Cittadini ucraini “russi”, “russofoni” e “filo-russi”: un po’ di chiarezza

di Andrea Muni

Prima puntata di un trittico di approfondimento sulla guerra civile ucraina e sul conflitto russo-ucraino (qui il link alla presentazione)

Rappresentazione grafica, tratta da Wikipedia, delle regioni ucraine russofone che nel 2014 hanno visto, in diversi gradi, forme di protesta e/o di contro-rivolta armata in seguito al golpe/rivolta filo-Ue e filo-Usa di Maidan

Riavvolgere il filo

Dopo il golpe/rivolta di Maidan del 2014 la fazione politica filo-occidentale e nazionalista che ha preso il potere nel Paese ha cercato di far passare in Occidente, con l’avvallo dei media, l’idea che non esista una parte considerevole di ucraini che è russo-ucraina, russofona e, in certi casi, filorussa. In questo approfondimento chiariremo come questi tre termini indichino tre cose diverse, da non confondere e sovrapporre necessariamente. Per la narrazione ultra-nazionalista filo-occidentale sposata dai nostri media, questi ucraini (russi, russofoni e/o filorussi) sarebbero una sorta di serpe in seno, un corpo estraneo, uno sparuto nemico interno eterodiretto dai russi da scacciare o rieducare. Eppure questi ucraini popolano buona parte del Sud e dell’Est del Paese, dove è condensata la minoranza etnica russa, dove gli ucraini sono maggioritariamente russofoni e dove è più frequente incontrare persone di orientamento geopolitico filo-russo. I cittadini ucraini che la nostra propaganda definisce genericamente filorussi: 1) raramente sono a favore o entusiasti della guerra, che infuria soprattutto nella loro parte di Ucraina e di cui patiscono nella carne e negli affetti come ogni altro ucraino, 2) non sono affatto tutti ideologicamente putiniani o ultra-nazionalisti, spesso sono anzi nostalgici dell’Urss, 3) non desiderano necessariamente l’annessione alla Federazione Russa, né tanto meno la desideravano dieci anni fa allo scoppio della guerra civile, 4) non si trovano solo nel Donetsk e nel Luhansk, ma sono diffusi in tutto l’Est e il Sud.

I cosiddetti filorussi sono quindi una parte dei cittadini ucraini dell’Est e del Sud del Paese, che è accomunata da alcune posizioni: 1) avversione per la neo-colonizzazione Nato, Usa e Ue, 2) avversione per l’ucrainizzazione a tappe forzate della loro madrelingua russa, messa in opera dal nuovo potere nazionalista e filo-occidentale nell’ultimo decennio e specie nell’ultimo lustro, 3) presenza di legami familiari, etno-linguistici, storico-culturali e/o economico-politici con la Russia e, prima, con l’Urss. Questo è il motivo geo-politico/ideologico per cui dieci anni fa, fomentata e propiziata dagli immancabili oligarchi e poteri economico-finanziari di entrambe le parti in causa, è scoppiata una guerra civile aperta che fino al febbraio 2022 aveva già fatto (tra militari e civili) almeno 14.000 morti – e che purtroppo non è ancora finita.

I dati del censimento del 2001

L’unico censimento svolto nell’Ucraina post-sovietica restituiva nel 2001 oltre otto milioni di cittadini ucraini su un totale di quarantotto che si dichiaravano di etnia russa (confermando su per giù i dati del censimento sovietico del 1989, ovvero 11.355.000 di cittadini ucraini di etnia russa su un totale di 51.700.000). Nel 2001 un quinto scarso dell’intera popolazione ucraina, stanti gli ultimi dati che abbiamo a disposizione, si dichiarava quindi di etnia russa: più dei catalani in Spagna, circa l’equivalente degli abitanti della Lombardia in Italia. Questo impressionante dato riguardava gli ucraini che si dichiaravano di etnia russa. Stiamo per vedere come il dato linguistico, ovvero quello sui russofoni, nelle regioni dell’Est e del Sud, fosse significativamente ancora più alto.

Dopo Maidan il nuovo governo filo-occidentale dell’oligarca Poroshenko ha progressivamente messo fuori legge l’uso ufficiale della lingua russa nelle scuole, nelle manifestazioni istituzionali e addirittura nei programmi tv (e nei cinema) di tutto il Paese. Questa progressiva eliminazione pubblica del russo dalle regioni a maggioranza o prevalenza russofona è stata supportata in armi dalle violenze del battaglione Azov e dalle squadracce naziste di Pravji Sector. Parliamo di aree dell’Ucraina che rappresentavano il cuore pulsante economico e demografico del Paese: il solo Donbass, a maggioranza russofona e cuore industriale del Paese, prima della guerra civile contava sei milioni di persone, le città russofone di Kharkov/Kharkiv e Odessa (seconda e terza città dell’Ucraina, dopo Kiev) superavano il milione di abitanti.

