di Nicola Gaiarin
Il libro più lynchiano che possiedo è una raccolta di fotografie anonime in bianco e nero in buona parte scattate tra fine dell’800 e la metà del ’900. Sono immagini di persone, adulti e bambini, vestite in strani costumi da Halloween. Lynch ha scritto la prefazione al libro, intitolato Haunted Air (a cura di Ossian Brown, Jonathan Cape, Londra 2010), e in quelle poche righe racconta di quando un amico gli ha detto che c’erano delle fotografie che avrebbero potuto piacergli. Lynch dice che guardando quelle foto gli sembrava di essere in un qualche mondo estraneo, animato da una preoccupante forma di cameratismo, che lo attraeva come un magnete ma sembrava al contempo escluderlo. Come se un qualche scherzo o una battuta inquietante (haunting, scrive Lynch, ovvero il tipo di inquietudine che ti infesta come una specie di fantasma) circolasse tra persone di una cerchia ristretta, uno scherzo o una barzelletta che si percepiscono sottotraccia. Tutti sembrano conoscere il senso di quello scherzo, tutti tranne lui, David Lynch, ma allo stesso tempo, in modo vago, anche lui lo comprende anche se in modo più incerto e tenue.
Queste fotografie sembrano documentare qualche forma di rito sociale, una specie di cerimonia di Ognissanti in cui grandi e piccini si vestono da mostri, da morti, da lupi mannari, da fantasmi o da vampiri, ma soprattutto si fanno fotografare, perché l’immagine è il sigillo del rito. Ci sono anche i costumi di personaggi apparentemente più innocui, c’è persino un bambino vestito da Paperino, ed è forse il più spaventoso, con la sua maschera da papero deformata che sembra scioglierglisi addosso e colargli sulla faccia come se stesse fondendo, quasi a suggerire che sotto la maschera non ci sia niente, che la maschera sia tutta la testa. Assistiamo così alle scene di una cerimonia o di un rituale in cui circola qualcosa, un significato forse, che potrebbe collegare tutte queste persone in maschera. Quando chi osserva quelle foto pare sul punto di capirne il senso, quando ci sembra di avere sulla punta della lingua la parola che scioglie l’indovinello, sfogliando il libro e continuando a passare in rassegna le fotografie, il significato della recita o della cerimonia pian piano sfugge, si ritrae: come se il senso delle maschere fosse quello di non essere più maschere di alcunché, come se il travestimento e la fotografia fossero tutta la cerimonia. Una collezione di foto che si sfoglia come la documentazione di un grande teatro sociale, di un drive-in con lo schermo che emana radiazioni che si diffondono attraverso la vasta provincia americana. Quello che rimane in mano, o in mente, è la sensazione di qualcosa di sinistro.
Una delle migliori definizioni di cosa possa voler dire l’aggettivo lynchiano l’ha data David Foster Wallace, invitato sul set di Strade Perdute per un reportage giornalistico dal titolo “David Lynch non perde la testa”, in Tennis, tv, trigonometria, tornado (e altre cose divertenti che non farò mai più), Minimum Fax, 1999. Lynchiano, dice Wallace, è quel momento in cui una persona mantiene una certa espressione un po’ troppo a lungo, più a lungo di quanto il contesto o la situazione richiederebbero. E se ci pensiamo è proprio così, Lynch tiene a volte le cose in sospeso troppo a lungo, al punto che quello che sembra assolutamente normale, evidente o naturale, inizia a sfasarsi, a desintonizzarsi, a smagnetizzarsi, a farsi decisamente strano. Cosa c’è, in fondo, di più lynchiano del film meno lynchiano di Lynch, quello in cui un vecchio campagnolo inizia a viaggiare su una falciatrice a motore per recarsi dal fratello che sta morendo? Un road movie al rallentatore.
