“Dark Deleuze”. Tra accelerazionismo e Apocalisse

di Valerio Cianci

Quando un medico dà il proprio nome a una malattia, vi è in ciò un atto, nello stesso tempo linguistico e semiologico, molto importante, nella misura in cui tale atto associa un nome proprio a un insieme di segni, o a far sì che un nome proprio connoti dei segni.

(G. Deleuze, Il freddo e il crudele)

Dark Deleuze è un inquietante ibrido in cui svaniscono del tutto i confini fra forma e sostanza. Già nella prima riga dell’introduzione all’edizione italiana veniamo informati che “dell’autore di questo libro non si sa molto”, come se Culp volesse inscrivere su di sé i segni del de-divenire di quella scrittura criptica a cui anela. Il filosofo recede nella “vergogna del soggetto” e lascia emergere in sua vece un’opera densa, a volte contorta, intrisa di cri(p)ticità. Eppure, l’obiettivo del testo non è la chiarezza teoretica – Dark Deleuze, come viene più volte sottolineato, in fondo non è che un pamphlet.

Di conseguenza la sua efficacia non è da identificare con la precisione formale ma con la capacità di agire “affettivamente” – di insediarsi nelle costellazioni affettive del lettore e di germogliarvi per intensificare sensazioni germinali o eradicare convinzioni irriflesse. È il caso di lasciare che questo piccolo mostro estenda la sua spiegatura corruttrice ad altri testi, altri concetti secondo modalità evocative, seguendo una mappatura diagrammatica che infetti e ricodifichi il loro terroir d’origine. La spiegatura del resto opera per conduzione, non per comunicazione.

È così che disfunziona Dark Deleuze. E non involontariamente. Nella conclusione, che è quasi una dichiarazione metodologica, Culp scrive

[…] la forza del pensiero è una questione di stile e non di specificazione di concetti […]. Pertanto, costruisco la mia indagine attraverso formulazioni che sono “anesatt[e] e tuttavia rigoros[e]”.
(Tutte le citazioni senza indicazione bibliografica sono tratte da Dark Deleuze, Mimesis, 2020).

Lo stile intensifica programmaticamente il contenuto concettuale del testo, disarticolandosi in una vertiginosa sequenza di ciò che Deleuze avrebbe definito idee distinte-oscure, la cui intensità è minuziosamente resa nella traduzione, a cura di Francesco di Maio, che ricalca la stessa sintassi involuta, criptica e iper-condensata dell’originale.

Questo aspetto, coniugato a una certa impazienza argomentativa (del resto coesa alla forma/funzione del testo) è forse ciò che insospettisce Paolo Vignola e Rocco Ronchi, che firmano rispettivamente una “(Non)Prefazione” e una postfazione/replica. In entrambi i casi, pure con intenzioni e modalità differenti, gli interventi non esitano a rimarcare alcune inesattezze, elisioni, persino una certa naïveté. E qui forse, si scorge una potenziale debolezza del testo, tuttavia non completamente imputabile all’autore. La scelta di un confronto diretto, esplicito con Deleuze offre il fianco a una possibile neutralizzazione dell’intento del testo, a favore di una serie di compulsioni accademiche volte a rivendicarne e re-incorniciarne con esattezza l’oggetto (il pensiero deleuziano).

Questa virtuale deriva filologica viene però inibita dall’introduzione all’edizione italiana, in cui Francesco di Maio rimarca che i testi di Culp

[…] hanno innanzitutto un intento polemico e politico. La necessità di scrivere un testo sul filosofo francese Gilles Deleuze […] è dovuta a una forma di saturazione: la sagoma di Deleuze, filosofo anarchico […] è stata sciolta al sole accecante della Silicon Valley ed elevata a santino, a “genio della lampada lava” da quei pochi hippie divenuti poi giganti del silicio. E così Deleuze, da colui che voleva rovesciare l’ontologia, è diventato un paladino dello status quo. I suoi concetti, a partire dagli anni in cui sono stati fabbricati, hanno perso progressivamente la loro incisività, corrotti dall’uso e dalla banalizzazione che se n’è fatto.

