di Riccardo Canciani
“Non bisogna prima odiarsi, se ci si vuole amare?”
Ditirambi di Dioniso, Friedrich Nietzsche.
Sgombriamo il campo da etimologie farlocche e bislacche tradizioni concettuali. Cestinata qualsiasi velleità morale, rifiutata qualunque analogia metafisica, vorrei proporre un discorso sulla perfezione che ne mostri l’aspetto funzionale. All’origine della nostra cultura, nella Grecia antica il concetto assume due principali sfumature: la prima riguarda gli oggetti concreti e ne designa la completezza, identificandoli come totalità non mancanti di nessuna parte. Si tratta di un concetto di perfezione estendibile anche e oggetti concreti ma “immateriali”, come un artefatto o un buon sistema di governo: il principio di questo tipo di perfezione è la coerenza dell’oggetto rispetto alla propria essenza. C’è poi un piano etico, come viene inquadrato dallo stoicismo, dove perfezione diventa sinonimo di armonia, di “vivere secondo Natura” rispettando il principio di autoconservazione. E’ il discorso che attraversa tutte le etiche sane della storia, quella del governo della proprie passioni (piaceri e dispiaceri) attraverso un atteggiamento di indifferenza, di lasciar correre senza reprime: questa è la conquista concettuale del filosofo, che vuole le idee come motore delle proprie azioni, una logica del buon senso rispetto ciò che va intrapreso e ciò che va evitato. Tuttavia credo che questo stato di beatitudine e distacco si definisca meglio attraverso termini di tutt’altro tenore, come rassegnazione e vincolo: un mettersela via riguardo molte questioni della vita. Se questo è senz’altro un obbligo per coloro che lavorano per il bene di una cultura e dello Stato, di certo non si può dire che questo atteggiamento etico meriti di assurgere a prescrizione generale per la vita dell’uomo. Con Eraclito allora chiudiamo piuttosto la questione in catastrofe: “chi cerca oro scava tanto ma trova poco”. Del resto era anche idea di Confucio che la maggior parte degli uomini non sapessero mantenersi “nell’asse che non vacilla” per più di un mese. Per questo metterò da parte intrusioni etiche. la perfezione come stato, come condizione di vita, non è quello che quello che ora ci interessa. Quel che ci interessa è “come divenire dei capolavori, nell’atto e nel gesto, non nell’azione?”. Non scadremo quindi nel parlare di scopi nobili, al contrario ci serviremo del gioco, dell’atto lieve, di quel colpo di dadi che mette sul piatto tutta una vita in un istante. Con lucido delirio voglio dire che la tendenza alla perfezione intesa in quest’altro senso non è una prerogativa umana, ma una tensione della Natura. Per convincerci di ciò dobbiamo prima cavarci gli occhi da catalogatori aristotelici, per arrivare finalmente a guardare a questa nostra esistenza come un fenomeno estetico.
IL PESCE ARCIERE, LE GALASSIE E IL SAMURAI.
L’attributo proprio della perfezione è l’infallibilità, un competere con le macchine. In questo senso la perfezione è un certo rapporto con l’immediato, e la qualità dell’atto perfetto è la tempestività, quello che i marzialisti nostrani dicono, in sciagurati termini anglofoni, timing. Stiamo parlando del kairos degli antichi. Non abbiamo una parola che riesumi il concetto come lo intendevano i greci (la chance francese è forse quello che più vi si avvicina), ma possiamo ritenerci soddisfatti di tradurlo come “il momento giusto”, “l’occasione meritevole” o anche “ il momento supremo”. Per il nostro discorso quel che ci interessa sapere è che il concetto di kairos riunisce due problemi: quello dell’atto e quello del tempo. Abbiamo tutti gli elementi da bollire in pentola.
Se la perfezione è quindi in rapporto al tempo, essa potrà definirsi anche in termini di sincronizzazione, ovvero un buon incontro e una relazione tra dei corpi, o enti, in modo che o uno dei due distrugga l’altro acquisendo potenza per sé, oppure in modo che vi sia una distruzione reciproca capace però di innescare una fusione dei “due” in un unico corpo, superiore per potenza a quelli preesistenti.
