di Jacopo Barusso
(Immagine di Bianca Nicolescu)
Visione comune
Nella visione comune educazione e violenza rappresentano i poli opposti di una questione le cui origini sono archetipiche. Il rapporto da esse intessuto può infatti essere ricondotto a quello tra civiltà e barbarie. L’educazione – si dice – è strumento della civiltà, educhiamo e siamo educati per essere civili. Già l’etimo lascia, apparentemente, pochi spazi ermeneutici, data l’origine dal latino educere, ex-ducere: condurre, tirare verso l’esterno, insomma strappare dall’ignoranza per condurre entro i sicuri confini della civiltà. La violenza sarebbe allora tipica dei barbari o, alla peggio, di frange “anarcoidi” o non del tutto allineate, che abitano la società ma ne rifiutano alcuni princìpi. Insomma l’educazione ci porterebbe via da uno stato “di natura” barbaro, se non animalesco perlomeno minoritario, soppiantato dalla cultura. Sembra dunque stagliarsi la celebre opposizione tra società e natura, dove alla seconda non è però concesso alcun idealismo romantico di sorta.
La violenza dell’educazione
Eppure, se disposti a rimettere in gioco le convinzioni comuni in merito ad educazione e violenza, il rapporto può essere totalmente stravolto, mostrando una relazione del tutto peculiare:
La peggior violenza si esercita così sui bambini sotto la maschera dell’affetto e dell’educazione civile. Poiché colla promessa di premi e la minaccia dei castighi che speculano sulla loro debolezza e colle carezze e i timori che alla loro debolezza danno vita, lontani dalla libera vita del corpo, si stringono alle forme necessarie in una famiglia civile: le quali come nemiche alla loro natura si devono appunto imporre colla violenza o colla corruzione.
(C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica)
Michelstaedter mostra una radicale crepa nel rapporto “canonico” tra educazione e violenza. Al contrario della visione comune, qui l’educazione non rifiuta la violenza, ma la utilizza speculando sulla debolezza dei bambini dinanzi agli adulti, tanto da essere messa poi sullo stesso piano della corruzione. Ancora più esplicitamente, quando si tratta di portare degli esempi della violenza civile, tra gli altri egli cita quello di “un maestro, che tenga quattro ore al giorno ottanta, novanta bambini chiusi in uno stanzone, li obblighi a star immobili, a ripetere ciò che egli dica, a studiare quelle date cose, lodandoli se studino e siano disciplinati, castigandoli se non studino e non s’adattino alla disciplina”, maestro che tragicamente non si accorge “d’esser un uomo che sta esercitando violenza sul suo simile che ne porterà le conseguenze per tutta la vita, senza sapere perché lo faccia e perché così lo faccia, ma secondo il programma imposto”.
Sta qui la violenza insita nell’educazione. Un bambino o un giovane mai si sognerebbero in maniera spontanea di starsene seduti quattro, cinque, sei ore al giorno. Il tedio e la disattenzione che abitano le classi e che spesso infastidiscono maestri e professori, sono sintomi della lotta tra l’istinto all’entropia tipico della vita e la rigida ricerca dell’ordine che la società pretende di affermare mediante l’insegnamento.
Dunque da un lato abbiamo il rapporto “classico” tra educazione e violenza, che può essere visto nella pretesa, da parte dell’educazione, di far sì che l’educato non utilizzi la violenza, una forma definita come barbara; dall’altro abbiamo un sorprendente elemento di violenza che pare connaturato al rapporto educativo.
Necessità della violenza
Eppure, nonostante questo sorprendente capovolgimento di prospettiva, pare difficile rinunciare alla convinzione che senza educazione il vivere sociale sarebbe fortemente compromesso. Tentando una grossolana sintesi, si potrebbe dunque asserire che, senza quella specifica forma di violenza tipica dell’educazione, non possa esserci civiltà. Prima conclusione cui giungere: il carattere necessario della violenza. Ovvero, la necessità di ridurre, progressivamente, il fanciullesco oblio ad un maturo ordine. Estendendo il caso particolare – l’educazione scolastica – a quello generale, la violenza va dunque vista non solo come tratto caratterizzante la barbarie, ma anche come strumento nelle mani della civiltà per riaffermarsi continuamente mediante gli individui che la compongono. Il tessuto sociale è omogeneo e regge se la violenza esercitata (sotto forma di educazione, governo eccetera) viene percepita come valore. Ecco allora che la costrizione del fanciullo a star seduto in classe (laddove questi s’abbandonerebbe più volentieri all’oblio del gioco e dello svago), o quella degli adulti a vivere, appunto, civilmente anche se circondati anche da idioti (i quali verrebbero ben volentieri mandati a quel paese) – diventano esempi macroscopici di valori civili perpetuati mediante la violenza dell’educazione. Si odono gli echi freudiani del Disagio della civiltà, la quale sarebbe “costruita sulla rinuncia pulsionale”, base di quella “‘frustrazione civile’ (che) domina il vasto campo delle relazioni sociali degli uomini”.
