di Pierangelo Di Vittorio
Il nuovo libro di Pierangelo Di Vittorio, “Ragione funambolica. Sull’utilità del pensiero per la vita”, è appena uscito per Mimesis (che ringraziamo per averci concesso questa corposa “anteprima”). Un lavoro che cresce su se stesso, per “assemblaggi” e “analogie”, e in cui l’autore – a partire dai più vari input culturali (dalla questione tecnologica a quella pandemica, dalla biopolitica al “capitalismo dei disastri”, dal tradimento della rivoluzione basagliana al rapporto mainstream/underground, dal surrealismo ai film di Werner Herzog) – si assume la sfida di confrontarsi con un’attualità che si fa ogni giorno più “abissale”, con un presente sempre più “vertiginoso”. Un presente e un’attualità in cui pure non possiamo rinunciare – come il funambolo Petit – a trovare il nostro equilibrio e le nostre personalissime “vie di fuga”. Gli estratti sono sono stati selezionati a partire dal capitolo “Detective del desiderio”. Ndr.
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L’illusoria padronanza digitale: ultimo atto del “capitalismo dei disastri”
La nostra esistenza è ormai strettamente interconnessa con e attraverso il medium informatico-digitale, e ciò crea un regime di dipendenza – la punta più avanzata e avvolgente della dipendenza dalle macchinazioni industriali di ogni tipo – al quale non facciamo caso, solo perché un blackout tecnologico non è all’ordine del giorno, e anzi viviamo sempre nell’attesa, che è anche una costante ingiunzione, di nuovi sviluppi tecnologici che rendano il sistema ancora più potente e performante. Ma immaginiamo che, per una ragione o per un’altra, la connessione smetta di funzionare, che s’inceppi la fonte che filtra tutto, rendendo accessibile e disponibile tutto, e cioè che i nostri computer e i nostri smartphone si “spengano” davvero, per giorni o per mesi: le conseguenze sarebbero incalcolabili, pari alla smisurata potenza del sistema in cui siamo inglobati. Se l’inceppamento dovesse durare a lungo, saremmo costretti ad aggrapparci al mondo di una volta, e forse non lo troveremmo più, avendolo nel frattempo dismesso o distrutto. È chiaro comunque che smetteremmo di esistere, ovvero che dovremmo imparare a esistere in modo radicalmente diverso: interi pezzi di esistenza, o forse la sua invisibile ossatura, scomparirebbero, come in un incubo, e ci sarebbe molto da costruire o da ricostruire.
Internet si può già “spegnere” per tante ragioni: catastrofi naturali, decisioni governative, problemi tecnici, danneggiamento delle linee subacquee, attacchi hackers. Nel 1999, si diffuse il panico per il cosiddetto millennium bug, un difetto informatico legato al cambio di data, problema che secondo alcuni potrebbe ripresentarsi in un prossimo futuro, provocando danni di gran lunga maggiori. In ogni caso, il crash informatico o di internet è entrato nell’immaginario come uno dei possibili scenari apocalittici che dominano il nostro futuro. Durante la pandemia, siamo stati confrontati con la più elementare realtà biologica – rimossa dall’orizzonte della nostra forma di vita, sempre più invaghita della sua padronanza tecnologica, e dalle nostre preoccupazioni epidemiologiche, da tempo legate soprattutto alle conseguenze dei cosiddetti “stili di vita” (malattie cardiovascolari e cronico-degenerative) – obbligando l’umanità a rimettere frettolosamente indietro le lancette dell’orologio. Un virus ha mandato in tilt le nostre pretese di “controllo” sul sistema-mondo, con tutta una serie di ripercussioni, anche sulla nostra vita personale e sociale: privazione della libertà, confinamento, isolamento ecc. Tuttavia, mai come durante la pandemia ci siamo aggrappati alle nostre dotazioni tecnologiche, scoprendo che era possibile sopperire alla mancanza di molte attività sociali, ovvero continuare a esercitarle in modo diverso. Grazie al nostro computer e al nostro smartphone abbiamo potuto lavorare e frequentare la scuola o l’università; assistere a concerti, presentazioni, conferenze; partecipare a seminari, incontri, riunioni; organizzare videochiamate con familiari e amici, con i quali magari non avevamo l’abitudine di vederci su internet, quasi per un tacito rispetto della distanza fisica che ci separava da loro. Abbiamo spostato ancora un po’ più in là i limiti del possibile. Chi, almeno una volta, non si è sentito trascinato dalla potenza del medium informatico-digitale? Chi non ha provato un sottile