Quella di Culp è in sostanza una perversa dichiarazione d’amore al filosofo francese: non vuole esaminare, ri-contestualizzare, interpretare il pensiero di Deleuze con il placido distacco dell’accademia – vuole decodificare, ibridare, “cannibalizzare” un pensiero che venga restituito alla sua intenzione – e non alla sua forma – originaria. Come viene evidenziato altrove, l’operazione di Culp è quasi una regressione non-teologica all’essenza del pensiero di Deleuze,

l’essenza stessa di quell’imparare con che Deleuze distingueva fermamente dal passivo imparare da: un infaticabile lavoro di assemblaggio di mostri, anziché di simulacri.

La ricezione dei concetti deleuziani si è cristallizzata (memificata) in una docile esaltazione della differenza, della complessità, della connessione, funzionali alle pratiche di soggettivazione e di controllo del platform capitalism. L’opera di Culp è una sorta di esercizio di filologia negativa – le formulazioni sono collassate sulla loro (ipotetica) negatività originaria che tuttavia non è un fine, ma singolo filo della fitta trama cospiratoria il cui obiettivo è uno e uno soltanto:

la fine di questo mondo, la sconfitta finale dello Stato e il comunismo pieno.

È significativo come, in una concettualità labirintica fatta di negatività e negazione, l’unica affermazione cristallina sia proprio la dichiarazione d’intenti del testo (affermazione così candida e lineare che nella postfazione viene declassata a “infantilismo”) a conferma di come la finalità esplicita di Culp non sia in alcun modo teoretica/filosofica bensì politica e, quindi, pratico-metodologica. Dark Deleuze non desidera una nuova fondazione (e forse non desidera affatto), ma la fuga dalle vischiose limitazioni del reale verso una meta (esplicitamente provvisoria) che ne diviene la polarità attrattiva.

Nel corso del libro Culp propone una serie di opposizioni/antinomie che tuttavia vogliono sottrarsi all’operazione di “riciclo” della negazione dialettica. Rifacendosi alla lettura deleuziana del clinamen, Culp propone negazioni (o, meglio, negatività) che disconoscono la propria origine – vere e proprie asimmetrie ossia differenze radicate in un’intrinseca “inequivalenza formale”.

Conseguentemente ciò che può in prima istanza apparire come contrapposizione di opposti, è in realtà, nel testo, una “spiegatura” non-polare in cui le opposizioni di “coppie concettuali” vengono contaminate con un terzo termine che arriva dal “di fuori”. I rizomi de-divengono spiegature, lacerazioni che operano conduttivamente non per dissipazione ma per proliferazione disgiuntiva; i concatenamenti, de-divenire; la complessità, asimmetria; la produzione, interruzione.

Il risultato di questa vivisezione concettuale è una serie di vettori che, pur nascendo nelle viscere del pensiero deleuziano, ne emergono come irriconoscibili ibridazioni – lo “cannibalizzano”, lo pervertono, lo contaminano divenendo escrescenze cancerose tese all’annichilimento di ogni forma di docile accettazione. I vettori che articolano la “fuga” del libro sono affettività oscure, violenze e perversioni. Deleuze non è che uno sbiadito fantasma che svanisce nelle ombre della cripta.

È solo nelle catacombe che comincia la ribellione segreta. […]. Tale […] caduta nell’oscurità inizia con una protesta: la luminosità è stata troppo a lungo il modello dominante di pensiero. La strada qui discende dalla cappella alla cripta.

Benché Culp – e questo aspetto viene più volte sottolineato nell’apparato critico – voglia prendere le distanze tanto dall’accelerazionismo quanto dalle sue derive (?) reazionarie esemplificate dal Dark Enlightment di Nick Land, una serie consistente di aspetti dell’opera riverbera non poche tematiche e preoccupazioni tipiche dei testi del “collettivo” fondato da Land e da cui le correnti contemporanee dell’accelerazionismo discendono: la CCRU.

