di Simone Raviola
[…]
guardati dall’aridità del cuore ama la fonte mattutina
l’uccello dal nome ignoto la quercia d’inverno
la luce sul muro lo splendore del cielo
essi non hanno bisogno del tuo caldo respiro
ci sono soltanto per dire: nessuno ti consolerà
[…]
Zbigniew Herbert, Il messaggio del Signor Cogito
Ci sono scrittori che fanno della malinconia un’arte straordinaria. Uno di questi era Adam Zagajewski, poeta polacco nato a Leopoli nel 1945 e morto a Cracovia oggi, primo giorno di primavera, quattro anni fa.
Ricordo quando leggevamo a Milano le sue poesie rientrando da qualche serata. Le immagini evocate racchiudevano alla perfezione quel dolceamaro che hanno in comune la prima discesa della droga, i ricordi dell’infanzia ed «eros che scioglie le membra». Con un amico ne imparammo una a memoria: «Anni Trenta / Io ancora non ci sono / Germoglia l’erba / Una ragazza mangia un gelato alla fragola / Qualcuno ascolta Schumann / (il folle Schumann, / smarrito) / Che felicità / Io ancora non ci sono / Sento tutto» (Anni trenta). Leggevamo solo le più brevi: ci divertivamo a storpiare Le falene, che diventavano dei punkabbestia, e a ripetere all’infinito Requiem per i viventi, quei viventi che «sono sempre occupati / a dire addio ai giorni che passano / simili a una pellicola / impressionata e mai sviluppata» e in cui ci riconoscevamo, giovani e disarmati.
Un’altra volta a Verona con un amico aprimmo a casaccio Dalla vita degli oggetti e ci ritrovammo di fronte a un verso che riassumeva le nostre confuse paure nella certezza di chi ha già visto come il tempo si consuma e sa che non è poi così grave: «Benedettini di un’epoca atea, missionari di una facile / disperazione» (R. dice). Significava, ancora una volta, trovare un fratello minore timido e dalla voce flebile, capace di dire quello che stava sotto i nostri occhi e che pure nessuno di noi aveva le parole per dire. Zagajewski ci insegnava ad avere il coraggio di nominare il mondo, con ardore, senza accomodarsi nella posa ironica, boriosa e disincantata di chi dice che non c’è più nulla da dire (l’incertezza, non l’ironia, “eterna correttrice”, è il motore negativo del pensiero, si legge nello straordinario L’ordinario e il sublime. Due saggi sulla cultura contemporanea).
A Berlino incontrai Lava e fu la dissipazione improvvisa dell’ipocrisia dell’arte e l’esatta comprensione dell’esperienza del fragile tempo umano, in tutta la sua straziante consistenza: «e la bellezza dura, tremula, immota / e Dio c’è e muore, la notte torna a noi / sul fare della sera, e l’alba è brizzolata di rugiada». La malinconia non veniva meno, come quando un amico prova goffamente a consolarci con qualche incerta parola, ma si conservava e si sollevava in tutto il suo saturnino entusiasmo. La forma non vela mai la tragedia, testimonia ogni poesia di Zagajewski, la rende solo più nitida e quindi un poco meno tragica.
In questo marzo che si porta via l’inverno leggo riga per riga le formidabili prose di Tradimento. Consolano il passare delle stagioni, l’amore che se n’è andato e quello che manca. Consolano la mediocrità della vita con la testimonianza che coglierne il sapore è esperienza eccezionale e fugace: «sono troppo rare le rivelazioni. Solo i dubbi, passeri dell’intelligenza, non mancavano mai» (Due città). Il mistero del mondo si apre e si chiude, è lui che detta il ritmo – il colore, il grigiore – dell’esperienza. Imparo anche che oltre ai cannoni della storia, grazie alle fessure che separano tra loro i grandi proclami, resiste indistruttibile nella memoria la primavera delle passioni in cui nasce ogni volta di nuovo la vita umana; che l’uomo non è solo carne da macello, ma anche quello strano esserino che può cantare – lo spirito, e le rampicanti che si avvitano sui carri armati abbandonati dalla Grande Storia nelle lande desolate di qualche pianura sconosciuta.
Oggi leggo di nuovo le poesie di Adam Zagajewski e scopro con gioia che la vita è «misticismo per principianti, il corso introduttivo, propedeutico per un esame che è stato rinviato» (Misticismo per principianti) e mi domando che volto abbiano «Quei pochi giorni / In cui ritorna la chiarità» o «Quelle rare ore / In cui l’amore trionfa», di cui si chiede: «Sarebbe questa la vita?» (Brevi istanti). E non trovo risposte o definizioni, ma continuo a leggere e intuisco che la morte, anche lei, è musica con dignità, una sinfonia sublime: «e nella morte vivremo, / solo diversamente, con delicata dolcezza / dissolti nella musica» (Senza fine).
*Immagine di copertina tratta da wikipedia di Zbigniew Kresowaty, crediti qui.