senso di euforia, assaporando il piacere di ritrovarsi in una “scena” sociale, con la consapevolezza che, probabilmente, senza la pandemia, non avrebbe mai avuto luogo? Non solo la pandemia non ha bloccato la produzione mediatico-digitale della realtà, ma la ha incrementata in modo iperbolico. Dinanzi alla realtà biologica del virus, ci siamo aggrappati con estrema “naturalezza” alla zattera dei computer e degli smartphone. Un gesto spontaneo, così ovvio da non farci accorgere che, con il nostro attivo contributo, la realtà della pandemia stava entrando nel frullatore, trasformandosi nel più grande evento mediatico della storia. La crisi biologica ha segnato anche il “trionfo” del sistema che abbiamo cercato di descrivere, ossia il momento culminante nella storia della tecnologia biomediatica, diventata “esplosiva” grazie al medium digitale. Tutti, in tutto il mondo, abbiamo contribuito alla smisurata messa in scena della crisi pandemica. Oltre al flusso infinito di informazioni prodotte dalle varie agenzie (politiche, scientifiche, giornalistiche ecc.), basti pensare all’immane produzione di selfie con il virus (inarrivabili le immagini del papa in piazza San Pietro deserta, degne di un thriller apocalittico alla Dan Brown), al profluvio di diari intimi durante il lockdown, a tutti gli spettacolini domestici firmati con in vari hashtag #iorestoacasa, #celafaremo, e poi alle continue valanghe di fake news, video, meme e altri contenuti “divertenti” che hanno invaso i social network, saturato le chat di whatsapp, e insomma prodotto l’apoteosi della finzione mediatico-digitale della realtà. E questo vuol dire che la zattera che abbiamo trovato pronta, e che avrebbe dovuto salvarci dalla crisi, era anche la punta più avanzata di una catastrofe culturale e antropologica che veniva da più lontano. Mai come durante la pandemia si è manifestata la nostra incapacità di costruire zattere. Mai è stato più palese il disinteresse, l’assenza della stessa pulsione a costruire concreti dispositivi di salvataggio, cioè “piani” che consentissero di rapportarci in modo pensante e autonomo alla realtà che stavamo vivendo. Mentre la pandemia inceppava dolorosamente la nostra vita, abbiamo giocato più che mai a fare i cowboy. Abbiamo surfato sulla realtà, senza accorgerci che le nostre tv, i nostri computer e i nostri smartphone, i quali avrebbero dovuto traghettarci sull’altra riva, ci stavano facendo andare alla deriva nel nostro oceano mediatico-esistenziale; ci stavano facendo inabissare nel punto cieco della nostra padronanza del mondo. Forse non siamo mai stati così in balia degli eventi, avendo la sensazione di tenere le redini della situazione. […] Sin dall’inizio e durante tutta la pandemia, ciò che è sempre stato posto in prim’ordine per la costruzione del mondo futuro, è stata proprio la digitalizzazione. E infatti, quando si è trattato di stabilire a cosa dovessero essere destinati i fondi per la “ripresa”, ai primi posti delle agende nazionali e internazionali, insieme alla green economy c’è stata sempre la digitalizzazione (l’innovazione tecnologica). Non l’ambiente, non la sanità, non il welfare, non l’educazione o la cultura, ma la digitalizzazione, il che significa: “più” digitalizzazione. Il nostro futuro salvifico sembra delinearsi come un’escalation dell’industrializzazione digitale della nostra vita, il che significa un aumento vertiginoso della nostra dipendenza da ipercontrollo. Ebbene, riteniamo che tutto ciò sia una risposta razionale ed efficace alla crisi che abbiamo vissuto e che viviamo? Sembra piuttosto un delirio mistico di salvezza. Una follia che passa inosservata, quasi fosse una semplice evidenza, ma che potrebbe avere anche qualche spiegazione. In Shock economy, l’ascesa del capitalismo dei disastri, Naomi Klein ha mostrato come l’uragano Katrina, abbattutosi nel 2005 a New Orleans, sia servito tra l’altro ad abbandonare le politiche pubbliche in materia di edilizia popolare e istruzione, a favore di politiche di stampo neoliberista (privatizzazioni, tagli alla spesa pubblica ecc.). Facendo tabula rasa di ciò che restava del vecchio mondo, ancora intriso di welfare, la catastrofe è servita a impiantare in modo più ampio e profondo il nuovo sistema. La pandemia, consentendo d’impiantare in modo più ampio e profondo la digitalizzazione nella nostra forma di vita, potrebbe essere l’ultimo capitolo di questo capitalismo dei disastri.
