Chi ha paura della post-verità?

di Andrea Muni & Stefano Tieri

Dopo essere stata eletta a parola dell’anno 2016 dall’Oxford Dictionary, la parola “post-verità” ha letteralmente saturato il web e le pagine dei giornali, dimostrandosi sorprendentemente in grado di toccare un nervo scoperto delle nostre società sedicenti “democratiche”.

Il filo rosso che ha accomunato le frettolose e “illuminate” critiche globali rivolte alla neonata post-verità, sembra essere una certa insofferenza nei confronti di un tempo – il nostro – in cui la democrazia e internet hanno dato la possibilità a chiunque lo voglia di dire pubblicamente qualsiasi cosa, e a chiunque lo voglia di credere alle cose dette pubblicamente da chiunque altro. Se infatti, nel privato dei rapporti di amicizia e familiari, le cose sono un po’ sempre andate così, la dimensione “pubblica” di cui i social hanno dotato i discorsi delle persone rappresenta sicuramente una novità senza precedenti nella storia della cultura. Un tempo infatti, nel prendere una posizione pubblica, era molto più difficile evitare di “metterci la faccia”, mentre oggi sempre più spesso l’anonimato offerto dal web attutisce la responsabilità delle proprie prese di posizione.

In ogni caso, le reazioni politiche all’esplosione di questa piccola “bomba” mediatica non si sono fatte attendere, e c’è stato addirittura chi – come il presidente dell’Antitrust Giovanni Pitruzzella – ha proposto di istituire un garante a livello europeo in grado di decidere della veridicità delle “bufale” e, in tal modo, “intervenire rapidamente se l’interesse pubblico viene minacciato”. Una sorta di tribunale della verità – ovviamente “terzo” nei confronti dei poteri politici (come se una “terzietà” politica fosse possibile) – eroicomicamente capace di riconoscere infallibilmente in ogni situazione, e d’un solo colpo, la verità oggettiva, l’interesse pubblico e le maniere migliori per tutelarlo. Siamo evidentemente nel registro del delirio di onnipotenza.

C’è poi chi, quanto a onnipotenza e a delirio, non si è fermato alle intenzioni: facebook ha iniziato a etichettare le potenziali fake news pubblicate al proprio interno, forse anche per rispondere a chi ha accusato il social network di essere tra i responsabili dell’elezione di Donald Trump. Il discorso sulle fake news si intreccia infatti con un altro, ugualmente importante nella proliferazione dei discorsi sui media 2.0: quello delle così dette “bolle omo-filiche”, che attraverso dei raffinati algoritmi tenderebbero a mostrate agli utenti facebook soprattutto i post in sintonia con la loro sensibilità etico-politica, “legittimando” in tal modo anche posizioni politicamente scorrette e censurate dal discorso pubblico “ufficiale”.

Non c’è da aspettarsi molto di più dal mondo giornalistico, soprattutto da quello italiano, dove la obsoleta legge del 1963 – che dovrebbe tutelare la libertà d’espressione – è così formulata: “È diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà d’informazione e di critica, […] ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti” (art. 2). Quale sia questa “verità sostanziale dei fatti” è ancora da capire, e chiunque abbia scritto anche un solo articolo di cronaca nella propria vita si sarà di certo reso conto delle forzature insite in ogni singola frase e perfino in ogni singola parola. Ogni enunciato evoca suggestioni, fantasmi, e basta un accostamento a una particolare immagine – lungi dal poter considerare questa operazione “falsa” – per produrre effetti di ricezione potentissimi nel lettore. Ma di questo, dopotutto, si è già scritto fin troppo.

Un solo bersaglio: il relativismo

Il mondo intellettuale e giornalistico istituzionale sembra essere affetto da una vera e propria fobia, un’angoscia malcelata e sintomaticamente esplosa nel dibattito sulla post-verità. Sembra che finalmente tutti i maestri della Verità abbiano ritrovato compattamente la nuova croce rossa su cui sparare: si tratta del “malvagio” relativismo, vale a dire la condizione non rinegoziabile – né trasformabile teoricamente a tavolino – in cui ci troviamo dopo la “morte di dio”, della Politica e del Soggetto.