Le speculazioni della CCRU si inseriscono in un periodo – i tardi anni ’90 – saturo di tensione avventizia nei confronti della possibilità di realizzazione del materialismo trascendentale deleuziano dispiegate dall’allora nascente interconnessione globale informatica. Delphi Carstens, nella sua tesi di dottorato, Uncovering the Apocalypse, riconduce queste espressioni letterarie a ciò che definisce “affettività apocalittica”, e ora, a trent’anni di distanza, benché lo scenario sia decisamente diverso, fra “il cambiamento climatico fuori controllo, la Sesta Estinzione e molte altre imminenti catastrofi” non è un caso che in Dark Deleuze echeggi una simile affettività chiliastica, oscura, iconoclasta, sorta dalle ceneri dell’inadeguatezza di ogni esplorazione pregressa. Al di là della più evidente affinità “genealogica” in relazione agli autori di riferimento (Deleuze, Guattari, Lyotard, Artaud…) la CCRU e Dark Deleuze condividono la stessa violenta urgenza per l’apertura a “un nuovo futuro non-ancora-realizzato” in cui l’esistente viene cannibalizzato, posseduto; la soggettività viene disprezzata e rifiutata come relitto antropo-teologico che incatena al presente e inibisce il pieno dispiegamento del pensiero (o della “critica” nel lessico landiano).

Per noi, allora, il soggetto dovrebbe essere detto quasi con disprezzo come la sola somma delle abitudini di un corpo, molte delle quali sono schierate a evadere il pensiero.
[…] [I] soggetti sono interessanti solo quando stendono una “linea verso il di fuori” […]– in breve, quando smettono di essere soggetti […] Questo processo […] non è un “ritorno” alla soggettività per salvarla ma la disintegrazione del soggetto mentre evapora in un campo di forze dove non sopravvivono né persone né identità.

In entrambi i casi Deleuze viene spogliato dalla sua dimensione vitalista, pervertito in una torsione anastrofica che dinanzi alla rovina e alla catastrofe non esita a condannare l’universo intero per dissiparsi in una distruzione palingenetica.

In un passaggio che sembra essere una (ri)politicizzazione delle istanze promosse dal cosiddetto accelerazionismo incondizionato (U/Acc) – sotto molti aspetti più affine al pensiero della CCRU di quanto non lo siano le tesi di Srnicek e Williams – Culp propone di spingere la dissoluzione/spiegatura del capitalismo oltre i suoi stessi limiti, estendendola a ogni aspetto del presente per superarne la stagnazione.

(A riconferma delle affinità evidenziate, vale la pena sottolineare come il concetto qui espresso da Culp sia quasi sovrapponibile a ciò che Land e la CCRU definivano “sintesi inibita”).

[…] il comunismo è rivoluzionario perché crede troppo nel processo di dissoluzione. Il capitalismo deve essere criticato poiché non è all’altezza – accoppia la potenza conduttiva di spiegatura con la logica rizomatica dell’accumulazione. Un comunismo degno del suo nome spinge la spiegatura al suo limite.

Il veemente rifiuto del realismo in favore del materialismo conduce Culp ad abbracciare una “tattica” narrativa in cui “Il Teatro della crudeltà di Artaud dà forma alla strada da seguire”, un teatro cioè che non narra ma intensifica, che “innesta immagini nei cervelli di coloro che non hanno il potere di fermarlo”. Queste immagini operano secondo un principio di “realismo del falso”, che si insedia nelle trame del presente e ne estrae/astrae tracce non vissute “indebolendo” dall’interno la maglia narrativa del reale, dispiegando ipogee vie di fuga verso l’Esterno. Questa dissezione incrociata della Crudeltà di Artaud e delle Immagini-Tempo e Immagini-Movimento di Deleuze rievoca con una precisione difficilmente imputabile al caso le dichiarazioni di guerriglia finzionale contenute nel testo Lemurian Time War della CCRU, che recita:

Burroughs battezza il programma di controllo dominante “Universo del Dio Unico”, o UDU, e dichiara guerra alle sue finzioni narrative che fondano il proprio dominio monopolistico sui poteri magici del Mondo: sulla programmazione e sull’illusione.
[…] “Le religioni sono un’arma”.
Per poter operare efficacemente l’UDU deve innanzitutto negare l’esistenza della guerra magica stessa. Esiste una sola realtà: la sua. Scrivendo della guerra magica Burroughs sta già di conseguenza dichiarando guerra all’UDU, indirizzando la sua contestazione alla “unità primaria”. L’UDU incorpora tutte le narrative, fra loro in competizione, nella propria storia (la metanarrativa definitiva), riducendo i sistemi di realtà alternative a componenti di segno negativo del suo stesso mito: gli altri programmi di realtà divengono così il Male, e vengono associati all’inganno e al delirio. Il potere dell’UDU deriva da finzioni che rifiutano il proprio status finzionale: anti-fiction e non-non-fiction. “E questo” disse Kaye “è il motivo per cui la finzione può essere un’arma nella lotta contro il Controllo”.
(CCRU, Writings 1997-2003).

Il controllo psico-politico esercitato dalla “metanarrativa definitiva” della connettività e della creatività deve essere contrastato con una guerra occulturale, segreta, fatta di complotti e macchinazioni sotterranee che rivolgono la creatività contro la creatività stessa per generare concetti mostruosi, acefali e disincantati che ci trascinino nelle profondità delle cripte e delle catacombe, là dove inizia “la ribellione segreta”.

Molte delle tesi proposte da Culp dimostrano una certa affinità, più o meno evidente, con diversi elementi delle dottrine gnostiche, e questo, forse, quale elemento primario di quella “affettività apocalittica” già evidenziata, non è un caso. Questa eco chiliastica-misterica viene evidenziata anche nella postfazione “Gilles the Obscure”, benché Ronchi se ne serva esclusivamente per dimostrare la “non poca violenza” che Culp farebbe alla lettura del deleuzismo.

La negazione del mondo è in effetti una colonna portante del testo, così come il disvelamento della natura deteriore delle categorie concettuali che sembrano dominarlo. L’insistente evocazione di concetti in diretta opposizione alla doxa deleuziana ricorda molto da vicino la tattica degli Ofiti, setta gnostica che nella sua lotta contro il creato (e il Creatore) fondava la propria cosmologia sulla ricodificazione di figure bibliche tradizionalmente considerate malvagie (in questo caso il Serpente, da cui la setta prende il nome). In un mondo la cui natura è ingannevole, ne consegue che ciò che da esso è ritenuto deteriore possa divenire vettore di liberazione; e in effetti, a prima vista, l’operazione di Culp sembra essere la stessa – i concetti positivi o vitalisti di Deleuze sono diventate armi al servizio della “nera prigione di ferro” del capitalismo, e così ciò che esso stigmatizza o rimuove diverrà l’arma per combatterlo (l’oscurità, la negatività…).

Tuttavia, Culp riesce a non rovinare nel “platonismo esasperato” o nel “dualismo radicale” – la sua operazione di negatività non è “un ricorso a qualche essenza sfuggente” ma una spietata (crudele) applicazione dell’empirismo trascendentale di Deleuze per il quale

le condizioni di esperienza attuale non [sono] rappresentate attraverso il tracciamento empirico.

Dark Deleuze vuole scatenare una guerra del segreto in cui però la segretezza non nasconde nulla. Ogni fine è provvisorio, non esiste trascendenza. Le alternative devono essere costruite immanentemente non svelando l’inganno di una realtà in favore di una realtà più profonda, ma disarticolando le finzioni attuali in nuove diverse perverse finzioni, radicate come virtualità nell’inadeguatezza del mondo così com’è.

Nella sua ricettività affettiva verso le sensazioni della contemporaneità, la denegazione della “realtà” del connettivismo e della gioia di Dark Deleuze più che la dicotomia ontologica dello gnosticismo sembra invece intercettare il flusso tematico di un’eterogenea costellazione di teorie nota come realismo depressivo – complesso teorico che di recente, grazie anche a una nuova fioritura del pessimismo filosofico e della narrativa horror-weird, ha goduto di una crescente risonanza.

