di Giulio Blason
Del coronavirus, o Covid-19, ancora non ho capito nulla. Sono sommerso da informazioni, alcune più attendibili e caute, altre dai toni perentori e sensazionalistici. Con il passare delle settimane, l’urgenza di tenermi informato, e l’intrattenimento che ne derivava, hanno lasciato posto all’inerzia. Di solito, mi lascio trasportare da un’opinione semplicemente perché suona bene e resiste a una pigra verifica dei fatti. Quando ci sarà qualcosa da sapere non dovrò nemmeno preoccuparmene, mi verrà incontro da sé, oscura e incomprensibile come un discorso di Boris Johnson pronunciato da Conte. Per quel che mi riguarda, il politichese e la sua mutazione maligna, il burocratese, resteranno eternamente indecifrabili. Tuttavia, se non sono in grado di capire le direttive provo allora a fare un passo indietro e tento almeno di comprendere le nozioni di fondo che hanno accompagnato le decisioni prese in quest’ultimo periodo di paura, scetticismo e frustrazione.
Per la prima volta il dibattito scientifico, normalmente relegato alle riviste accademiche, è stato aperto al pubblico in modo quasi orizzontale. Discipline come la virologia e l’epidemiologia sono diventate argomenti di discussione mediatica di assoluto rilievo, introducendo nuovi termini e concetti su grande scala — con tutta la confusione di pareri che ne consegue. Tra le opinioni più rumorose spiccano quelle di chi, forte di una solida esperienza da opinionista postprandiale, si è deciso (finalmente!) a rivelare al grande pubblico tutte le informazioni che l’elite mondiale ci ha sempre tenute nascoste; in lontananza si riescono invece a udire anche quelle di chi ha interesse a spiegare idee appartenenti a specializzazioni sconosciute ai più. Tra queste voci si possono incontrare divulgatori che sanno esprimersi in modo chiaro e conciso e altri che lasciano a desiderare; non sono però sicuro di essere in grado di leggerli.
Nella divulgazione di discipline particolarmente complicate la chiarezza d’esposizione e la semplicità lessicale sono dei traguardi ambiti. La logica, la coerenza, la sintassi scorrevole, un vocabolario privo (per quanto possibile) di termini specialistici: questi sono i parametri che guidano lo scrivente verso una comunicazione limpida ed efficace.
Il linguaggio però non è neutro: i termini specifici di una disciplina nascono in un preciso contesto e, qualora tocchino un nervo esposto, si inseriscono nel più ampio discorso pubblico, finendo alle volte con l’essere utilizzati in aperta contraddizione con il contesto originario da cui provenivano. All’interno di un dibattito aperto, specialmente in una situazione delicata e dagli esiti incerti come quella attuale, termini specifici appartenenti alle discipline più disparate si intersecano, vengono snaturati e riemergono del tutto decontestualizzati.
La correttezza d’un termine risiede nel suo essere un simbolo dal significato convenuto reciprocamente dalle parti interessate al suo utilizzo. Tuttavia un simbolo muta spesso di significato quando viene estrapolato dal suo contesto originario, come nel caso delle parole iper-specifiche della scienza e della virologia, che hanno un senso ben preciso e tutt’altro che sfumato. Una volta estirpato dalle convenzioni che l’avevano fatto emergere, e abbandonandosi alla molteplicità dei punti di vista, il significato di una parola diventa via via più approssimativo, si fluidifica.
E’ stato questo il caso di un concetto come “immunità di gregge”, termine molto specifico in ambito epidemiologico che, tirato fuori dal cilindro verso i primi di marzo dal governo inglese, ha perso la sua rigorosità venendo associato nel discorso pubblico a un vago alone di darwinismo sociale. Queste parole, “immunità di gregge”, che in origine già si ponevano come evidentemente metaforiche, vanno ora quindi a rappresentare un ventaglio di idee e concetti molto più ampio e spesso sfocato, assumendo significati a volte in netto contrasto tra loro. Con buona pace di epidemiologi e scienziati che lo hanno utilizzato finora con tanto rigore all’interno delle loro pubblicazioni accademiche.