Sembra addirittura che ultimamente molti importanti intellettuali – che pure hanno studiato a fondo questo fenomeno come il Cacciari di Krisis – abbiano misteriosamente rimosso il fatto che queste “morti” non sono l’avvelenata conseguenza di semplici produzioni teoriche. La tentazione di mettere il carro davanti ai buoi è sicuramente grande, ma è al contempo anche un istinto a cui dobbiamo resistere, se non vogliamo perdere contatto con la realtà (quella etico-politica in cui siamo immersi, ovviamente, e non quella farlocca del “buon senso” e della para-tautologia). Non possiamo dimenticare infatti che la “crisi dei valori”, la “morte di dio” e la “fine delle ideologie”, intese come produzioni teoriche, non sono altro che lo sbiadito riflesso “culturale” di precedenti fenomeni politico-sociali – e di esperienze drammaticamente private e individuali – ben più che reali.

Il relativismo, in cui tutti siamo immersi, non è oggi un sentimento dominante perché alcuni filosofi lo hanno postulato nei loro libri; non basta dire che il relativismo è “cattivo” perché scompaiano le dinamiche politiche, economiche, sociali – e le esperienze individuali – che lo hanno reso il sentimento più in voga e al contempo più criticato della nostra attualità. Abbiamo forse rimosso che le “idee” che ci provengono dalle sante bocche dei “vati” non sono mai davvero nuove, e che esistono da molto prima nella vita delle persone – spesso infami – che per prime le hanno incarnate? Dall’uomo folle di Nietzsche all’idiota di Dostoevskij, dagli oppiomani di Wilde al Don Giovanni di Mozart ripreso da Kirkegaard… gli artisti e i filosofi non sono stati i primi uomini a vivere ciò di cui hanno parlato, bensì i primi a scriverne: distinguere questi due registri è cruciale.

Dio potrebbe essere benissimo ancora vivo e vegeto, seduto sul divano a sgranocchiare patatine guardando in direzione delle “sue” creature, in affanno e apparentemente senza più alcun appiglio a cui aggrapparsi per discernere il vero dal falso. Ma in fondo, nelle dinamiche sociali concrete, non farebbe alcuna differenza. Il cosiddetto relativismo, a ben vedere, rimane ancora oggi l’unica posizione soggettiva che permetta davvero di elaborare un’etica non prescrittiva (cosa che non era sfuggita al Budda, né agli scettici di ogni tempo). Il relativismo ha infatti una conseguenza etica ben precisa, di cui tutti i “signori” del sapere, dell’informazione e della verità (post-moderni compresi) hanno – e hanno avuto – letteralmente orrore: la verità non è fatta per essere conosciuta, ma inflitta e subita – o ancora, per dirla con Foucault: “il sapere non è fatto per comprendere, ma per prendere posizione”.

Questo semplice chiarimento può forse aiutarci a capire meglio le ragioni per le quali la post-verità è stata aggredita con una simile ferocia: è quanto ci resta tra le mani una volta fatti i conti con l’orrore che proviamo nell’ammettere a noi stessi che la verità non è qualcosa da conoscere, bensì la posta di un gioco, di una lotta, di una battaglia, che si svolgono nel discorso e nei rapporti umani. La verità non è la garanzia ultima, estrema, assoluta, di ciò in cui crediamo e di ciò per cui lottiamo, ma un semplice strumento retorico attraverso cui cerchiamo di rendere più efficaci, seduttive e vincenti le nostre prese di posizione.

Disclaimer: le anime belle che ritengono che questo discorso implichi necessariamente un relativismo morale e una forma di disimpegno etico e politico sono affettuosamente sconsigliate di proseguire con questa lettura… rischiano di trovarvi degli spunti per cominciare a fare qualcosa di diverso dal lamentarsi di questo mondo “malato” di cui – quotidianamente e inavvertitamente – si rendono corresponsabili.