Seconda conclusione, postilla necessaria della prima: una volta riconosciutone il carattere necessario, occorre ammettere che esistono diversi tipi di violenza. O, perlomeno, individuare dei poli del tutto distanti, uniti dal ventaglio infinito dei casi intermedi. La logica non dev’essere dicotomica (o digitale: non abbiamo a che fare con 0 e 1), ma analogica. Pensare di ridurre il tipo di violenza che il docente esercita sul discente ad un caso simile a quello che si manifesta in guerra o in simili e tragici contesti, pare una velleità difficile da concedersi. Occorre riconoscere nella prima una versione perlomeno depotenziata in notevole grado della seconda.
Una volta riconosciutone il carattere necessario, pare emergere una concezione della violenza del tutto simile all’intuizione foucaultiana sul potere. Questi è da intendersi non in senso meramente negativo, ma come una rete produttiva che permea la società: “Quel che fa sì che il potere regga, che lo si accetti (…) è semplicemente che non pesa solo come una potenza che dice no, ma che nei fatti attraversa i corpi, produce delle cose, induce del piacere, forma del sapere, produce discorsi; bisogna considerarlo come una rete produttiva che passa attraverso tutto il corpo sociale, molto di più che come un’istanza negativa che avrebbe per funzione di reprimere”. Correggendo il tiro, l’educazione si potrebbe definire come un insieme di pratiche disciplinari, che afferma continuamente i rapporti di potere di cui la società ha bisogno per perpetuarsi, mediante una forma di violenza “minima” eppure onnipresente.
Resistenze e radicalismo
Proseguendo lungo la direttrice che intende la violenza dell’educazione come una manifestazione del potere in senso foucaultiano, ci si ritrova costretti a sollevare la questione delle forme di resistenza insite ai rapporti di potere: “Il punto più intenso delle vite, quello in cui si concentra la loro energia, è proprio là dove si scontrano con il potere, si dibattono con esso, tentano di utilizzare le sue forze o di sfuggire alle sue trappole” (Michel Foucault, La vita degli uomini infami).
Eppure è lo stesso Foucault a ricordare la profonda ambiguità del rapporto che la resistenza instaura con il potere:
Là dove c’è potere c’è resistenza e (…) tuttavia, o piuttosto proprio per questo, essa non è mai in posizione di esteriorità rispetto al potere. Bisogna dire che si è necessariamente “dentro” il potere, che non gli si “sfugge”, che non c’è, rispetto ad esso, un’esteriorità assoluta, perché si sarebbe immancabilmente soggetti alla legge? O che, se la storia è l’astuzia della ragione, il potere sarebbe a sua volta l’astuzia della storia – ciò che vince sempre? Vorrebbe dire misconoscere il carattere strettamente relazionale dei rapporti di potere. Essi non possono esistere che in funzione di una molteplicità di punti di resistenza, i quali svolgono, nelle relazioni di potere, il ruolo di avversario, di bersaglio, di appoggio, di sporgenza per una presa. Questi punti di resistenza sono presenti dappertutto nella trama di potere.
(Michel Foucault, La volontà di sapere)
Dunque si potrebbero, paradossalmente, vedere tutti quei tratti di “resistenza” alla violenza del processo educativo (la distrazione, la chiacchiera, il fare altro) come dei momenti interni all’affermazione del potere (da intendersi come rapporto), come una sorta di causa sui che in fondo legittima la violenza educativa. Pare di ritrovarsi in un cul de sac, in un momento restaurativo che, con una sorta di asfissiante determinismo, impedisce ogni via di uscita. Eppure, capovolgendo i termini, forse una nuova concezione si può intendere: utilizzare i luoghi dell’educazione (la scuola in primis) e gli strumenti “violenti” dell’educazione (la costrizione del compito, dell’esercizio) per creare dei momenti e degli strumenti di riflessione in merito alla natura e all’operato del potere stesso – e in genere del modello sociale ed economico di cui è espressione. Emergerebbe dunque una visione strettamente politica dell’educazione – politica in un senso che sta cadendo in disuso, ovvero di trasformazione della realtà che si è abituati a vivere: già Gramsci, nei Quaderni del carcere, sosteneva che “l’educazione non deve essere mai neutrale, ma deve essere sempre critica e polemica, perché altrimenti si avalla l’esistente”. Posto di aver riconosciuto il carattere tragicamente necessario della costrizione all’interno del vivere sociale, l’educazione potrebbe comunque essere utilizzata come strumento di sovversione rispetto gli stessi rapporti di potere che chiedono venga esercitata questa forma di violenza “minima”. Sarebbe questo forse il luogo di una resistenza radicale, in quanto si imporrebbe di favorire nel discente lo sviluppo di quel pensiero critico e riflessivo che da sempre rappresenta la principale minaccia ai rapporti di potere costituiti.