Dicevamo che la perfezione è della Natura, questa affermazione stimola assai la nostra tendenza al delirio. La caccia nel regno animale non è forse un esempio luminoso del primo caso di perfezione, quello legato al timing, al kairos ? Qui la perfezione si fa principio di selezione: mezzi più adeguati allo sforzo, concedono una prestazione più efficace. Vale per il pesce arciere come per il puma. Si è mai visto un felino giungere alla preda saltellando e facendo fracasso? No, o la va o la spacca. C’è l’agguato e un unico balzo: se la corsa fallisce, se il balzo è mal calibrato, in gioco c’è il digiuno e la vita, per sé e la prole. Quella dei pesci arciere è una specie molto vorace, il nome deriva dalla sua capacità di emettere un forte getto d’acqua dalla bocca, con il quale può colpire insetti appoggiati sulle foglie ai bordi dei fiumi, insetti che altrimenti sarebbero fuori portata. Sembra che il pesce arciere non possa fare a meno della precisione e necessiti di una certa infallibilità, visto che il suo tiro negli esemplari più adulti può arrivare a 2 metri. Il tentativo è unico, poichè rari sono gli insetti senza ali che si avvicinano all’acqua. In questo senso diciamo essere la precisione, come manifestazione del concetto di perfezione, un principio di selezione dei viventi.
E se lo stesso discorso potesse essere esteso anche alle galassie? Questo vale come esempio per il secondo caso, quello della reciproca distruzione. Talvolta anche le galassie dell’Universo Infinito, nel proprio movimento, si scontrano. Le guerre nei cieli sono infinitamente più terribili di quelle a noi note. E non ci sembra di essere scorretti nel dire che anche là avvengono buoni scontri e cattivi scontri. La scienza non è ancora dotata di un impianto teorico che esaurisca del tutto l’argomento, noi intanto abbiamo steso un filo tra le nuvole, e buchiamo il muro bianco dei cieli, con le frecce del pensiero.
Non mi sembra quindi pseudocientifico affermare che vi deve essere una certa adeguatezza dello scontro, secondo l’asse di rotazione dei buchi neri, i cuori galattici. Qual’è lo scopo dove scopo non c’è? Dalle fusione di due potenze più piccole, lo scaturire di una potenza superiore a entrambe. Ricordiamoci del nostro occhio e della nostra promessa, guardare all’Universo come fenomeno estetico. E quando una galassia rinata potrebbe dirsi migliore, o banalmente più bella, ossia più “ospitale”? Quando lo scontro tra le due preesistenti galassie favorisce un’adeguata fusione dei nuclei galattici e una maggiore conservazione dell’energia stellare orbitante intorno ad essi. Del resto, procedendo per esclusioni logiche, non è difficile immaginare degli scontri talmente violenti da dissipare gran parte dell’energia stellare negli spazi inter-galattici, o capaci addirittura di produrre un’evaporazione svantaggiosa del centro galattico. Il principio di questo delirio estetico è antico, e rigorosamente neoplatonico: l’Uno complica se stesso. Non dovremmo forse ritenere più deliziosi e belli propri quegli angoli cosmici in cui il processo di complicazione della materia è maggiormente favorito? La bellezza, in fondo, è una questione di varietà.