Dovremmo imparare a familiarizzarci meglio con l’amplissima varietà di combinazioni etno-politico-linguistiche che esistono nel Sud e nell’Est dell’Ucraina, per evitare di cadere facili prede delle molte trappole discorsive guerrafondaie e ultra-nazionaliste di ogni colore: 1) ci sono molti ucraini di madrelingua russa che pure sono filo-occidentali e a volte addirittura ultra-nazionalisti ucraini di estrema destra, specie tra i giovani, 2) ci sono a rovescio diversi ucraini etnici ucrainofoni o bilingue, spesso over-40 e nostalgici dell’Urss, ferocemente anti-occidentali e quindi in questo senso filorussi, 3) a molti altri ucraini russofoni dell’Est e del Sud non è importato granché di dover ucrainizzare pubblicamente la propria lingua dopo Maidan, come al tempo dell’Urss – e prima ancora dell’Impero russo – a molti ucraini ucrainofoni non importò di russificarla quando giungevano nelle grandi città a prevalenza russofona e operaia del Paese.

Essere russofono/a o ucrainofono/a, nell’Est e nel Sud dell’Ucraina, non significa automaticamente essere filorusso o, al contrario, ultra-nazionalista ucraino. Le tre dimensioni di etnia, lingua e orientamento geopolitico non si escludono né co-implicano necessariamente a vicenda, per quanto possano certamente fornire delle utili indicazioni generali e dei validi spunti di riflessione.

Etnia, lingua, orientamento geo-politico: tre cose diverse. Che cosa significa “essere ucraino”?

Geo-linguisticamente – secondo i dati del censimento – nel Nord-ovest dell’Ucraina (ovvero la parte di Leopoli, che è divenuta Ucraina appena nel 1945) era dominante l’ucraino “puro”. Al Centro si alternavano in modo abbastanza equo russo e ucraino, ma persisteva anche il surzhyk, affascinante pidgin russo-ucraino un tempo tipico delle genti del contado a cui Gogol ha dato lustro letterario nei suoi scritti giovanili. Nell’Est e nel Sud invece la lingua dominante era il russo “puro” (o sue sotto-varianti regionali).

La situazione nel Donetsk. Il censimento del 2001 restituiva nella regione di Donetsk un 56% di ucraini etnici. Tale dato, per come è stato ripreso da certa recente propaganda, potrebbe indurre facilmente a credere che a questo 56% di ucraini-etnici corrisponda un pari numero di ucraini ucrainofoni, e a ritenere quindi che persino nel Donetsk separatista ci fosse in fondo una maggioranza assoluta di ucraini ucrainofoni. Ma questo non è vero, e può essere facilmente dimostrato con il parallelo dato del censimento sulla lingua, che nel Donetsk restituiva un 75% di cittadini ucraini che aveva soltanto il russo come lingua madre.

Raffigurazione grafica tratta da Wikipedia dei cittadini ucraini di sola madrelingua russa, tratta dal censimento del 2001, crediti qui

Il dato illustrato nella cartina fa infatti riferimento ai cittadini che nel 2001 dichiaravano di avere solo il russo come lingua madre, e quindi di non conoscere l’ucraino o di conoscerlo solo come seconda lingua. Altri sondaggi governativi dei primi 2000, di poco successivi al censimento e svolti sulle macro-regioni ucraine, confermavano nell’Est e nel Sud un’amplissima prevalenza del russo nel parlato comune, e una sostanziale parità di diffusione al Centro-nord. Ancora nel 2023, persino l’americanissimo International Republican Institute restituiva nelle città storicamente russofone di Kharkov/Kharkiv e Odessa uno schietto 78% e 80% di preferenziali russofoni.

I russofoni nell’Est e del Sud sono quindi certamente tutti i russi etnici, ma anche i molti ucraini etnici di lingua russa. Il punto è che negli ultimi vent’anni è cambiato il significato politico di cosa significa “essere ucraino”. Nel 2001, a soli dieci anni dal crollo dell’Urss, nell’Est e nel Sud era normalissimo parlare russo e sentirsi ucraini etnici. L’idea che un ucraino sia tale solo se parla l’ucraino è una novità del più recente ed estremista nazionalismo ucraino post-sovietico, filo-polacco e filo-occidentale del Nord-ovest. La zona di Leopoli, capitale dell’attuale Nord-ovest ucraino, ha una storia che la lega all’orbita polacca e tedesca da secoli. Il nazionalismo peculiare agli ucraini del Nord-ovest risente di un marcato sentimento antirusso e antisovietico, che altre esperienze dello stesso nazionalismo ucraino non hanno conosciuto, o hanno conosciuto in modo molto più sfumato.

