimane eternamente in ombra: il corpo, il corpo non come immagine né come involucro, ma come soggetto e come oggetto nel senso forte della parola, nel senso in cui si può dire di se stessi (o dell’altro) che “ci si fa oggetto”. Il corpo come esperienza di sé sparsa, frammentata, confusa, epidermica… il non capire dove inizio io e dove finisce l’altro, il corpo come il luogo di un’esperienza che ha molto poco a che vedere con la presunta “fusionalità”, e molto a che che vedere con una certa polisemica confusione. Quest’esperienza, che Bataille ha fatto cantare e splendere oscuramente nei suoi romanzi più celebri (da Storia dell’occhio a Madame Edwarda a Le bleu du ciel), è un’esperienza dell’erotismo che mette al centro il rapporto tra angoscia e godimento ben prima che questa fosse affrontata – come forse è più noto – da Jacques Lacan (che fu intimo amico di Bataille e patrigno della sua unica figlia).
Il rapporto di per sé spiacevole e poco trattato, nonostante sia quotidiano, tra godimento e angoscia, tra gioia e orrore, è un’esperienza essenziale all’erotismo, un’esperienza che attraversa sempre e comunque, spesso scansata, tanto le esperienze sessuali occasional-istintive, quanto quelle romantico-fusionali. In realtà essa pervade addirittura tutti i rapporti umani, di potere e di desiderio, anche quelli non erotici in senso stretto: la dimensione della sfida, della lotta, della battaglia, della finta, dell’aggressione, della dolcezza come arma, della tenerezza come trappola, della violenza come dono.
La mia seconda considerazione sull’attualità del pensiero di Bataille riguarda ancora la soddisfazione individuale, ma questa volta in un senso più specificamente “economico” e non più prettamente sessuale. Bataille, negli anni trenta, rielaborando il rituale del potlach, ne estrae un’inaudita etica dell’essere in perdita che altro non è che l’abbozzo del suo celeberrimo concetto di dépense. Quello di dépense è infatti un concetto propriamente contro-economico, un principio che secondo Bataille obbliga ciò che vive, uomo compreso, ad autoscarcrificarsi, ad autointaccarsi, a spendersi senza progettualità e calcolabillità possibili. Quest’esperienza del godimento in perdita apre la strada alla riflessione sul dono inteso come qualcosa di tutt’altro che oblativo e “buono”, ma piuttosto come una sfida, come una provocazione che sarà ripresa tra gli altri principalmente da Derrida; il dono come una sfida attraverso cui si chiama l’altro nel gioco attraverso uno sperpero di sé. In questa senso la dépense è una forma di godimento e di rapporto con l’alterità che si oppone in maniera radicale all’esperienza della soddisfazione e dell’edonismo neoliberali, ed inoltre anticipa ampiamente anche quella che sarà l’idea di godimento di Lacan: il godimento, appunto, in perdita e intrinsecamente masochistico.
Una terza e ultima considerazione riguarda i concetti batailliani di “demenza” e di “sovranità”. In una sua celebre risposta alla critica sartriana che lo accusava di star costruendo una nuova mistica, Bataille risponde a Sartre – molto delicatamente – che gli è veramente grato per aver messo così obiettivamente in evidenza fino a che punto – lui, Geoges Bataille – sia un demente, per poi aggiungere e concluderne che – in fondo – quando si tratta della vita, del sentire la vita, certe cose o si sentono o non si sentono, o si vivono o non si vivono, e Sartre – evidentemente – non le viveva (proprio perché non aveva la stessa idea radicale della continuità teorico-pratica del rapporto tra filosofia e vita che aveva Bataille).
Per concludere: un augurio, una speranza e una paura sono forse tutto ciò che ci rimane oggi di Bataille. La sensazione, la convinzione, la vertiginosa certezza che il male, il dolore, la devianza, l’orrore, siano tutte esperienze che, pur essendo senz’altro spiacevoli, ci testimoniano la nostra coraggiosa e spesso inconscia fuoriuscita dai circuiti abituali della soddisfazione (e ci indicano una via – certamente scoscesa e inquietante – per giocare, sfidarci e incontrarci davvero).
Cosa faremo di questa paura, di questa follia, di questo masochismo, quando ci sorprenderanno ancora ogni volta che usciremo dai tracciati della soddisfazione “normalizzata”? Impareremo a raccontarceli gli uni agli altri, con ironia, senza vergogna, magari addirittura fino a farne un nuovo collante sociale e una nuova arma per la lotta politica? A Bataille l’ultima parola, nella speranza che possa essere invece solo l’inizio di un disperato, complice ed eroicomico tentativo di annodare al di là del principio di piacere (e di quell’“utile” che è il suo odierno sinonimo neo-liberale) una complicità, un’etica, un’erotica e una politica capaci di mostrare che la soddisfazione neo-liberale non è altro che uno tra i tanti masochismi possibili.
La vita? La morte? Talvolta butto l’occhio con amarezza verso il peggio; non potendone più, recito a scivolare nell’orrore. So che tutto è perduto; la luce che potrebbe infine illuminarmi brillerebbe per un morto. Tutto in me ride ciecamente alla vita. Cammino nella vita, con la leggerezza di un bambino, la reggo. Ascolto cadere la pioggia. La mia tristezza, le minacce di morte, e questa specie di paura, che distrugge ma indica un culmine, si agitano in me; tutto questo mi ossessiona, mi soffoca… ma vado oltre – andiamo oltre.
(Su Nietzsche, 1944)
l’uomo ha bisogno di perdersi o cosa lo porta a rischiare l’autodistruzione? al di là del tabù sessuale, dove sono le persone nel loro complesso? è con la libertà sessuale che i nostri figli saranno più felici e costruiranno una famiglia affidabile? famiglia intesa come luogo di confronto per crescere nell’amore e nell’aiuto reciproco e di scontro inteso come palestra per costruire “i muscoli”in zona “protetta” per poi affrontare l’avventura meravigliosa della “vita”?