Assemblaggi surrealisti, il demone dell’analogia e le “corrispondenze” baudelairiane: un altro modo di fare storia e “rovistare” tra gli archivi
Il surrealismo si considera come un “mezzo di conoscenza”, e si sviluppa in stretta connessione con le scoperte scientifiche dell’epoca (Einstein, Heisenberg, Freud). La ricerca ha al tempo stesso una tensione politica: muovendosi tra le rovine lasciate dalla guerra, i surrealisti si pongono il problema di come sia possibile ricostruire il legame sociale e a quali condizioni. La catastrofe ha trasformato l’uomo stesso in un punto interrogativo, per questo ci si divide e talvolta si litiga. Come intendere l’erotismo e la rivoluzione? Cioè come pensare “alla radice” l’esperienza umana, considerata nel suo inestricabile intreccio fra una dimensione “soggettiva” e una dimensione “collettiva”? Questi sono i nodi cruciali della polemica tra Breton e Bataille, e le loro inconciliabili posizioni – surrealismo vs basso materialismo – rappresentano modi diversi di rispondere alla sfida “antropologica”, lasciata sul campo dal cataclisma della Prima guerra mondiale mentre in Europa monta una marea nera (Mussolini è al potere dal 1922, Hitler vi giungerà nel 1933 e la guerra civile in Spagna scoppierà nel 1936). Il fascismo non è forse ciò che pone il problema antropologico, di certo è ciò che lo rende più urgente e incandescente: imponendo la sua ricetta totalitaria tende, infatti, a chiudere ogni spazio di interrogazione, di riflessione e di discussione. Più in generale, il Novecento può essere considerato come la scena nella quale la “questione antropologica” è stata sistematicamente confiscata, mentre era tradotta in un progetto prometeico di costruzione dell’uomo nuovo: prima con i totalitarismi, e poi con il neoliberalismo, la cui novità storica è forse di essere riuscito a compiere la trasformazione antropologica fallita dai totalitarismi storici.
La ricerca surrealista ha una vocazione conoscitiva e, interrogandosi sull’uomo, indaga le condizioni che possono rendere di nuovo possibile un legame sociale. Si muove sulle incerte frontiere tra la realtà e il sogno, la ragione e la follia, e nel fare questo continua a sporgersi sull’abisso traumatico da cui la stessa ricerca ha preso le mosse. Soggiorna nei pressi del sublime, indugia sui margini del bosco inviolabile delle Eumenidi, lo spazio che non permette nessuno sguardo, nessuna voce, nessuna parola, come dice il coro in Edipo a Colono. Il sublime è ciò che Davoine e Gaudillière, sulla scorta di Lacan, chiamano il Reale, e che può essere enunciato solo in modo negativo, come “impossibile”: ciò che non può essere né figurato né nominato, ciò che “non cessa di non essere scritto”. Perciò il sublime, come sostengono Davoine e Gaudillière, può riemergere solo nella “sur-realtà”, ossia in una dimensione che, “al di fuori del campo della parola, e al di là dello specchio, impone la presenza di catastrofi non iscritte”. In tal senso, il surrealismo può essere considerato come la testimonianza storica, da un lato che il sublime non si può teorizzare, ma solo esperire e sperimentare; dall’altro che, per costruire un legame sociale, non basta fare leva sulla logica degli interessi, su tutte le forme “razionali” di contratto sociale, ma è necessario raccogliersi attorno agli abissi traumatici che costellano la memoria e la storia collettive, affacciarsi sui “crateri” dell’umano tenendosi la mano, esporsi insieme all’“inutile” sovranità del sublime. Per tutte queste ragioni, la ricerca surrealista non poteva che assumere un aspetto sperimentale e performativo, e per questo, alla fine, visto da lontano, il surrealismo appare come un movimento “artistico”.