Questo particolare ultra-nazionalismo ucraino del Nord-ovest è quello che più ha patito il russo come lingua del recente colonizzatore sovietico. Questa parte di ucraini e del nazionalismo ucraino ha vissuto, senza dubbio a ragione (dal suo punto di vista), come una violenza l’imposizione del bilinguismo ufficiale che vigeva nell’Urss. Ma questo non può cambiare il fatto che il russo sia oggi, oltre che da lungo tempo, la lingua madre o di preferenza di buona parte dei cittadini ucraini dell’Est e del Sud. Se russificazione calcolata in passato c’è stata (questione che affronteremo parzialmente nel prossimo paragrafo), la contro-ucrainizzazione forzata dell’ultimo decennio messa in opera dai governi ultra-nazionalisti ucraini filo-Nato ha certamente rappresentato un’operazione altrettanto totalitaria. Nel terzo millennio uno Stato che ambisce a entrare in Ue e a farsi considerare “democratico” come l’Ucraina, non può prescindere dal tutelare le proprie minoranze etno-linguistiche, specie se sono così enormi come quella russo-ucraina e quella russofona (e nonostante le consideri magari affini a un vicino ingombrante come la Federazione Russa, ritenuta colpevole di una precedente colonizzazione). Il Belgio, l’Italia, la Svizzera – e molti altri Paesi extra-europei che hanno conosciuto forme violentissime di colonialismo o apartheid – hanno scuole e trasmissioni in diverse lingue ufficiali. Il Sud Africa ha per esempio undici lingue ufficiali, su base regionale, tra cui quelle dei precedenti colonizzatori inglese e olandese: non si capisce perché in Ucraina, dopo Maidan, si sia voluto a tutti i costi negare questo diritto ai molti russofoni del Donetsk, del Luhansk e della altre regioni ucraine a stragrande prevalenza russofona (diversamente dal trattamento riservato alle altre lingue minoritarie di Paesi UE presenti sul territorio).

Alla luce di questi dati, appare evidente 1) Che nell’Est e nel Sud esistevano nel 2001, ed esistono ancora, come esistevano già nell’800, ucraini etnici russofoni, 2) Che in tali zone è presente una corposissima minoranza etnica russa, che va considerata distintamente dall’elemento russofono (di etnia sia russa, sia ucraina, sia mista), 3) Che le velleità dell’ultra-nazionalismo ucraino ucrainofono post-Maidan di imporre l’uso esclusivo dell’ucraino nelle istituzioni e nella cultura di regioni a stragrande maggioranza russofona ha rappresentato dal punto di vista politico e socio-culturale un atto autoritario, indegno di un’aspirante democrazia.

La “russificazione”: tra verità storiche e sciovinismo

Pochi in Occidente hanno realizzato lo shock identitario scatenato, soli trentatré anni fa, dal crollo dell’Urss. Milioni e milioni di persone, di origini miste e stratificate, hanno dovuto bruscamente ripensare se stesse e la propria appartenenza non più su base politica, ma etno-linguistico-religioso-nazionale. Per alcuni la cosa ha rappresentato una svolta indiscutibilmente positiva, per altri invece è stato un grande trauma. Il comunismo ateo e internazionalista sovietico era infatti rimasto estraneo, per non dire arcinemico, dell’esaltazione occidentale secondo-ottocentesca e primo-novecentesca dello Stato-nazione, trasmettendo ai popoli che ne hanno fatto parte un concetto molto avanzato di cittadinanza: non più basato sulla nazionalità, ma sull’appartenenza politica. La cittadinanza sovietica era infatti unica e comune a tutti i popoli dell’Urss. Una persona cara, di orientamento politico progressista, di madrelingua russa, di etnia mista russo-ucraina, nata e cresciuta negli Anni Settanta nella Repubblica Socialista Sovietica di Moldavia, è stata per i primi trent’anni della sua vita una cittadina sovietica di etnia mista russo-ucraina residente della Repubblica Socialista Sovietica Moldava. Dal 1991 con la caduta dell’Urss è divenuta poi moldava, ovvero cittadina della nuova Repubblica Moldava indipendente, per divenire infine cittadina italiana. Come lei, nel 2001 molti ucraini russofoni (e magari oggi filorussi), a soli dieci anni dal crollo dell’Urss si percepivano e dichiaravano volentieri semplicemente ucraini.