Per un’etica della post-verità

Di recente un nostro contatto Facebook ha postato sulla sua bacheca, prendendola per vera, la delirante “notizia” secondo cui lo Stato pagherebbe la patente ai migranti. Fortunatamente altri “amici”, notato il post, hanno informato la persona in questione che si trattava di una “bufala”, inducendola così a rimuoverlo autonomamente. È così che – nei casi virtuosi – funzionano la democrazia e l’informazione su internet: semplicemente le persone che si parlano, e che sono – a vario titolo – “amiche”, si correggono, si aggiornano e informano di volta in volta. Sappiamo bene che le cose non vanno sempre così, anche a causa delle “bolle omo-filiche” dei social media, che amplificano e nascondono, a proprio piacimento, certi tipi di informazioni. L’algoritmo infatti non è mai “neutro”, e dietro a ogni codice si celano le finalità – principalmente economiche – di un programmatore. Nonostante ciò, in questo piccolo e banale esempio virtuoso ci pare di poter indicare un embrione di quella che potremmo chiamare un’etica della post-verità, cioè un’etica della (auto)verifica delle proprie informazioni, e delle proprie affermazioni, sulla base dei consigli e delle osservazioni che provengono dai propri “amici”.

Qui infatti entra in gioco il secondo spauracchio di molti “signori della verità”: la democrazia. Sono in molti a rimpiangere i tempi in cui leggere La Repubblica (che si trattasse del quotidiano o del libro di Platone fa lo stesso) era di per sé un vanto – e un certificato – di moralità antiberlusconiana. In molti hanno nostalgia di quel tempo, ancora relativamente recente, in cui gli intellettuali erano gli unici ad avere il diritto a essere ascoltati e condivisi; nostalgia di quando le “verità” – un po’ come nel medioevo – erano tacitamente garantite dall’autorevolezza di un libro, di un dotto (o, diremmo oggi, di una testata); di quando non serviva “scendere” tra i comuni mortali, prendendo le persone una per una, parlandoci, discutendoci, ascoltandole, specialmente a partire da quelle con livelli di istruzione estremamente bassi.

Anche se è doloroso da ammettere, poiché noi stessi non pretendiamo di aver già fatto i conti fino in fondo con questa “nostalgia”, presto o tardi dovremo guardare in faccia il fatto che chi detiene la cultura,  o “più” cultura, non si sente sullo stesso piano di chi non la detiene (o ne detiene “meno”). Perché, purtroppo, la cultura è anche un feroce strumento di potere: memorabile a tal proposito resta la sparata di Umberto Eco sul fatto che internet promuove lo “scemo del villaggio” a “detentore della verità”.

Negli ultimi tempi sono però apparsi anche alcuni interessanti interventi autocritici verso quello che viene definito “nostalgismo”, da parte dello storico Mark Lilla, o del direttore dell’Espresso Tommaso Cerno. Il nostalgismo è un fenomeno che riesce a mettere paradossalmente insieme la postura populista con quella progressista. Se infatti i cosiddetti populisti rimpiangono un tempo mitico in cui esistevano saldi valori (familiari, professionali e nazionali), allo stesso modo i cosiddetti “progressisti” rimpiangono il tempo in cui la “verità” era appannaggio di un’élite morale, politica e intellettuale in luna di miele coi principali mass media. Questa fiaba “progressista” oggi si è infranta, proprio come le Verità rimpiante dai “populisti”: le logiche di organizzazione dei discorsi (e del potere) sono mutate, con evidenti effetti sotto gli occhi di tutti in termini di consenso politico.