Ognuno ha le sue scene preferite all’interno del corpus cinematografico di Lynch. Ad esempio, quella in Strade perdute dove appare il grottesco mystery man con la faccia imbiancata e senza sopracciglia, o il momento in cui Twin Peaks parte per la tangente e l’agente Cooper inizia a condurre la sua indagine con metodi Zen lanciando dei sassi. Accanto a queste c’è il momento, in Mulholland Drive, in cui una specie di mafioso interpretato da Angelo Badalamenti vuole imporre una sua attrice al regista (che è uno dei personaggi principali del film). Badalamenti inizia a ripetere in modo ossessivo la frase “questa è la ragazza”, e a un certo punto chiede un caffè. Si capisce dalla scena che molto dipende dal gusto e dalla bontà del caffè in arrivo. Molte cose dipendono da quel fottuto caffè, altre volte infatti Badalamenti non è stato soddisfatto della bevanda. Ed ecco che allora, prima di assaggiare il caffè, il mafioso chiede un tovagliolo, ma lo chiede con un tono e un volume impercettibili, una richiesta che il corpulento cameriere all’inizio non coglie, e che poi invece recepisce ed esegue. Badalamenti riceve il caffè, porta la tazzina alle labbra, tenendo goffamente con l’altra mano il tovagliolo sotto alla tazza a proteggere il tavolo da un eventuale spandimento della bevanda. Assaggia e subito dopo sputa, anzi, lascia cadere il caffè dalle labbra come se lo schifo fosse tale da non avere nemmeno la forza di sputare: il caffè gli cola dalla bocca, finisce in una lunga striscia sul tovagliolo e tutti iniziano a tremare come se da quel responso dipendesse la tenuta della realtà, il frame che inquadra il mondo dandogli una parvenza di senso. In quel grottesco sbavare e sputacchiare caffè, il mafioso dice che la bevanda “è una merda”, e poi continua a ripetere “questa è la ragazza” e che non ci potrà essere altra scelta. È proprio questa ripetizione ossessiva a generare l’effetto comico e insieme angosciante che contraddistingue i film di Lynch, questo momento di terrore assoluto e infantile in cui sai che dietro l’angolo, dietro la superficie consequenziale delle cose, c’è qualcosa di mostruoso che non puoi fare a meno di guardare, anche se sai che ne sarai terrorizzato forse per sempre. Ecco, questo è Lynch.
La sensazione analoga alla posizione impossibile di chi osserva una situazione contemporaneamente da dentro e da fuori, questo è forse il tratto del sogno, l’immagine onirica precisa, di questo tipo di cinema. Nella biografia a due voci che Lynch ha scritto con Kristine McKenna, Lo spazio dei sogni (D. Lynch e K. McKenna, Mondadori, 2018), il direttore della fotografia Peter Deming parlando di Mulholland Drive ricorda che “C’è una scena in cui [il personaggio di] Rita pronuncia le parole Mulholland Drive per la prima volta, e David mi disse che anche se la scena era ambientata in un interno, dovevamo avere la sensazione che una nuvola oscurasse il sole”. Oppure, parlando di Strade perdute, è il regista stesso a ricordare il momento in cui raccontò allo sceneggiatore Barry Gifford una delle idee che hanno dato vita al film: “ [pensa] di trovarti a una festa e conoscere una persona che ti dice di essere a casa tua nello stesso momento in cui ti parla”. La dislocazione spaziale e temporale, il fatto di essere contemporaneamente in due luoghi o in due momenti diversi, è un altra forma del perturbante, dotata di un effetto del tutto simile a quel tenere per un attimo di troppo la posa di cui abbiamo già parlato. Se stai fermo abbastanza a lungo potresti arrivare ad abitare due tempi rimanendo immobile in te stesso. E forse questo è uno dei modi per pensare all’improbabile compresenza in Lynch dell’esploratore dell’incubo e del promotore della Meditazione Trascendentale: sono entrambi esercizi in cui l’attenzione si mantiene, e si prolunga, fino al punto di dissolversi.
L’apparizione dell’uomo nero, la maschera di gomma che sembra l’altro lato della realtà, la parola che a forza di ripetersi diventa portatrice di un senso sinistro, la sospensione che protrae un’espressione o una situazione più a lungo del dovuto, il caffè che cola dalla bocca del mafioso, la battuta che tutti conoscono e che ti riguarda, che intuisci ma non capisci: tutto questo ha a che fare con l’inquietante e sinistro album di fotografie che scorre nella nostra mente fino alla scena finale, quella in cui anche David Lynch si dissolve nell’aria e passa dall’altra parte. L’unica cosa che sappiamo è che ora mancherà una guida per altri mondi. Forse ride, forse si fuma una sigaretta American Spirit o recita le previsioni del tempo, o ha un apparecchio acustico e parla a voce altissima, oppure sta da qualche parte in quel grande album di immagini in loop a cielo aperto che è il XX secolo: fotografato da un’esplosione atomica, è quello lì, se guardate bene lo vedete, è accanto a Kafka, poco distante da Buddy Holly, è David, il James Stewart da Marte, vicino a Elvis che canta “Love Me” doppiato da Sailor con una giacca di pelle di serpente. Ma la voce di Elvis diventa quella di un crooner non lontano da Dennis Hopper che inala gas da un respiratore, un’altra voce, stavolta femminile, canta in spagnolo e rimane a fluttuare in un playback infinito, il tutto mentre una ragazza sviene sul palco del Club Silencio, come folgorata, e un’altra è avvolta in un telo di plastica. Tutto tenuto troppo a lungo, al punto che un ceppo o una strada di notte, una stanza dal pavimento decorato da improbabili strisce angolate, due picchi gemelli e un orecchio tagliato iniziano a entrare in un nuovo stato della realtà mentre, com’è ovvio ed evidente, i gufi non sono mai quello che sembrano.