Se è innegabile che i russi nei Paesi dell’Urss (come prima durante lo zarismo, e oggi nella Federazione russa) fossero l’etnia politicamente dominante e di maggioranza relativa, è vero al contempo che in tutte le repubbliche socialiste sovietiche, proprio grazie al comunismo e a Lenin, le lingue nazionali divennero per la prima volta, e rimasero sempre, lingue ufficiali (ovviamente insieme al russo, che era lingua franca dell’Urss – com’è ancora oggi nel nostro mondo globalizzato l’inglese). Il rapporto della Russia con l’Ucraina e con la Bielorussia è storicamente diverso da quello, decisamente più bellicoso e para-coloniale, intrattenuto con i Paesi Baltici, la Finlandia e la Polonia. L’Ucraina centro-orientale ha fatto parte ininterrottamente dell’Impero Russo e poi dell’Urss per più di tre secoli, mentre quella Nord-occidentale è appartenuta prima alla Confederazione Polacco-Lituana, poi agli Imperi Tedeschi, e poi ancora alla ricostituita Polonia, riunificandosi al resto dell’Ucraina sovietica appena nel 1945. Tale plurisecolare divisione del popolo ucraino ha dato vita a una percezione dell’identità nazionale spesso profondamente differente: nell’Ovest questa si è sviluppata all’interno di un rapporto col mondo tedesco e soprattutto polacco, mentre nel Sud-est in rapporto con quello russo. Se in Occidente conoscessimo meglio la storia dell’Est-Europa potremmo facilmente criticare l’uno con l’altro i nuovi ultra-nazionalismi russo e ucraino (e con essi la scia di morte che si stanno trascinando dietro ormai da un decennio).

Per quanto riguarda la cosiddetta russificazione della lingua ucraina e bielorussa è necessario fare alcuni distinguo. Negli anni Trenta dell’Ottocento, ovvero in un momento in cui la cultura in lingua ucraina moderna muoveva i suoi primissimi faticosi passi verso una scrittura codificata e pienamente letteraria, fu coniata nell’Impero russo la teoria uvaroviana dell’obščerusskaja narodnost (ovvero la cosiddetta nazionalità russocomune), la quale considerava russi, bielorussi e ucraini tre sottogruppi di uno stesso proto-popolo e di una stessa proto-lingua slava orientale comuni. Una lettura per altro ancora oggi in voga tra gli storici e i linguisti, che veniva però utilizzata paternalisticamente e sciovinisticamente, specie a partire dagli anni ’60 dell’Ottocento, per favorire l’elemento grande-russo dell’aristocrazia zarista-moscovita e le aspirazioni pan-slaviste dell’Impero russo. Tale teoria non venne smentita, ma rivisitata, da quello che è considerato il primo vagito romantico-risorgimentale dell’identità nazionale ucraina moderna: la Confraternita dei santi Cirillo e Metodio (1845-1846). Il suo principale fautore, insieme al bardo ucraino Taras Shevchenko, fu lo storico ucraino di madrelingua russa Kostomarov, appassionato slavofilo e ucrainofilo che insegnò storia della Russia alle università di Kharkov/Kharkiv, Kiev e San Pietroburgo. Kostomarov riteneva che il vero incorrotto spirito slavo risiedesse proprio nella lingua e nelle tradizioni ucraine (considerate più “pure” rispetto a quelle russe), e vedeva di buon occhio la creazione di uno stato federale democratico a trazione ortodossa che comprendesse però su un piano di uguaglianza tutti i popoli slavi (russi e polacchi compresi). Spesso la prima russificazione di bielorusso e ucraino viene ricondotta a questo periodo, in cui lo zarismo tese a omologare ufficialmente piccolo-russi e russi-bianchi sotto il concetto di nazionalità russo-comune a trazione grande-russa moscovita (e a considerare i contemporanei esordi di ucraino e bielorusso letterari moderni come mere varianti dialettali del russo). Le motivazioni politiche della creazione della nazionalità russo-comune erano dovute al desiderio dell’aristocrazia zarista di creare una maggioranza assoluta di slavi orientali ortodossi all’interno dello smisurato e multietnico Impero russo, e a quello di evitare che ucraini e bielorussi venissero “contagiati” dalle due rivolte nazionaliste-separatiste polacche degli anni ’30 e ’60 dell’Ottocento – [fonte].

Ma se volessimo andare a fondo della questione, dovremmo risalire in realtà ben più indietro, ovvero all’accentramento assolutista, statalista e “illuminista” settecentesco iniziato con Pietro I e portato avanti risolutamente lungo tutto il XVIII secolo dalle zarine Elisabetta e Caterina II. Durante la prima metà del Settecento, in seguito al Trattato di Perejaslav/Andrusovo, ci fu infatti la russificazione dei cosacchi zaporogi, che dominavano buona parte del territorio dell’attuale Ucraina. Questi cosacchi, considerati da certo nazionalismo ucraino come pro-genitori degli attuali ucraini, dopo essersi emancipati dalla subordinazione polacco-lituana dominarono sotto la protezione russa per circa un secolo (1650-1750 ca.) un territorio etnicamente disomogeneo abitato da ucraini, rumeni, russi e polacchi, prima di essere definitivamente assorbiti, politicamente e culturalmente, dall’Impero russo. Altri cosacchi, come quelli del Don/Volga, celebri per le loro rivolte autonomiste (la più famosa è quella di Pugacev) ma anche per essere stati corpi scelti dello zar dalle guerre napoleoniche alla prima guerra mondiale, abitavano invece zone prevalentemente russe e russofone – tra cui proprio il Donetsk e il Luhansk. Parliamo ovviamente di russificazione delle élites cosacche zaporogie, della povera gente di questi territori e della sua lingua si sa a dire il vero molto poco. Non esistono documenti scritti in ucraino moderno antecedenti l’ultimo decennio del ‘700, e tutta la storia della letteratura ucraina precedente a quest’epoca è in paleo-slavo, e poi in slavo ecclesiastico, ovvero lingue letterarie medievale e moderna che sono patrimonio storico comune della tradizione linguistico-letteraria di molti popoli slavi (russi compresi). Negli ultimi decenni del ‘700 Caterina la Grande disperderà quel che restava del Sich dei Cosacchi zaporogi sulle sponde del Dniepr, e buona parte di essi andranno a formare i cosacchi del Kuban, dalle parti di Krasnodar in Russia nel Caucaso nord-occidentale. Anche questi cosacchi nel 1917 furono fieri difensori Bianchi dello zar durante la Guerra civile russa che seguirà la Rivoluzione di Ottobre. Tutto ciò per rimarcare, una volta di più, l’intimo intreccio che lega russi e ucraini della Riva Sinistra del Dniepr (piaccia o meno ai nazionalismi di entrambe le parti).