Davoine e Gaudillière riportano le parole di Auguste, pronunciate durante una delle prime sedute della sua analisi: “Sono un dissidente del mondo occidentale. Il mio delirio è apparso all’incrocio fra la grande Storia dell’ultima guerra e la piccola storia della mia famiglia. Sono portatore di un samizdat, un messaggio clandestino che io stesso ignoro. La mia missione è farlo arrivare a destinazione, al rischio della mia vita. Da un ponte sulla Senna, ho gettato in acqua tutti i miei abiti e i miei documenti, perché non riconoscano la mia identità”. Questa sorta di “teoria della follia”, nella quale riecheggia il voto di povertà alla base del sapere di spiritualità faustiano, potrebbe essere licenziata come l’espressione dello stesso delirio di chi la enuncia. Invece Davoine e Gaudillière ne hanno fatto la direttrice della loro riflessione e del loro lavoro clinico. La follia svolge una specie di “servizio pubblico”: recapita messaggi che non hanno potuto essere trasmessi; risalendo genealogicamente la corrente del tempo, svolge un’inchiesta, ai limiti del possibile, per far affiorare il trauma che ha fatto esplodere il legame sociale. La follia è essa stessa una ricerca di verità – la verità che, facendo tutt’uno con l’orrore, non ha potuto essere trasmessa –, e un tentativo di ricostruzione del legame sociale lacerato, disperso e perduto. Non solo questo servizio sociale non è riconosciuto, ma spesso chi, suo malgrado, lo offre, paga il prezzo della marginalità e dell’esclusione.
Capiamo perché qui il riferimento al surrealismo non sia per nulla aneddotico. Dopo le catastrofi, si produce un fenomeno di “anestesia” che inibisce la trasmissione dei traumatismi, e che può durare per intere generazioni. Un velo di insensibilità avvolge tutto quello che può ricordare la catastrofe, mentre regna una “pseudo-normalità”. “Solo un membro della famiglia – scrivono Davoine e Gaudillière – si ostina a mostrare che qualcosa non va: storie di legami sociali distrutti, la cui espressione è minacciata di estinzione”. L’essenza del lavoro clinico consisterà nel far sì che tale espressione sopravviva e riesca in qualche modo a manifestarsi. Per fare questo, l’analista deve compiere un gesto inaspettato: non tanto mettersi all’ascolto, creando le condizioni affinché il messaggio clandestino – indicibile e censurato nel susseguirsi delle generazioni – trovi finalmente, e nonostante tutto, la possibilità di esprimersi; quanto piuttosto, attraverso il lavoro del transfert, entrare direttamente in gioco, sentirsi “personalmente” implicato. L’analista dovrà cercare cioè di raggiungere la persona folle sul bordo del suo cratere traumatico, e proprio da qui, condividendo l’esperienza vertiginosa dell’abisso, provare a instaurare un certo legame sociale.
