“I mercati bocciano l’ipotesi di governo M5S-Lega”, “Lo spread sfonda i 300 punti”, “l’incertezza spaventa gli investitori”, “Moody’s pensa di tagliare il rating dell’Italia”. Ci risiamo: l’economia (che non è mai ‘neutrale’ ma sempre, ricordiamolo, economia politica) si erge al di sopra della politica propriamente detta, degli equilibri parlamentari, delle possibili alleanze di governo. Lo fa attraverso la massima carica dello Stato, la Presidenza della Repubblica, seguendo una prassi consentita dalle sue prerogative – motivo per il quale, sia detto per inciso, chiedere l’impeachment sarebbe stato a dir poco inutile.
Chiariamolo subito, a scanso d’equivoci: a me le idee di Salvini fanno ribrezzo, e non voglio nemmeno immaginare le oscenità che da ministro dell’Interno potrebbe partorire. Detto ciò, non possiamo fare finta di nulla dinanzi all’ennesima ingerenza dei mercati nell’agorà della politica.
Le parole del commissario europeo Gunther Öttinger le abbiamo sentite tutti: “I mercati insegneranno agli italiani a non votare per i populisti alle prossime elezioni”. Una sintesi di una dichiarazione più articolata, che non cambia però di molto nella sostanza: “La mia preoccupazione e quello che mi aspetto è che nelle prossime settimane assisteremo a un andamento tale dei mercati, dei titoli e dell’economia italiana da poter diventare un segnale per gli elettori affinché non si votino i populisti di destra o sinistra”.
Per comprendere come si debba votare, dovremmo perciò affidarci agli indici del mercato. Che in tal modo diventa, per dirla con Michel Foucault, il luogo di veridizione della politica. Una verifica – quella esercitata dai mercati – che si produce costantemente, un controllo che non ha requie, e che permette di calcolare – istantaneamente – la “bontà” delle misure politiche adottate. Riduciamo la spesa pubblica, secondo i dettami dell’austerity? I mercati ci premieranno, la scelta si sarà rivelata perciò quella giusta. Vogliamo, al contrario, venire incontro alle richieste di aiuto da parte di una popolazione sempre più colpita dalla povertà? Niente da fare, bisogna rispettare i vincoli di bilancio, qualsiasi sforamento verrà valutato negativamente, oltre che in sede europea, dai mercati.
Lo abbiamo scoperto con la Grecia, solo tre anni fa. Ricordate il referendum con il quale si chiedeva un parere sul piano proposto dalla troika (Commissione europea, BCE ed FMI) in cambio di un nuovo programma di supporto finanziario? Allora il “no” votato dal 61% degli elettori greci era stato ribaltato – proprio a Bruxelles – in un “sì”. Via il ministro dell’Economia Varoufakis, benvenute le tanto impopolari misure di austerità, quelle stesse a cui i cittadini greci erano contrari, e che avevano cercato di contrastare eleggendo una forza politica “populista” (in quel caso di sinistra: Syriza). Il Presidente del Consiglio Tsipras era stato costretto ad accettare, togliendosi teatralmente la giacca (“volete anche questa?”) e gettandola sul tavolo delle trattative. Venivano meno le ragioni della politica, sottomesse ai diktat dell’economia e del debito. Votare, in fondo, per il popolo greco non era servito a nulla: il coltello restava nelle mani dei creditori, il cui segnale era stato inviato forte e chiaro agli altri paesi (Irlanda, Portogallo, Spagna, Italia) che avrebbero potuto avanzare analoghe pretese.
A distanza di tre estati, la situazione si ripropone per certi versi analoga: Savona non era un nome accettabile prima di tutto dai mercati e per ragioni – così è stato detto – economiche. A sottolinearlo ci ha pensato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “L’incertezza sulla nostra posizione nell’euro ha posto in allarme gli investitori e i risparmiatori, italiani e stranieri, che hanno investito nei nostri titoli di Stato e nelle nostre aziende. L’impennata dello spread, giorno dopo giorno, aumenta il nostro debito pubblico e riduce le possibilità di spesa dello Stato per nuovi interventi sociali. Le perdite in borsa, giorno dopo giorno, bruciano risorse e risparmi delle nostre aziende e di chi vi ha investito. E configurano rischi concreti per i risparmi dei nostri concittadini e per le famiglie italiane”.
Si è detto che il nome di Savona non era ricevibile perché favorevole all’uscita dell’Italia dalla moneta unica. Ma l’elemento inaccettabile per l’establishment europeo – tanto ora, quanto con Varoufakis – era non tanto l’uscita del paese dall’eurozona (il “piano B”), quanto la rinegoziazione delle regole di appartenenza, per tentare di modificare gli equilibri di potere interni, nettamente sbilanciati a vantaggio dei “creditori”. Una richiesta in fondo legittima, nel momento in cui si sia in un sistema democratico.
E così arriviamo alla questione di fondo: siamo ancora (ammesso che lo siamo mai stati) in democrazia? Se a dettare la linea politica sono i fantomatici mercati – in cui gli economisti ricoprono il ruolo dei sacerdoti, unici in grado di intercedere verso un oscuro quanto capriccioso dio e di interpretarne gli oracoli –, e se la politica sembra non avere i mezzi e la possibilità per contrastarne la volontà, la risposta ce l’abbiamo già.
Se l’esercizio del voto si rivela nient’altro che un rituale ipocrita, sarà altrove che dovremo cercare vie di fuga: nonostante quel che “pensano” i mercati, c’è tutto un mondo là fuori, che sfugge loro. Un mondo fatto di condivisione, di sperpero, di gioia immotivata, estraneo al calcolo e alla razionalità. Un mondo che si ricorda ancora cosa sia il dono – qualcosa senza ragione, in grado di interrompere il circuito dell’economia, dello scambio. Qualcosa – in ultimo – impossibile da acquistare: il proprio tempo, e quindi se stessi, in un gesto completamente inaspettato. Qualcosa che non possa nemmeno essere percepito come dono: “quell’istante di follia che lacera il tempo e interrompe ogni calcolo” (Jacques Derrida, Donare il tempo).
Questo mondo – da cui, chissà, potrà nascere un’altra democrazia? – c’è già, se pur nascosto in un interstizio. Un mondo che, a volerlo raccontare a parole, si scolora già.