Come in un lunghissimo telefono senza fili, la formula “herd immunity” si è allontanata sempre più dal suo originario campo semantico epidemiologico — già con il discorso di Chris Witty davanti al governo britannico; ha cominciato a essere tradotta dai giornali italiani (già memori della discussione sui vaccini), per arrivare infine nel dibattito pubblico ed essere definitivamente triturata in ordine non specifico da giornali, televisione, internet, conoscenti, amici e familiari. All’altro capo del telefono, seduta sul divano in isolamento, si trovava mia madre, che ha capito l’apparente nocciolo del dibattito (“il governo inglese ha deciso di operare un’inquietante politica di darwinismo sociale”) e ha associato il concetto dell’immunità di gregge solo a un sacco di cadaveri.
Chiaramente i fili ci sono e si potrebbero benissimo risalire, ma ciò richiederebbe giusto il tempo necessario per essere esclusi dal dibattito pubblico, sia esso condotto in un ambiente formale o davanti alla rievocazione virtual-casalinga del bar; dibattito che nel frattempo ha rivolto la sua attenzione altrove ed è arrivato a una sua ridefinizione, più o meno vaga, più o meno arbitraria, del concetto in questione.
Spesso individui appartenenti a diversi campi che si occupano di concetti totalmente eterogenei, e quindi avvezzi a diverse convenzioni linguistiche e metaforiche, non riescono a comprendere le convenzioni e le metafore appartenenti diverse dalla loro finestra sul mondo. In una situazione banale, come quella in cui una persona a tavola chiede all’altra di passarle il vino, la comprensione lascia poco spazio alla libertà interpretativa: si sta parlando di un oggetto la cui percezione sensibile è chiara ad entrambe le persone. La bottiglia è un oggetto riducibile a proprietà difficilmente confutabili nella pragmatica della situazione — certo, qualora la maggior parte di quel vino sia già stato bevuto la situazione potrebbe prendere una piega imprevedibile e l’interpretazione potrebbe arricchirsi di connessioni alquanto inaspettate, ma in tal caso la correttezza ermeneutica probabilmente non rientrerebbe più tra le priorità degli interlocutori.
Il quadro diventa invece complesso quando ci si avventura in concetti più astratti, che richiedono maggior sforzo immaginativo e dunque interpretativo, e si fa ancora più difficile quando il termine usato per definire un concetto nasce in una lingua differente dalla nostra, che porta con sé una visione del mondo totalmente diversa, impossibile da “trasmettere” in una traduzione letterale — come si può notare nel dibattito ermeneutico tuttora in corso tra Chris Witty e mia madre.
Tramite gli strati di mediazioni che continuano ad accumularsi, siamo dunque in grado di capire un discorso su un tema come un virus, di cui possiamo percepire le conseguenze ma di cui riusciamo a malapena ad immaginare l’esistenza? Pur comprendendo gli effetti verificabili dell’epidemia, in alcuni casi nefasti, siamo in grado di cogliere la complessità delle discipline che si occupano direttamente di questo virus? Siamo in grado di compiere lo sforzo immaginativo richiesto dalla lettura o ascolto di un testo anche semplice, su qualcosa che mai credevamo potesse toccare il nostro interesse?
In queste settimane di reclusione la tentazione è stata quella di leggere dati oggettivi e verità dove in fondo c’erano solo teorie e speculazioni, per la maggior parte basate su dati incerti, a volte inconsistenti o di misura non ancora sufficiente per trasformarli in un’affidabile studio quantitativo o qualitativo. Per cominciare a capirci effettivamente qualcosa, per contribuire a divulgare certi discorsi specialistici in modo chiaro e conciso dovremmo allora forse, almeno, sforzarci di imparare – di imparare di nuovo – a leggere.