[…]
Immaginiamo una catastrofe che, oltre a mettere il mondo sottosopra, avrebbe determinato un crash tecnologico globale e irreversibile. Questa è la premessa di un’esperienza partecipativa, intitolata Bazar elettrico in Action, che il collettivo Action30 ha realizzato a Bari nel 2017, in collaborazione con gli studenti del liceo artistico e gli ospiti minori e adulti del Progetto Sprar (Sistema protezione richiedenti asilo e rifugiati). Al progetto hanno partecipato centinaia di persone di ogni età e provenienza. Un breve testo consentiva ai partecipanti d’immergersi nella situazione post-apocalittica, indicando loro le sfide da affrontare: “C’è stata una catastrofe. Una ragazza e un ragazzo vivono lontani l’una dall’altro. La catastrofe ha prodotto un blackout tecnologico e per farli incontrare disponiamo solo di un caotico ammasso di oggetti: i frammenti delle loro vite. Come la scarpina di Cenerentola, gli oggetti sono al tempo stesso il segno dell’amore perduto e la mappa che può farli incontrare. Immaginando le connessioni – magiche o reali – tra questi oggetti, il bazar si trasforma, si elettrizza, s’illumina. Diventa la cartografia degli incontri possibili. E il mondo ricomincia a balbettare come un bambino che scandisce il suo abicì”.
A incorniciare tale testo c’era scritto, in testa: “Per incontrarsi bisogna reinventare il mondo”, mentre in coda c’era quest’altra frase: “Far suonare la scarpina attraverso il buon piedino”. Il riferimento era ovviamente al personaggio di Cenerentola, evocato nel testo: il gioco invitava a considerare tutte le cose, sparse nello spazio dell’istallazione, alla stregua della famosa scarpetta, ossia come dispositivi analogici dotati di un certo potenziale sia cognitivo sia relazionale. Quando, a mezzanotte, Cenerentola deve abbandonare frettolosamente il palazzo dove il re ha organizzato un ballo affinché l’erede al trono possa scegliere la sua futura sposa, perde una delle sue scarpe di cristallo. Il principe, incantato dalla sconosciuta con cui ha danzato tutta la sera, proclama che sposerà la ragazza cui la scarpetta avrebbe calzato “a pennello”. La scarpetta perduta si presenta così come un oggetto potente, “magico”, e carico di ambivalenza: è la muta testimonianza della perdita e dell’assenza, ma è anche la molla pulsionale che muove la ricerca desiderante; è ciò che rinchiude nel cerchio malinconico della separazione e della lontananza, ma è anche l’anello di fidanzamento che racchiude la gioiosa promessa di una relazione amorosa. La frase scandita nelle premesse di Bazar elettrico restava tuttavia un po’ enigmatica: come immaginare una scarpetta che “suona” attraverso il suo piedino? Il passaggio logico – il paragone fra il potenziale analogico degli oggetti e il dispositivo analogico di riproduzione musicale – restava implicito, lasciando fluttuare il senso della frase. Il riferimento alla scarpetta di Cenerentola ha però una storia, che ci permette di tornare al surrealismo, in particolare a quelle macchine di ricerca che sono Nadja e L’amour fou di Breton. Tali macchine si presentano come degli esperimenti di detection: “giochi d’inchiesta”, basati sull’individuazione e l’intensificazione di una serie di “corrispondenze”, e condotti all’interno di una dimensione “sur-reale”, cioè alle frontiere fra la realtà e il sogno, la coscienza e l’inconscio, la razionalità e la follia. I testi di Breton potrebbero essere visti come dei reportage di caccia, con il surre- alista nelle vesti del detective che si muove instancabilmente sulle tracce della sua preda. Solo che, in questo caso, l’investigatore è un detective del desiderio, e la preda non esiste, essendo piuttosto la casella vuota di un “possibile”: la possibilità inaudita di una relazione amorosa, verso cui l’inchiesta si muove, costruendone le condizioni, e che si manifesterà eventualmente come il risultato, come l’effetto della ricerca stessa. Se vogliamo, è una ricerca di Cenerentola senza Cenerentola, cioè “prima” che Cenerentola esista, e dove sarà la ricerca stessa a farla apparire, a renderla presente.