Arriviamo ora al nostro ultimo personaggio concettuale, che per quanto rientri nel primo caso della caccia e non nella fattispecie della fusione-simbiosi, ci permette comunque di penetrare ulteriormente l’argomento perfezione. Possiamo allora estendere un simile discorso anche al samurai? In un certo senso si, ma dove nel regno animale il meccanismo è stimolo-risposta, e nei cieli una questione di attrazione gravitazionale, nell’uomo interviene la categoria della volontà. Una volontà attiva e creatrice, che gioca seriamente con la morte. Tralasciando le pratiche di saccheggio, il samurai non preda il più debole, il samurai cerca un rivale che gli permetta di superarsi. Il duello tra due samurai si concludeva al massimo in tre mosse, e nella metà dei casi si risolveva con la morte di uno dei due guerrieri, nell’altra metà con gravi menomazioni. La cosa mi riempie ancora di ammirazione. Anni di allenamento e di pratica per giocare tutta la propria vita in tre mosse, pochi secondi, un unico lancio di dadi. Un fendete ben eseguito richiede il massimo della precisione e della rapidità, dei riflessi sovrumani e un timing sconcertante. Basta vedere gli attuali incontri di kendō, dove un occhio non allenato stenta a vedere il fendente che parte e ha difficoltà a capire gli scambi. Con l’adeguato investimento di forze e una stabile tensione muscolare, l’infallibilità dipende da un gesto preciso ed esplosivo. Qui la perfezione si fa pratica d’arte, come per il pittore il governo del colore può portare alla follia, allo stesso modo anche il samurai mette, in ogni impresa, tutta la propria vita in gioco. Non per questo usciamo dalla Natura, l’arte non è dell’uomo ma dell’Universo.
IL PERFEZIONISMO NELLA CRITICA: UNA PROSPETTIVA PER LA CULTURA
“Non c’è festa senza crudeltà” (Genealogia della Morale, F. Nietzsche)
“La critica non è una re-azione del ri-sentimento, ma l’espressione attiva di un modo attivo di esistere: attacco e non vendetta, aggressività naturale di un modo di essere, malvagità divina senza la quale non si potrebbe immaginare la perfezione”. (Nietzsche e la filosofia, G. Deleuze)
Amo le parole di Seniade riguardo Diogene il cinico. Secondo la leggenda egli disse di Diogene, lo schiavo che aveva appena acquistato per destinarlo all’educazione dei figli: “Un demone buono è giunto a casa mia”. Del resto interpellato su cosa sapesse fare, il cinico aveva risposto: “Comandare agli uomini”. Penso che sia questa l’immagine di colui che vuole e sa giovare alla cultura: chi vuole farsi operatore culturale deve essere un demone buono.
Usiamo questa figura del filosofo, solo per comodità, per indicare tutti coloro che non si lasciano fregare e traforare dalle parole, tutti coloro che si assumono il delicato compito di tenere il linguaggio in efficienza. Il filosofo “legislatore” che, imponendo delle categorie all’Essere, stabilisce le gerarchie che governano il mondo degli uomini e i valori che stabiliscono l’eticità dei costumi. Magia della nominazione. Guardiamo al nostro secolo deleuziano di miseria filosofica, sentiamo parlare di post-verità, e quasi mi pare di convincermi dell’importanza di questo compito. E’ qui che passa la critica come tensione alla perfezione, spontanea gioiosa aggressività, attacco contro quei saperi che mettono al posto della vita una serie di idee utili, convenienti, ideologie o propagande che snaturano l’azione instupidendola con valori troppo umani, troppo appartenenti ai progetti di una classe dominante corrotta. Per questo Deleuze proponeva di valutare una conoscenza non più in base alla categoria kantiana di errore, ma in base alla loro stupidità.
Visione morale del mondo, idea di Bene, categoria dell’utile come istanza sovrana regolatrice dell’attività umana… Sono tutti evidenti segnali di stupidità, che suscitano prima una gran noia e poi una certa irritazione. Ecco allora da dove può nascere negli spiriti forti una certa gioia derivante dalla spietatezza. La stessa gioia del genealogista di Nietzsche. La sua esemplare malvagità serve a esercitare i nuovi pensatori, incoraggiandoli a intraprendere guerre mai viste. E questa tensione non comprende in sé anche la gioia di annientare? Questo per Nietzsche è il carattere principale di una filosofia dionisiaca, ed egli ci chiama ancora oggi a raccogliere questa freccia, a esserla, a scagliarla più avanti affinché qualcun altro la raccolga.