di Silva Bon
ne prendo una per non
sentirmi dio.
e un’altra per non sentirmi
una merda.
e un’altra ancora
per non aver paura di sentirmi una merda.
o forse per non aver paura
di sentirmi dio.
non lo so, non l’ho ancora capito…
(A. Fragomeni, Dettagli inutili, in “Collana 180”, Alfabeta Verlag Editore, 2016)
Per me è impossibile leggere razionalmente, “dal di fuori”, questo libro: sono “della psichiatria”, “nella psichiatria”, “psichiatrica” da troppi anni, proprio come Alberto Fragomeni. Penso che restare indifferenti di fronte alle parole gridate dall’autore, un giovane uomo di trentacinque anni, è una possibilità che riguarda solo gli ottusi. Fragomeni ha molto da dire alla società contemporanea, ai cosiddetti normodotati, come agli stessi psichiatri, agli psicologi, agli operatori dei Servizi di salute mentale.
Perché il libro è vero, lucido, graffiante, mai compiaciuto, mai sentimentale e parla una voce autentica, di chi ha vissuto, di chi ha sperimentato sulla propria pelle la sofferenza. La scrittura procede nitida, ironica, sorridente, addolorata e coglie aspetti, situazioni, vissuti, momenti di vita, processi intellettuali, personaggi, luoghi, spazi in tutta la loro luce esemplare: si potrebbe parlare di un tono agro-dolce, dolce-amaro, che investe tutto il testo, e che permette di parlare di situazioni al limite totalizzante anche a volte con distacco, con uno sguardo irriverente, scherzoso, giocoso, proprio di una persona trentenne, appartenente pienamente al contesto sociale e culturale attuale. Lo humour un po’ scanzonato, un po’ malinconico, investe soprattutto le prime due parti del libro.
Qui i capitoli sono infatti brevi paragrafi, titolati spesso in modo allusivo, come flash folgoranti che fotografano incalzanti condizioni diffuse negli ambienti psichiatrici, situazioni che sono sotto gli occhi di tutti, quasi dei “luoghi comuni”, ma che l’Autore “vede” con una chiarezza che diventa denuncia empatica.
Così, da questa denuncia empatica, emergono autentici momenti di autocompiacimento e di autostigmatizzazione da parte delle stesse persone in cura, la quali – accusa con dolore Alberto Fragomeni – credono di poter ritrovare la propria identità nella malattia, nella diagnosi, che li fa sentire importanti, li fa diventare qualcuno (“io sono borderline, e tu?” “schizoaffettiva.” “sei mai stata in spdc, servizio psichiatrico di diagnosi e cura?” “sì.” “e ti hanno legata?” “no.” “a me sì…”).
E ancora, l’altra diffusa problematicità di comportamento: la dipendenza dall’uso e abuso di caffè, di sigarette, certamente dipendenza veniale, non compromissoria come quella da farmaci, e che comunque aiuta a segnare il ritmo
dello spazio di tempo delle lunghe giornate (“il caffè e le sigarette rappresentano la ragione di vita del malato psichiatrico…”).
Molte persone sofferenti cadono vittime di facili speculatori o speculazioni, quando si appigliano a ogni via di salvezza fatta baluginare davanti a loro in una ricerca irrazionale e disperata di verità, o in bisogni di chiarezza e di risposte che, a volte, credono di poter trovare nei misticismi religiosi e/o nelle letture ingenue di ponderosi testi di filosofia, orientali e/o occidentali. Come appunto è successo anche ad Alberto Fragomeni, che pur non ne è stato travolto, ma ha trovato in queste esperienze tratti di sostanziali apporti positivi, in alcuni passaggi esistenziali particolarmente drammatici della sua vita. Perché, è importante dirlo, ogni persona trova la propria strada, si serve di mezzi, di media diversi, fa il proprio singolare e irripetibile percorso verso la guarigione e le cose che fanno star bene sono diverse per ciascuno di noi.
Dall’osservazione pungente di Alberto Fragomeni emergono tanti rivoli sotterranei di vite: come lui rende visibili gli invisibili delle città metropolitane, i sofferenti, gli emarginati, quando li descrive con partecipazione fraterna, così porta alla luce le dinamiche relazionali, più o meno facili, più o meno compatibili, tra persone che vivono nelle comunità terapeutiche, nei centri diurni, nei luoghi di lavoro protetto… Eppure, con ironia e un po’ di amarezza, Fragomeni commenta sarcastico anche il pregiudizio, visto dall’“esterno”, di sopravvalutazione, di ammirazione per la genialità, per le doti fuori dal comune, per le espressioni artistiche e creative, comunemente attribuite a chi sta “oltre le regole”, e che fa delle personalità eccezionali dei matti e viceversa.
La parte terza, conclusiva, è scritta da Alberto Fragomeni in forma narrativa più continuativa; è totalmente soggettiva, un coming out della propria storia che procede con l’analisi di quel
pensiero acuminato come un pugnale, che ben si accordava alla violenza della mia mente, impegnata a torturarmi all’infinito: non mi sono mai odiato tanto come in quel periodo, e più mi odiavo, più soffrivo, e più soffrivo, più mi odiavo.
È l’incessante lavorio della mente che a volte logora, a volte a distrugge… e questo lo può provare ogni essere umano che vive finché il cervello è in vita. L’invito ad assumere nella vita un “atteggiamento minimalista” è stato il consiglio dato dal medico di riferimento ad Alberto Fragomeni, nel momento in cui si avvia per lui una fase positiva di ripresa. Ma io credo, piuttosto, che gli si sia aperta la possibilità di riconoscersi nella scrittura, di essere uno scrittore…
La possibilità di essere “normale”? Una domanda ridicola e ingenua. Da vicino nessuno è normale, recita uno slogan-verità del pensiero basagliano. Se così fosse, allora, forse, potremmo perfino accettare di stare tutti nella barca dei folli, quella dipinta da Hieronimus Bosch.
La presente recensione è stata pubblicata in cartaceo sul numero 20 (dicembre 2016 – gennaio 2017) della rivista “Il Ponte rosso“.