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Questo gioco d’inchiesta, mirante a produrre un’eterocronia, fa eco a quell’uso “critico” della storia che il Nietzsche della “Seconda inattuale” (Sull’utilità e il danno della storia per la vita), oppone sia all’uso “monumentale” sia a quello “antiquario”: “Non saprei che senso avrebbe mai la filologia classica nel nostro tempo, se non quello di agire in esso in modo inattuale ossia contro il tempo, e in tal modo sul tempo e, speriamolo, a favore di un tempo venturo”. Quest’uso critico della storia fa in fondo tutt’uno con l’inattualità stessa, il cui “schema” Nietzsche potrebbe aver mutuato da Schiller. Nelle Lettere sull’educazione estetica dell’umanità (1795), quest’ultimo scrive:
L’artista è sì il figlio del suo tempo, ma guai a lui se ne è insieme l’allievo o addirittura il favorito. Strappi tempestivamente una divinità benigna il poppante dal seno di sua madre, lo nutra col latte di un’età migliore e, sotto il lontano cielo greco, lo faccia maturare sino alla maggiore età. Diventato uomo, egli ritorni, in vesti straniere, nel suo secolo; però non per farlo gioire della sua comparsa, bensì, terribile come il figlio di Agamennone, per purificarlo
[…]
Il demone dell’analogia è il titolo di un poema in prosa, consegnato nel 1874 da Mallarmé alla “Revue du Monde nouveau” (citato anche nel romanzo Bruges la morta di Georges Rodenbach):
Parole sconosciute cantarono mai sulle vostre labbra brandelli maledetti di una frase assurda? Uscii dal mio appartamento con la sensazione precisa di un’ala che, indugiante e leggera, scivolasse sulle corde di uno strumento, sostituita poi da una voce che pronunciava le parole su un tono discendente: La Penultima è morta
L’immagine dell’ala che scivola sulle corde di uno strumento, ripresa nella frase successiva – “Feci alcuni passi nella strada e riconobbi nel suono nul la corda tesa dello strumento musicale, che era dimenticato e che il glorioso Ricordo certamente aveva appena visitato con la sua ala…” – richiama la lira del frammento di Eraclito, quasi che il pensiero analogico, quando riflette performativamente su se stesso, trovasse sempre l’occasione per pizzicare una corda, per far suonare qualche violino. Inoltre, a proposito delle “corrispondenze” che Breton evoca a più riprese nei suoi testi, qualche anno prima Baudelaire, nella poesia contenuta nei Fiori del male e intitolata Corrispondenze, aveva scritto:
È un tempio la Natura ove viventi pilastri / a volte confuse parole lasciano uscire; / la attraversa l’uomo tra foreste di simboli / che l’osservano con occhi familiari. / Come lunghi echi che da lontano si confondono / in una tenebrosa e profonda unità, / vasta come la notte e il chiarore, / i profumi, i colori e i suoni si rispondono
Il pensiero analogico, e la riflessione su di esso, tra filosofia e letteratura, ha dunque una lunga storia, al termine della quale troviamo la puntina del giradischi surrealista: i detective del desiderio intensificano il pensiero analogico, fino a reiventare la musica del mondo, sui bordi della catastrofe, costruendo nuove mappe sinaptiche grazie alle quali diventa di nuovo possibile incontrarsi.
L’esperimento di “Bazar elettrico in Action”
In generale, le sperimentazioni di Action30 [il collettivo autore del saggio grafico Bazar elettrico. Warburg, Bataille, Benjamin at Work] si presentano come una corda tesa fra i problemi del presente e gli archivi culturali. Fissare questi due poli della traversata funambolica significa prendersene cura, intensificando il rapporto con ciascuno di essi: il rapporto con il presente assume l’aspetto di una vigilanza diagnostica, il rapporto con il passato quello di una cura filologica. Esasperando tale polarità appare una corda: un determinato concatenamento analogico, capace di far entrare in risonanza i problemi del presente con gli archivi culturali, come un archetto che fa vibrare le corde di un violino, o come una miccia che, innescando i materiali esplosivi contenuti nel passato, sprigiona una forza di contestazione rispetto alle pretese evidenze che irretiscono il presente. Al massimo della tensione fra diagnostica e filologia, si produce la curvatura di una finzione (o di un gioco-finzione), nello stesso senso in cui Foucault chiama “finzioni” le sue traversate genealogiche. Attraverso questa curvatura, insieme critica e creativa, il processo sfocia nella dimensione eterogenea del possibile. Le sperimentazioni di Action30 si presentano come strani ibridi – saggi-grafici, performance-dibattito, saggi-spettacolo, ricerche-giochi – i quali non sono che la riconfigurazione delle polarità di partenza (i problemi del presente e gli archivi del passato), attraverso il montaggio fra il piano della documentazione diagnostica e quello della documentazione filologica, e dove la “finzione” prova a connettere e a intrecciare questi due piani, senza dissolversi in essi né confonderli fra loro.