Passando al Novecento, quella che viene definita in certi casi a ragione “russificazione” dei Paesi del blocco socialista è legata a doppio filo alla violentissima e brutale repressione delle rivendicazioni culturali, nazionaliste e religiose considerate avere scopi politici anti-socialisti e anti-sovietici. Dai nazionalisti anti-sovietici e/o filo-zaristi durante la Guerra civile russa (1917-1922) ai collaborazionisti nazional-fascisti rumeni, finlandesi, baltici e ucraini durante la WWII (1940-1945), dai revanchismi e gli sciovinismi degli indomiti nazionalismi ungherese, ceco e polacco (1945-1989) e fino alla disgregazione finale del 1991, trainata dai nazionalismi esplosi nelle varie repubbliche durante la perestroijka (compreso quello russo propagandato da Eltisin, padre politico di Putin), è difficile non riconoscere nel nazionalismo anti-comunista la più grande ricorrente minaccia politica interna – infine trionfante – del mondo e della storia sovietici. La questione dell’identità nazionale è sempre stata legata nell’Urss (a torto o a ragione) al problema della repressione della dissidenza nazionalista borghese anti-sovietica.

La “russificazione” andrebbe considerata anche alla luce di quei fenomeni puramente novecenteschi ed estremamente omologanti dal punto di vista linguistico che sono stati la nascita dell’educazione pubblica e la diffusione dei mezzi di comunicazione; fenomeni che hanno coinciso con il periodo sovietico. Favorito e standardizzato dalla Korenizacija di Lenin fino a quasi tutti gli anni Trenta, lo sviluppo della cultura in lingua ucraina vide una battuta d’arresto in seguito alle terribili Purghe staliniane, che a dire il vero interessarono tutti i nazionalismi delle repubbliche sovietiche e tutte le forme di opposizione interna. L’ucraino diviene per la prima volta nella propria storia una lingua ufficiale di Stato (della Repubblica socialista sovietica ucraina), proprio grazie all’Urss e a Lenin, nel 1917. Quello che tristemente accadde durante il periodo staliniano, specie a partire dalla seconda metà degli anni ’30, fu il drammatico e criminale azzeramento dell’intellighenzia sovietica ucraina più attiva nell’incentivazione della cultura e dell’identità nazionale ucraine. Questi politici e intellettuali furono considerati da Stalin (quasi sempre in modo delirante e paranoico) come un monolitico nucleo eversivo, e quindi epurati quasi per intero nel corso degli anni Trenta.

