di Livio Cerneca
Quando andrete a vedere Come cavalli che dormono in piedi – perché sarebbe il caso che andaste a vederlo – vi renderete subito conto di non stare assistendo ad uno spettacolo teatrale. A dire la verità, il vostro ruolo non sarà neanche quello di spettatori. Sarete invece invitati a evocare lo spirito degli antenati. È questo che chiede Paolo Rumiz ai convenuti nella Sala Bartoli del teatro Rossetti, e per rendere bene evidente che non c’è rigorosa delimitazione tra palcoscenico e platea, le luci in sala restano sempre parzialmente accese.
Paolo Fagiolo, Paolo Rumiz e Stefano Schiraldi non propongono una lettura, una rievocazione né tanto meno una celebrazione dello stato di guerra perpetuo in cui siamo immersi fin dal 1914. Si tratta invece proprio di una seduta spiritica in cui si fanno rivivere – attraverso storie, aneddoti, testimonianze e appunti di viaggio dello scrittore – i soldati che combatterono sul fronte orientale nella Grande Guerra, in particolare quelli triestini e trentini nati austriaci.
Ma Rumiz non chiama solo gli spettri dei giovani italiani in divisa austro-ungarica. La mascella spappolata, la carne a brandelli da cui sgorga il sangue manda in panico il soldato austriaco colpito, mentre il nemico gli si avvicina a passi veloci, forse per finirlo. Inaspettatamente, il russo si china, si rivolge al ferito nel proprio idioma, cerca di calmarlo, fascia con qualche straccio la devastante lesione, dà un calcio alla pistola con cui un attimo prima il ferito voleva porre termine alla propria agonia, se lo carica sulle spalle e lo consegna agli infermieri.
La bomba che viene lanciata sulla latrina proprio un attimo prima che ci si disponga a consumare il tanto atteso rancio, e la tragicomica esplosione che ne consegue, lasciano in bocca – in tutti i sensi – a noi che non abbiamo idea di cosa possa essere stato trascorrere mesi e anni in trincea, il sapore di quel menù fangoso, un sapore da raccomandare a quelli che ancora oggi capita talvolta di sentire mentre, sgranocchiando qualche salatino, ci istruiscono sulla necessità della guerra.
Rumiz condivide poi la meraviglia che lo ha colto quando ha scoperto che nei cimiteri di guerra austro-ungarici del fronte orientale sono sepolti anche i nemici sotto lapidi e croci che li ricordano con lo stesso rispetto riservato ai soldati dell’Impero, e come quegli stessi cimiteri fossero frutto di pianificazioni attente e lungimiranti sia sul piano architettonico sia su quello ambientale.
Il periodico rituale gastronomico di un sopravvissuto alla fame e alle trincee che, anche dopo molti anni che la guerra è finita, continua a rastrellare gli avanzi di cibo dal frigorifero e li cucina tutti insieme in una brodaglia raccapricciante, facendo orgogliosamente inorridire la moglie, è un altro frammento tra le decine di storie che Paolo Rumiz ha selezionato per queste serate in cui, seduto a un vecchio tavolo di legno, continua a dimostrare di essere non solo lo scrittore e giornalista empatico, ma anche un raccontatore che manipola con naturalezza quella tradizione orale da cui preferisce attingere nelle sue ricerche. Senza alcun artificio, senza enfasi o effetto speciale retorico, riesce a bloccare ogni tentativo di divagazione della nostra mente e a farci vivere ora un passato che è sempre presente.
Ci mette in guardia, infatti, il triestino dai lunghi passi solitari, dal dare per scontati i tempi relativamente quieti di cui abbiamo la fortuna di godere, ribadendo ancora una volta una sua ricorrente constatazione che ogni giorno sembra sempre più venir confermata: l’Europa era più Europa un secolo fa di adesso.
Dal punto di vista scenico e dinamico, accade che la fluida narrazione informale di Rumiz, il quale un paio di volte si abbandona con gran gusto al dialetto triestino – “la mia lingua”, come dichiara felice – venga spezzata da una parte dalle musiche eseguite alla chitarra acustica da Stefano Schiraldi, che canta anche versi e brani del libro da cui è tratta la performance in una curiosa modalità tra rap e canzone d’autore, col testo cacciato a forza nella melodia, e dall’altra da letture recitate con voce impostata e dizione impeccabile da Paolo Fagiolo. Questi intermezzi hanno un effetto leggermente dissonante, quasi sperimentale, un effetto forse intenzionalmente ricercato ma la cui funzione non risulta immediatamente chiara.
In ogni caso, il sentiero lungo il quale seguiamo le impronte delle pedule di Rumiz è ben tracciato e ci sono poche probabilità di perdere il cammino. Di certo, molte meno di quante ne abbiamo di perdere altre cose che ci illudiamo siano garantite.
Come cavalli che dormono in piedi va in scena alla Sala Bartoli venerdì 18 e lunedì 21 dicembre alle ore 19.30; mercoledì 16, giovedì 17, e sabato 19 dicembre alle 20.30 e domenica 20 alle ore 17.