Elaborare il lutto su pellicola: “One more time with feeling”

di Marco Catenacci

nick-cave-bad-seeds-one-more-time-with-feelingOne more time, with feeling”: ancora una volta, con sentimento. Ancora una volta, dopotutto e nonostante tutto. Ancora una volta, ancora una canzone, ancora un altro disco. Ancora un tentativo di riprendere in mano le redini della propria vita (di rimetterla letteralmente a fuoco), perfino dopo un evento così traumatico come la prematura e tragicamente accidentale morte di un figlio. Arthur Cave muore il 14 luglio 2015, dopo essere volato giù da una scogliera ad Ovingdean Gap, vicino Brighton, nel sud dell’Inghilterra. Un evento che va a porsi come un taglio, una frattura insanabile nell’esistenza di Nick e della moglie Susie: un taglio di montaggio, appunto, una fotografia bidimensionale inserita improvvisamente all’interno di un flusso narrativo a tre dimensioni. O un evento “accidentale” come una caduta (!) della camera (“There’s no such thing as accident”, sottolinea Nick Cave) a ribadire e negare allo stesso tempo l’in(e)sistenza del caso.

Uno dei pregi più grandi del nuovo film di Andrew Dominik (presentato alla 73esima Mostra del Cinema di Venezia e rimasto clamorosamente e inspiegabilmente fuori concorso), sta nell’incredibile sapienza con cui il regista neozelandese sa usare il linguaggio cinematografico come elemento significante, sempre perfettamente aderente non solo ai temi affrontati, ma anche al tono, funebre ed elegiaco, dannatamente disperato. Un linguaggio che è inevitabilmente problematico, a cavallo tra documentario e film-concerto, tra finzione sapientemente orchestrata e interviste capaci di scandagliare argomenti profondamente universali, in cui il Nick Cave musicista e artista emerge proprio a partire dalla sua figura più umana e paterna (con tutti i vuoti e le debolezze che una situazione tragica di questo tipo fa inevitabilmente implodere).

Dominik aggira e ribalta il linguaggio del tipico film sul backstage (in fin dei conti si tratterebbe anche di un lavoro sulla realizzazione del nuovo disco di Nick Cave, Skeleton Tree, in uscita il 9 settembre), per realizzare un’opera di una potenza visiva ed emotiva sconvolgente, una vera e propria sinfonia per immagini, struggente e insieme meditativa. Perché alla fin fine, prima di tutto questo, One More Time With Feeling è un film sull’elaborazione del lutto come momento in cui dover rimettere a fuoco (l’inizio, con l’intervista a Warren Ellis da rifare perché out of focus, è emblematico, così come tutta la sequenza che segue, in cui Nick si sposta da una stanza all’altra, entrando ed uscendo continuamente dalla profondità di campo) e ricomporre i frammenti della propria esistenza. Frammenti che si fanno canzoni, canzoni che si ricompongono, ancora una volta, nell’unità di un album, di cui proprio Warren sembra avere il controllo a livello a realizzativo (“He can put the pieces back together”, dice Nick del compagno). Il fatto che il film si apra proprio sul violinista dei Bad Seeds lo eleva ad elemento chiave del pensiero, a personaggio capace di incarnare il desiderio di ricostruire il puzzle della propria vita, disintegrata da quel drammatico evento. E tuttavia, sono frammenti che non andranno mai a costruire un flusso di senso compiuto. Nessuna apertura, nessuno svolgimento, nessuna chiusura; nessuna narrazione.

I don’t believe in narrative anymore”, sentenzia Nick. Sono lontani i tempi di Murder Ballads, album del 1996 in cui l’artista australiano parlava della morte attraverso nove storie (più Epilogo) sul tema. Adesso i suoi testi non raccontano storie, e non possono più farlo, perché la sua percezione, oggi, è che vita e morte siano da tutt’altra parte, in tutt’altra direzione. Impossibile ridurre tutto ad uno, impossibile far convergere il dolore entro i limiti di una frase da cartolina (“He lives in my heart”), impossibile sottostare alle ferree regole della continuità narrativa (“Fuck continuity!”); impossibile, forse, concepire e realizzare un disco che sia perfettamente compiuto.

Ecco allora che in relazione all’album (l’elemento compiuto, appunto), il film serve a Cave per far emergere proprio questo, una lavorazione e un’idea del mondo e della vita significativamente e insanabilmente frammentaria, che prima di presentare un’opera perfettamente compiuta, si ferma a contemplare tutte le sue parti (le canzoni), come tasselli di un puzzle la cui collocazione precisa potrà essere data solo in un secondo momento. Prima i frammenti, poi (forse) l’unità, nella disperata consapevolezza che quell’evento rappresenterà per sempre una frattura irrecuperabile. Di fronte alla tragicità della vita non resta altro che continuare a fare quello che si è sempre fatto, comporre canzoni, realizzare dischi; cantare, chiamare, con la paura costante, un giorno, di perdere la voce.

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