Il periodo staliniano tese in effetti a rafforzare il russo specie nell’ultimo quindicennio, la legge che prevede una migliore diffusione del russo come lingua comune dell’Urss è infatti appena del 1938. Ciò non accadde per sciovinismo grande-russo del dittatore Stalin, che come noto era georgiano, quanto per reazione – totalitaria, eccessiva e paranoica – alle minoritarie ma pur diffuse derive anti-comuniste e borghesi nelle varie Repubbliche sovietiche. Stalin considerò infatti tout court anche i nazionalisti ucraini di più sincera fede sovietica come dei temibili oppositori politici da eliminare. Non di meno nell’Enciclopedia letteraria sovietica (1929-1939) Lunacharsky, già Ministro dell’Istruzione della Repubblica sovietica russa e poi direttore dell’Istituto di arte e letteratura sovietica, denunciava e criticava duramente la repressione della lingua ucraina durante il periodo zarista. In ogni caso, anche nel pieno degli anni ’40 esistevano scuole, riviste e stazioni radio in lingua ucraina (tra cui Radianka Ukraina e Radiostancija imeni Tarasa Schevchenko). Certo, non fu facile dopo il tragico periodo staliniano, e dopo l’eccidio della WWII, ricostruire una nuova generazione nazionale di artisti, intellettuali e quadri ucraini sovietici. Eppure, grazie alla diffusione massiva della televisione in Urss, e al ritorno di molti oppositori dai gulag (in virtù dell’amnistia di Khrushov del ’53), la Repubblica socialista sovietica ucraina già dalla fine degli anni ’50 godeva di una programmazione in lingua ucraina [qui il link a una approfondita ricognizione storica accademica sul tema, e qui il link a una testimonianza storica diretta, un po’ più tarda (1968), di un film in lingua ucraina]. Venendo a tempi ancora più recenti, nel 1971 la canzone in ucraino Chervona Ruta diventa un tormentone che dilaga per tutta l’Urss. Stupisce a volte come sulla falsariga di un certo sciovinismo ultra-nazionalista ucraino la propaganda occidentale rimuova il fatto che la lingua e la cultura ucraine, dopo Stalin, poterono abbondantemente rifiorire (anche grazie alle trasmissioni radio-televisive, ai concerti e alle performance teatrali, alle riviste e alla musica leggera), e vivere una vera e propria primavera durante l’era Khrushov, specie sotto il segretario della Repubblica socialista sovietica ucraina Shelest.

Negli ultimi due anni la nostra propaganda, imbeccata da un certo nuovo ultra-nazionalismo ucraino, ha confuso sistematicamente il lato politico e quello etno-linguistico della questione nazionale ucraina. La lingua e la cultura ucraine furono ampiamente diffuse nell’Ucraina sovietica (anche se, secondo il nazionalismo del Nord-ovest, in una forma russificata), ma ovviamente non potevano che esserlo attraverso la cultura sovietica. È forse questo l’aspetto che rimane più indigesto alla nostra propaganda e alla parte di nazionalismo ucraino legata a posizioni collaborazioniste, filo-occidentali e/o anti-sovietiche, mentre non lo è – o lo è molto meno – per quella rimasta invece in buoni rapporti con il comune passato comunista. Lingua e cultura sono da sempre un cruciale oggetto di contesa politica, questione che approfondiremo nella prossima puntata.

Dopo un nuovo periodo di parziale raffreddamento politico sotto Breshnev, che comunque non limitò l’ormai ampia diffusione culturale in lingua ucraina, con Gorbachov l’ucraino divenne per la prima volta nel 1989 unica lingua di Stato della Repubblica socialista sovietica ucraina. La Legge sovietica su lingue e nazionalità del 1989 dichiarava infatti lingua ufficiale di ogni Repubblica la sola lingua etnica dominante, ma garantiva alle lingue minoritarie lo status di lingue ufficiali regionali. Questo impianto sarà confermato dalla Costituzione ucraina del 1996 e rilanciato dalla Legge sulle lingue regionali del 2012 firmata dal presidente filorusso Janukovich, che – dietro richiesta della singola regione – rendeva ufficiale il diritto alla doppia lingua veicolare istituzionale russa e ucraina.

La brusca inversione di tendenza nazionalista avvenuta nel 2014 con Maidan culminerà con Legge dell’aprile del 2019, ultimo lascito del presidente uscente filo-occidentale Poroshenko. La legge nega la possibilità di frequentare scuole in lingua minoritaria dalla quarta elementare (specie il russo), obbliga il 90% della programmazione cinematografica, radiofonica e pubblicitaria a essere in ucraino, ed esclude ogni uso ufficiale delle lingue minoritarie nelle università. Tutto questo, come abbiamo osservato, anche in regioni dove al 2001 il russo era considerato unica lingua madre dal 40-75% della popolazione.

Nel 1862 un valdostano, un sardo, un catanese e un friulano dei ceti popolari non si sarebbero capiti parlando tra loro: non parlavano l’italiano. Le loro rispettive lingue vive erano molto più reciprocamente lontane di quanto non lo fossero all’epoca il russo, il bielorusso e l’ucraino. Quasi nessun italiano analfabeta del Sud avrebbe capito il misto milanese-fiorentino dei Promessi sposi, che funzionerà come standard scolastico del nuovo italiano post-unitario. De Mauro stimava che solo un 2.5% degli italiani di quegli anni capisse e parlasse l’italiano codificato standard, mentre altri studiosi più ottimisti (Castellani) arrivano a ipotizzare al massimo un comunque misero 10%. L’italiano che parliamo oggi si è imposto con grande fatica inizialmente come lingua franca intellettuale, poi a scuola e nella burocrazia, e infine come veicolo tecno-televisivo-commerciale. Mezzi di comunicazione e scuola pubblica, in una manciata di decenni, hanno reso corrente e diffusa una lingua italiana che fino a poco prima era puramente teorica e conosciuta da una cerchia molto ristretta. Quasi nessuna persona del popolo parlava l’italiano scolastico a casa o tra amici, secondo Pasolini addirittura fino quasi agli anni ’50 del Novecento. Non è questo il caso delle lingue russa, bielorussa e ucraina. Sulla Riva sinistra del Dniepr il bilinguismo nell’800 era diffusissimo tra gli intellettuali, e spesso anche tra le classi popolari la lingua effettivamente parlata era un pidgin russo-ucraino (il surzhyk). L’indomita sopravvivenza del surzhyk tra la gente meno scolarizzata dell’Ucraina centro-settentrionale della Riva sinistra è forse l’esempio più vicino di quella che poteva essere la lingua viva del mix di genti russe e ucraine che abitavano le sponde Nord-orientali del Dniepr da secoli (da ben prima che esistesse l’ucraino moderno, e forse addirittura da prima che esistesse il russo moderno).

