di Sara Nocent
Immagine di Silvia Mengoni
Primo teorema: poniamo che la scuola esploda. Ammettiamo che sia vuota, ovviamente senza nessuno al suo interno, e che possa essere rasa al suolo. Come pensare all’educazione ora?
Nell’ultima intervista per la televisione, Pier Paolo Pasolini ritorna sulle sue famose “proposte swiftiane”, ovvero divorare gli insegnanti della scuola dell’obbligo e i dirigenti della televisione italiana. L’intervistatore francese gli fa notare che entrambi sono coriacei e lui risponde: “Noi abbiamo stomaci forti”.
Atto I
Sono mascelle. Incavate, insaziabili, vagamente unte.
Non sappiamo dove siamo, perché siamo nel deserto. Non sappiamo chi è, ma probabilmente è un ragazzo, solo e affamato. Dietro a lui c’è un gruppo di cannibali, sono vestiti di pellicce e hanno lunghe lance nelle mani robuste. Vengono verso il pubblico e dicono insieme:
“Non siamo più cannibali: abbiamo mangiato l’ultimo insegnante. Lo abbiamo fatto fuori, abbiamo fatto in modo che non potesse più dire certe cose in classe, non potesse parlare davvero di politica o di certe guerre civili. La sua carne era morbida, nonostante gli anni di precariato e di vessazioni da parte dei colleghi. La sua carne era buona… non ne troveremo più di così. Ma noi abbiamo stomaci forti”.
La scuola non è una priorità. La riduzione è stata operata su vasta scala: sono stati ridotti i finanziamenti, l’attenzione mediatica per il mondo della formazione, i programmi. La scuola è ridotta, affamata senza più fame, innestata come una flebo nella società. Come un ago, la scuola ti cura con violenza. E se facessimo l’operazione inversa? Se restituissimo un corpo alla scuola, un corpo espanso, potenzialmente infinito, un corpo mai sazio, una vita violenta?
Atto II
La prima volta che ho incontrato Pasolini è stata a ricreazione. Non partecipavo al rituale struscio davanti alle macchinette, e non occupavo il bagno con i gruppi di ragazze. Quel giorno sono rimasta davanti a un armadio con le ante di vetro che conteneva la donazione di chi sa quale professoressa morta che aveva pensato di lasciare la sua biblioteca al liceo. Ho aperto quella specie di vetrinetta, ho dato un’occhiata rapida ai dorsi, ho letto Lettere Luterane di Pier Paolo Pasolini. Luterane? Mi suonava bizzarro. Ho preso il libro solo per il titolo e me lo sono portato a casa.
Pasolini, in cinque anni di liceo, non l’avevo mai sentito. E io ho buona memoria, ve lo posso garantire. È stato forse un bene perché l’ho incontrato fuori dalla scuola.
Ricordi di aver divorato Lettere Luterane. Senza capirci niente. Di quel libro mi era rimasta però una provocazione: i giovani sono brutti. Come, “i giovani sono brutti”? Per me era una cosa totalmente inconcepibile, mi guardavo intorno al liceo, e vedevo (o forse proiettavo, a volte) tanta voglia di vivere, tanta spensieratezza. Vedevo visi freschi, muscoli, denti pronti a splendere da un sorriso, occhi affamati. E invece Pasolini mi stava dicendo che i giovani sono imbruttiti, forse più brutti dei loro genitori, e li definiva – quello mi colpì davvero – “larvali imitatori”.
Larvali imitatori. Mi giro, e mi rendo conto di essere circondata da maschere. Il fondotinta che si aggruma sulla pelle opaca di certe ragazze, il ciuffo mosso che ondeggia come una parrucca sulla testa dei ragazzi. E gli sguardi chini, non più su traiettorie di desiderio, ma su degli schermi, e visi vagamente illuminati dal basso, come in un horror.
Il liceo è stato forse un’autopsia lunga cinque anni. I corpi, ricuciti e trattati, sono ora pronti per essere esposti all’università.
Atto III
Un po’ finale di Zabriskie Point, ma messo all’inizio. Un po’ Bowling for Columbine, ma ambientato in Italia con l’omertà al posto dei fucili. Ecco il mio progetto di spettacolo. Non riuscirei a dare una risposta seria, ragionata e analitica alla scuola che marcisce. Sono troppo arrabbiata. Sono una studentessa, questo basta a scatenare la mia, di violenza. Ma sarebbe la violenza delle parole che non si riescono a dire. Sarebbe una violenza sublimata, racchiusa in gesti lenti e sofferti, in luci caravaggesche.
Quando dopo l’ennesimo caso di violenza tra giovani sento dire che la scuola dovrebbe fare di più, che gli insegnanti dovrebbero educare al rispetto per evitare queste tragedie, sento un forte ronzio nelle orecchie. Mi viene spontaneo da dire che sì, l’educazione dovrebbe cercare il più possibile di recuperare il contatto con la realtà e che, per esempio, non sarebbe male formare i ragazzi anche nel modo di capire e di gestire le emozioni. Però penso anche che la prima vittima di violenza sia la scuola stessa, i docenti che si ritrovano a dover dividersi tra lezioni e progetti e su cui un nuovo tipo di educazione alla cittadinanza rischierebbe di pesare irrimediabilmente come l’ennesimo carico di lavoro da gestire, senza avere una maggiore disponibilità di spazi, ore e risorse economiche.