La nozione di realismo depressivo venne originariamente coniata alla fine degli anni ’70 da due psicologhe statunitensi, Lauren Alloy e Lyn Ivonne Abramson, in relazione alla loro convinzione che i soggetti depressi avessero una cognizione più realistica del mondo rispetto ai non-depressi. Come evidenzia Gianluca Didino nel suo dettagliato articolo in merito, questa teoria, anche nelle sue contaminazioni più recenti non è priva di aporie e denota anzi un forte bias razionalistico: al disinvestimento libidico proprio della depressione, e dunque all’assenza di emotività di chi ne soffre, corrisponderebbe direttamente una maggiore oggettività. Tuttavia, per riciclare una citazione di William James di cui Didino si serve, si possono trovare in questo scenario elementi decisamente interessanti, in una certa maniera affini alle speculazioni di Culp.

Non c’è dubbio che la salute mentale sia una dottrina filosofica inadeguata, perché gli orrori che si rifiuta di prendere in considerazione sono una porzione non trascurabile della realtà; e potrebbero anche essere la chiave migliore per comprendere il significato della vita, e forse gli unici strumenti per accedere a un livello più profondo della realtà.
(William James, Le varietà dell’esperienza religiosa).

Ora, sostituendo “salute mentale” con “connettivismo” le affinità teoriche diventano più che evidenti. La divergenza principale è allora proprio la concezione ontologica che orbita attorno al termine “realismo” – come già visto Culp rifiuta veementemente ogni ontologia e di conseguenza ogni realismo in favore di una più oscura immanenza fatta di pragmatica (cospirazione) e materialismo. Ne consegue che dove il realista depressivo una volta svelato l’orrore del mondo a esso si ferma con una certa passività, considerandolo realtà ultima (talvolta con derive mistico-reazionarie) quasi trascendentalmente garantita dalla supposta oggettività dell’anedonia, l’immanentista oscuro rovina ancor più a fondo nell’orrore, facendolo de-divenire un’arma per spingersi verso un ulteriore “di fuori”.

Al disvelamento del realismo depressivo corrisponde insomma una certa accettazione-rassegnazione della realtà definitivamente svuotata di senso. Per Dark Deleuze invece essa diviene la constatazione di partenza che “siamo già morti” e quindi già da sempre pronti a un cataclisma rivoluzionario.

L’esistenza è il risultato di un disastro, tuttavia dice molto poco su di noi; non spiega ma deve anzi essere spiegata.

A una comune idea secondo cui la realtà sarebbe inadeguata, “fittizia”, e che un’accettazione “gioiosa” nulla può nei confronti dell’oscura sotto-realtà del mondo, forse unica vera “natura”, consegue insomma una divergenza metodologica. Culp non si ferma al primo livello (“non credere mai che l’oscurità basterà a salvarci”), precipita invece in una mise en abîme di “spiegature” e dissoluzioni, inoltrandosi sempre più a fondo nella tana del Bianconiglio in un vortice che ricalca la paranoica gnosi di Philip Dick per cui ogni nuova dimensione di realtà non era che una nuova, più profonda finzione.

I curatori dell’edizione italiana sono concordi nell’affermare che Dark Deleuze è un libro per deleuziani, difficilmente accessibile senza determinate conoscenze preliminari. Allora, se è così criptico, dove risiederebbe la sua efficacia rivoluzionaria?

In apertura ho menzionato una possibile debolezza del libro – il confronto diretto con Deleuze potrebbe degenerare in una querelle filologica circa l’interpretazione di Culp, con la conseguenza di un offuscamento del suo pensiero. Tuttavia, Culp è forse consapevole che, a fronte dell’ormai compulsiva pre-interpretazione deleuziana della realtà, è proprio là dove si discute della connettività che cova il problema – le tecnologie, la società, le loro interpretazioni e le loro interconnessioni sono nuclei che generano affettività e producono soggettività, Dark Deleuze sembra volersi innestare alla sorgente di queste interpretazioni e frantumare le cristallizzate concrezioni di automatismi del pensiero che la infestano. Relazionandosi a Deleuze, Dark Deleuze vuole forse connotare i segni di quel nome, parassitarli, infettarli in modo che ogni futura riflessione, prima dell’automatico elogio vitalista sia costretta a fare i conti con questo inviso, orrendo mostro. E, a giudicare dall’incandescente dibattito seguito alla sua uscita, c’è da (dis)perare che l’infezione stia seguendo il suo corso.

I filosofi hanno finora soltanto interpretato il mondo in diversi modi. Ora si tratta di finirlo.

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