[…]
Bazar elettrico in Action è un esperimento sociale a carattere ludico, ispirato alle passeggiate dei surrealisti nei mercati delle pulci e basato sulla potenza analogica degli oggetti. L’esperimento ha l’aspetto di un gioco di percorso, dove ogni tappa è una prova da superare per avere accesso alla prova successiva, fino al risultato finale. In tal senso, il gioco è anche una caccia al tesoro: il volantino, distribuito all’ingresso e che funziona come una sorta di “libretto d’istruzioni”, è costruito appunto come una mappa del tesoro.
Il tunnel. I partecipanti abbandonano la realtà della loro vita quotidiana entrando in un tunnel dove sono schedati e fotografati, quasi ridotti alla condizione di oggetti. Gli incaricati consegnano loro dei guanti in lattice e delle copertine termiche, come quelle usate nelle situazioni di primo soccorso dopo un incidente o un naufragio.
Il totem. Il mondo è andato in pezzi. Tutto è sottosopra. Dinanzi a una montagna di rovine, i partecipanti leggono il tema del gioco guardandosi attorno. Poi si dirigono verso la seconda prova.
I giganti. Ora si trovano al cospetto dei protagonisti della storia. Presenti su due megaschermi speculari, un ragazzo e una ragazza eseguono le stesse azioni. Ridono, piangono, riflettono, forse sognano. Chi lo desidera può interagire con loro: spingendo i pulsanti collocati ai piedi degli schermi, i ragazzi passano dal riso al pianto ecc. In questo modo, le loro figure diventano più familiari, e i partecipanti possono cominciare a provare un po’ di empatia per le loro vite, per i loro destini. Prima della terza e decisiva prova.
La scelta. È il momento di reinventare il mondo. Gli addetti invitano i partecipanti a tornare sui loro passi e li aiutano a selezionare, tra gli ammassi di cose, due oggetti che secondo loro, come la scarpetta di Cenerentola, avrebbero il potere di far incontrare i due ragazzi. Con le cose selezionate i partecipanti – da soli, in coppia oppure raccolti in piccoli gruppi – si dirigono verso la tappa successiva.
Il tavolo delle meraviglie. Su una pedana di legno, adibita a tavolo da still life, gli oggetti selezionati sono fotografati. Le immagini, dopo essere state elaborate da un computer, sono stampate. Mentre aspettano le stampe, i partecipanti riflettono su quello che avranno voglia di scrivere, in calce alle foto dei loro oggetti: una spiegazione, un pensiero, un breve racconto, un semplice auspicio. Il loro messaggio nella bottiglia.
Il crazy wall. A differenza dei muri su cui i detective dei film polizieschi organizzano le loro inchieste, qui non si cerca il colpevole di un delitto, ma si esprime il desiderio di far incontrare i due ragazzi. Come i surrealisti, i partecipanti sono trasformati in detective del desiderio, e desiderante è l’energia che circola nel bazar elettrizzandolo. Centinaia di foto di coppie di oggetti, corredate dai testi dei partecipanti, si connettono fra loro andando a formare una straordinaria mappa degli incontri possibili. Il crazy wall funziona come uno straordinario intensificatore delle possibilità di legame sociale. La dimostrazione che un mondo diverso – più intenso, più ampio, più ricco – è possibile.