Tuttavia il mio pensiero va soprattutto a quello che le ragazze e i ragazzi trovano fuori dalla scuola, ovvero un mondo che non ha nessuna intenzione di essere meno violento. E per violenza non intendo (solo) quella fisica o verbale nei confronti di chi è diverso, che va dalla derisione alla totale esclusione e viene perpetrata a lavoro, nelle famiglie o dai media, bensì quella più subdola che scivola nell’omertà, nel giudizio sentito ma non detto che produce immediatamente effetti politici, anche senza portare ad azioni concrete.
Questa violenza più sottile possiamo scoprirla nel modo affettato e vagamente irritato con cui un gruppo di amici accoglie una ragazza o un ragazzo disabile. O in un identificarsi con facilità, senza nemmeno aver provato un po’ di empatia (non bonaria, ma proprio letteralmente, senza aver sofferto insieme), con una vittima di violenza sessuale. La violenza sta nelle divisioni nette, negli sguardi sospettosi, nel non voler sentire repliche. Le ore aggiuntive del pomeriggio su come possiamo essere dei bravi cittadini non possono fermare questo. Lo possono addolcire, semmai.
Dovremmo capire che vivere la politica non significa solo rispettare cristianamente (e limitatamente alle proprie possibilità) il prossimo o andare a votare, ma significa prima di tutto scardinare l’omertà appena abbiamo il sentore che si sia infilata nei nostri rapporti umani. Rischiare di essere diretti, di non piacere, ma mettere la verità al primo posto. Il che vorrebbe dire anche esprimere tutti i giudizi, anche quelli più scomodi, per poterli identificare ed eventualmente contestare dalla base. La politica è ascoltare e parlarsi, è stare con amorevolezza con l’altro.
Il ronzio mi passa. Ma la scuola continua ad essere sorda a questo tipo di sensibilità politica.
Atto IV
Secondo teorema: poniamo che la scuola cambi. Ammettiamo che sia piena, senza società al suo interno e senza forma. Non descolarizzata, ma semplicemente capace di ascoltare, non ecclesiastica e nemmeno dittatoriale.
Più di dieci tesi di denuncia per il nuovo GISCEL (Gruppo di Intervento per la Scuola Creativa, Erotica e Libera):
La violenza sta nel proporre posizioni politiche acriticamente agli studenti e nell’ostacolare o vietare un vero dibattito politico sull’attualità e sulla storia in classe
La violenza sta nella lingua italiana, nella grammatica delle lettere classiche, nei temi allucinanti con la tesi già espressa dal docente che non ammette opinioni contrarie
La violenza sta nell’invidia tra colleghi e tra studenti
La violenza sta nell’occupazione del tempo, nei compiti, nei piccoli e meschini abusi di potere
La violenza sta nel non capire le situazioni familiari degli studenti e nel discriminare i più poveri
La violenza sta nel fare formazione sul bullismo e poi girarsi dall’altra parte quando accade davvero
La violenza sta nelle scuse postume degli insegnanti dopo che hai avuto l’indifferenza di tutta la classe e di tutti i docenti
La violenza sta nell’autorità non usata contro i bulli figli di papà ma contro i bulletti di periferia, che avrebbero tutte le ragioni per essere arrabbiati ma che nessuno vuole ascoltare e accompagnare in un percorso senza violenza
La violenza sta nel sopprimere le particolarità
La violenza sta nel vergognarsi di intervenire in classe perché si ha paura del giudizio degli altri studenti
La violenza sta nel non leggere, nello smembrare i libri in contenuti
La violenza sta nel pensare che la scuola conti qualcosa, che un voto sia cruciale
La violenza sta nel promuovere certe materie a discapito di altre solo perché sarebbero quelle legate ai percorsi universitari che hanno più occupati
La violenza sta nel non ammettere che la comunità studentesca è una comunità erotica e che tutti ne fanno parte
Atto V
Nel liceo arriva una persona completamente ignorante, non dico descolarizzata, ma totalmente estranea all’istruzione, che non sa gioiosamente nulla, pronta a imparare, a intuire, a collegare. Non sa parlare bene, forse addirittura parla in dialetto o in un’altra lingua, ma per ora resta in silenzio, non risponde alle interrogazioni, si isola dalla classe, saluta ed è garbata con tutti, ma non parla, anche se potrebbe parlare, e tanto. È il Desiderio, o forse la Fantasia.
Seduce tutti. Prima i bidelli, poi i docenti, il preside e poi, i più refrattari, gli studenti. È un ragazzo, o forse una ragazza: chi può dirlo. Ma seduce tutti. E poi se ne va.
Sono anche. Incavate, insaziabili, vagamente unte.
Non sappiamo dove siamo, forse in un corridoio. C’è una fila di fedeli nudi e lui, o forse lei, li aspetta tutti, pasciuto e solenne come un santo del Sud.
Per ultimo, uno studente si avvicina. Il santo sorride, non dice nulla come suo solito, si amano in silenzio. Ma stavolta non finisce come nel film di Pasolini, in cui la domestica si fa seppellire viva e alimenta una fonte con le sue lacrime di gioia. No.
Lo studente si alza, ancora con i brividi di piacere addosso, e si mette a parlare. A denunciare. A piangere, a urlare nella scuola:
“Sono sazio! Ho ancora fame”.