In questo senso la “post-verità” rappresenta un meraviglioso capro espiatorio, che consente a tutti di rimpiangere a proprio piacimento i bei tempi in cui c’erano le verità scientifiche, filosofiche, ideologiche e di fede; di cullarsi nel ricordo di quel supposto eden pre-relativistico che ci fa sentire ancora così protetti e sicuri nella nostra ferocia prevaricatoria di difensori del Sapere e della Verità contro i bruti e gli ignoranti. Si ha alternativamente nostalgia dei tempi delle Br e di quelli della Balena Bianca, della Jugoslavia titina e del reaganismo… L’importante sembra essere ormai soltanto la fuga da una “realtà” che fa schifo a tutti – a tal punto che abbiamo iniziato a trovare “interessante” l’idea di restaurare il mistico potere della realtà oggettiva e fattuale, nella vana speranza di individuare finalmente il “colpevole” di questo sfascio.

Sembra a volte che mai come oggi facciamo di tutto per non vedere che la verità – lungo tutto la storia della nostra cultura – non è mai stata altro che un’impresa seduttiva, prevaricatrice, fascinatoria; un gioco sadomasochistico – a volte divertente, a volte mortale, a volte foriero di grandi innovazioni tecnologiche, a volte di genocidi – che non possiamo smettere di giocare e che inevitabilmente ci infliggiamo gli uni agli altri ad ogni istante della nostra vita. Il fatto che i “malvagi” post-moderni abbiano avuto questo vertiginoso presentimento non li rende affatto i responsabili dell’odierno relativismo culturale, ma semmai i suoi primi e meglio attrezzati avversari. Non è colpa di Cassandra se Troia è caduta.

Il coraggio della post-verità

Gli elementi di maggior impatto culturale e mass-mediatico prodotti in Italia negli ultimi dieci anni sono stati: l’“evaporazione del padre” di Massimo Recalcati, il “nuovo realismo” di Maurizio Ferraris e il “rossobrunismo” di Diego Fusaro. Tutti “nobili” tentativi di restaurare un qualche ordine precedente, di giudicare la verità degli altri in base alla propria… chiamandola post-verità.

Non rimane che augurare buon lavoro a tutti gli infaticabili restauratori della Verità. Riesumare un cadavere che non è mai esistito è un impresa ancora più acrobatica di quella – certamente non facile – di costruire un’etica del relativismo. Purtroppo infatti, che lo sappiano o meno, che gli interessi o meno, i paladini della “verità”, della “realtà”, del “simbolico” e/o dei “valori tradizionali” sono degli intensificatori dei fenomeni che criticano. Perché una persona “normale” – non usiamo questa parola a caso – a leggere gli strali di Cacciari sulla post-verità, i peana di Recalcati sull’evaporazione del padre, per non parlare del rossobrunismo di Fusaro o della schizofrenia di un Ferraris (che osa una parallela apologia del buon senso e dell’idiozia), non può che provare un surplus di entusiasmo nel credere gioiosamente e bovinamente a tutto ciò che gli va di credere.

Tutti sanno che le ricette di una cultura che muore sono restauratrici, e se osiamo guardare dritto in faccia il desolante panorama della “alta” cultura italiana ci accorgiamo purtroppo che sono le uniche in circolazione. Per effetto del nostalgismo sta rinascendo oggi – a più livelli – un’inquietante e tragicomica fascinazione per il vate, per il maitre à penser, proprio nel momento in cui questa figura è più gravemente orfana del suo naturale pendant: la Verità. La figura del “vate” infatti, per concludere con un sorriso amaro, ha oggi la stessa salute del buon Zygmunt Bauman. Non chiudiamo a caso su Bauman, vale a dire su un intellettuale che – nella società liquida da lui stesso diagnosticata – ha avuto il coraggio di starci dentro; un uomo, prima che un “pensatore”, che ha dimostrato – nei fatti – che non bisogna avere paura della post-verità, ma rimboccarsi le maniche e imparare coraggiosamente ad abitarla, accettando di combattere le nostre battaglie politiche e teoriche dentro di essa, perché questa “verità” – che piaccia o no ai maitre à penser “senza portafoglio” di oggi – è l’unica che ci rimane, e forse l’unica mai esistita.

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