La “russificazione” della lingua ucraina e bielorussa durante il periodo sovietico andrebbe dunque ricondotta a un insieme di fattori, ovvero 1) la reciproca appartenenza allo stesso ristretto ceppo linguistico slavo-orientale, 2) la storica plurisecolare mescolanza etnica e comunanza statale – prima zarista e poi sovietica – di una consistente parte di questi popoli, 3) l’omologazione linguistica scaturita durante il Novecento dal diffondersi della scuola pubblica, dalla diffusione dei mezzi di comunicazione di massa e dalla necessità emancipatoria di diffondere una lingua franca comune che permettesse a tutti i cittadini sovietici di accedere a ruoli politici e professionali di rilievo all’interno dell’Urss, 4) la repressione politica del Pcus contro le dissidenze nazionaliste interne borghesi, filo-occidentali e anti-sovietiche (che pure esistevano), 5) l’eterna lotta politica all’interno dello stesso Pcus tra le fazioni più inclini a favorire e incentivare l’elemento nazionale nelle repubbliche sovietiche, e quelle che invece vi vedevano soltanto un’inesauribile ed esiziale fonte di eversione politica.

Per queste ragioni trovo storicamente azzardato e semplicistico affermare che l’assimilazione linguistica di ucraino e bielorusso sia da ascrivere in toto a un pianificato tentativo di cancellazione russo-sovietica della cultura e della lingua ucraine, specie se consideriamo che la nascita ufficiale come lingua di stato e la compiuta codificazione dell’ucraino stesso è stata propiziata dall’Urss. Mi pare più appropriato spiegare quindi la “russificazione” di ucraino e bielorusso attraverso l’intreccio dei diversi e sovrapposti fattori storico-politico-sociali proposti. Tutto ciò ovviamente senza negare le violenze mostruose subite da intellettuali e quadri di partito ucraini (e non solo ucraini) durante le Purghe staliniane, né l’oggettiva repressione sovietica delle istanze nazionali di matrice anti-comunista, né tanto meno il precedente tentativo assimilazionista e paternalistico-repressivo dello zarismo grande-russo moscovita.

Il problema delle minoranze etniche russe (e russofone) nei Paesi dell’ex-Urss

Bene hanno fatto i popoli ex-sovietici (moldavi, baltici, tagiki, georgiani, azeri, ucraini, kazaki, ecc.) a pretendere e ottenere la piena riscossa delle loro élites nazionali nelle posizioni di potere, nella lingua e nelle istituzioni dei loro nuovi Paesi indipendenti post-sovietici. Eppure, parallelamente, bisogna anche considerare:

  1. Che il crollo dell’Urss ha “liberato” un’ondata di nazionalismi e radicalismi religiosi che hanno interessato in primis proprio la Russia. Come nel caso dell’ultra-nazionalista russo Solgenitsin – sì, proprio l’autore di Arcipelago Gulag, che riteneva la Rivoluzione d’ottobre un complotto giudaico anti-russo, che voleva la reintroduzione della pena di morte, e che verso la fine della vita sferzava Putin accusandolo di non essere abbastanza ultra-nazionalista e devoto cristiano ortodosso. Come già paventava Terzani in Buonanotte signor Lenin, la disgregazione dell’Urss ha lasciato campo aperto ai peggiori istinti nazionalisti e fideistici, che il laico e illuministico Occidente non ha esitato a fomentare in chiave anti-russa. Sono ormai trent’anni che nei Paesi ex-Urss, ex-Varsavia ed ex-comunisti, dilaga una potente propaganda ultra-nazionalista, ultra-cristiana e – nei Paesi a maggioranza musulmana – islamista radicale, sempre ben foraggiata dagli Usa. In questo senso, il recente attentato al Crocus di Mosca rientra purtroppo in un solco pluridecennale di radicalizzazione islamica nei Paesi post-sovietici a maggioranza musulmana, aggravato negli ultimi tempi dalla brutale ma efficace distruzione dell’Isis che la Russia ha portato a termine in Siria (togliendo le castagne dal fuoco proprio agli Usa).
  2. Che moltissimi Paesi appartenuti fino a trent’anni fa all’orbita sovietica hanno minoranze etniche russe di estremo rilievo (Kazakistan 18% – con picchi del 50% nel Nord del Paese, Estonia 28%, Lettonia 26%, Moldavia 13% – Paese dove, nonostante i tentativi di destabilizzazione occidentale, la convivenza tra russi e moldavi rimane relativamente serena e i monumenti di epoca sovietica fanno bella e serena mostra di sé nei parchi e nelle piazze). Tali minoranze hanno diritto di essere protette, come lo sono anche quella tedesca a quella slovena in Italia. Per farci un’idea dell’ordine di grandezza, consideriamo che la minoranza slovena in Italia conta lo 0.1% della popolazione totale e l’1.72% in Friuli-Venezia Giulia, dove è concentrata. Non sarebbe un delitto – oltre che un atteggiamento fascista – proibire le scuole in sloveno in Fvg? Perché nessuno pare stupirsi della de-russificazione forzata di una regione come il Donetsk, che nel 2001 aveva un 40% di minoranza russa e un 75% di persone di sola madrelingua russofona? È davvero sufficiente dire che prima (in un tempo ormai remoto) queste persone sono state forse linguisticamente russificate per legittimare oggi la forzata ucrainizzazione?
  3. Che i Paesi ex-sovietici delle quindici repubbliche dell’Urss, a parte i Baltici per una ventina d’anni tra le due guerre, non sono mai stati indipendenti prima di trent’anni fa (salvo che per qualche anno, pieno di lotte intestine e di vera e propria guerra civile interna a più fazioni, durante la Guerra civile tra Bianchi e Rossi dal 1917 al 1922). La loro struttura di Stato nazionale indipendente moderno è stata infatti inaugurata e modellata proprio dall’Unione Sovietica, che nella sua costituzione prevedeva il diritto di secessione. Tutti questi stati inoltre – anche quelli in cui sono state sempre più forti le spinte filo-occidentali, secessioniste e anti-sovietiche – hanno avuto una significativa parte di popolazione, di intellettuali e di politici nazionali che fu convintamente comunista. Negare questo, cedendo alle seduzioni della nostra propaganda, rischia di non farci capire nulla della complessità storico-politica di questi popoli e di questi Paesi.
  4. Che diversamente dal nuovo corso nazionalista ucraino, la Bielorussia ha finora preferito mantenere la doppia lingua veicolare ufficiale nelle scuole, nei media e nelle istituzioni. Il dittatore filo-russo Lukashenko si è infatti imposto politicamente nelle elezioni del 1994 come outsider poco quotato, beneficiando di un troppo veloce e radicale tentativo di cancellare il russo dal Paese, messo in opera suoi rivali politici filo-occidentali sulla falsariga del nazionalismo baltico. Tale tentativo spaventò però molti cittadini bielorussi (e persino parte delle nuove élites nazionaliste), che l’anno successivo votarono massicciamente (oltre l’80%) a favore del referendum che proponeva di reintrodurre il bilinguismo istituzionale russo-bielorusso. In Bielorussia, secondo l’ultimo censimento del 2009, il bielorusso è parlato di preferenza solo dal 23% della popolazione (che pure lo conosce e lo usa), mentre il russo è parlato di preferenza dal 71%, nonostante la minoranza etnica russa sia solo dell’8% – ovvero meno della metà di quella presente in Ucraina (18%). Una buona metà della popolazione predilige poi nel linguaggio informale il trasianka, variante bielorussa del surzhyk ucraino. Dopo la vittoria al referendum del 1995 il russo è stato favorito per un certo periodo da Lukashenko a scopi politici, ovvero in chiave anti-nazionalista, anti-occidentale e anti-secessionista dal Csi. Dal 2015 però, proprio il filorusso Lukashenko, ha avviato una campagna di salvaguardia e rilancio della lingua bielorussa che secondo le autorità ha portato a una parità di diffusione delle due lingue nelle scuole pubbliche (percentuale fortemente discussa, come lo furono gli esiti del referendum del 1995, da diversi attivisti nazionalisti filo-occidentali). Nonostante i molti problemi e la mancanza di libertà nel Paese, i cittadini bielorussi, diversamente da quelli ucraini dell’Est e del Sud, sono liberi di studiare, andare alla scuola dell’obbligo, leggere i cartelli stradali, vedere film ed esprimersi in consessi istituzionali nella lingua che prediligono – sia essa il russo o il bielorusso.

Il prossimo intervento del trittico tratterà della questione dell’identità nazionale, culturale e linguistica considerata come posta in gioco politica in Ucraina, in alcuni altri esempi storici e all’interno dell’attuale scenario geopolitico mondiale.

*Immagine di apertura tratta da wikipedia (recante un affiche sovietico degli anni ’20 in lingua ucraina).

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