di Tommaso Tercovich
Quale ruolo ha l’intellettuale, inteso come ‘colui che forma le proprie idee dopo averle giudicate con spirito critico’ (cioè usa l’intellectus) di fronte agli accadimenti del mondo?
Dinnanzi ad un evento tra i più importanti della storia dell’umanità come la prima guerra mondiale (cui si avvicina il centenario), come muta, se muta, la personalità del pensatore nella dimensione intima e in quella pubblica? E più in generale si possono fare delle riflessioni sul rapporto tra gli intellettuali e la società in cui vivono?
Per cercare di dare degli elementi di risposta alla prima domanda ecco che mi trovo davanti Esame di Coscienza di un Letterato scritto da Renato Serra. Questo libro non è un bilancio morale sugli intellettuali scritto dopo la guerra, ma prima del conflitto; in questa scelta l’autore trasmette una forza e un carattere duraturo nel giudizio, non inficiato dagli avvenimenti, ma egualmente lucido. Questo giudizio-testamento precede la morte fisica dello scrittore (sul Podgora nel 1915) e quella metaforica della morale umana (nella perdita di umanità della Guerra).
Il testo inizia con una constatazione già molto emblematica: come abbia potuto, il protagonista-autore, mettere da parte il diritto di fare della letteratura a causa della Guerra? “I giorni passano e il peso di questo conto da liquidare con la mia coscienza mi annoia e mi attira”. Non deve essere permesso a nessuno di separarsi dalla propria vita di tutti i giorni fatta di lavoro, abitudini, letteratura, amori e vizi per quella che viene definita spregiativamente ‘partecipazione personale alla guerra’ dei letterati. Questo termine, “con tutti i suoi equivoci di illusione e ingenuità e con le sue sfumature di ridicolo”, nasconde una generalizzazione e un appiattimento verso le reali esperienze degli uomini-intellettuali. Per l’autore il rapporto con la guerra deve essere visto solo attraverso la singolarità e l’unicità di ogni personale esperienza al netto della mistificazione collettiva.
Serra sostiene che la guerra non gli interessa, specificando che “è un fatto, come tanti altri in questo mondo […] non vi aggiunge e non vi toglie nulla”. Si rivolge a tutti quei suoi contemporanei che volevano una letteratura eroica, grande, intrisa di sangue e di sacrifici, ma opponendo ad essi la propria idea di letteratura: conquista spirituale, esigenza e coscienza intima. Questa sua moderna visione dell’arte spazza via il desiderio che “i letterati tornino migliorati, ispirati dalla guerra perché essa invece li può prendere come uomini, in ciò che ognuno ha di più elementare, di più semplice”. Secondo Serra chi crede che i professori, gli artisti e gli scrittori possano cambiare le loro abitudini, i loro bisogni, le proprie debolezze, i loro difetti e quindi la propria intelligenza e visione del mondo a causa della guerra, mente. L’autore porta alcuni esempi di intellettuali francesi e italiani pervasi da questa falsità che lui smaschera con una frase lapidaria: “non c’è mai stata tanta retorica e tanto plaqué come in codesta roba della guerra”. L’attività degli autori in tempo di guerra è da lui stigmatizzata e giudicata senza retorica: il valore e il peso degli scritti deve essere valutato per la loro importanza e la possibile valenza per il futuro, non per una redenzione bellico-letteraria. Paul Fort, Rolland, Péguy tra i francesi, D’Annunzio, Croce, Matilde Serao tra gli italiani; Serra offre uno spaccato della letteratura del tempo di guerra mettendo la letteratura stessa al primo posto, ponendola come la bellezza e l’arte dinnanzi al momento storico.
L’autore fa capire che porre la retorica di guerra davanti al valore letterario crea mescolamenti anche fra scrittori meritevoli di stima portandoli ad essere “teste vuote e cattive, esaltati e fanfarori, mestieranti e procaccianti”, esempio di una “viltà e di una buaggine e di poltroneria italiana”.
Inizia così un forte atto d’accusa verso gli artisti e i letterati non certo liberi, ma sottomessi ad una retorica tanto trionfante quanto povera di durata. Un passaggio merita di essere citato integralmente: “la guerra ha rivelato dei soldati, non degli scrittori. Essa non cambia i valori artistici e non li crea: non cambia nulla nell’universo morale. Che cosa è che cambierà su questa terra stanca dopo che avrà bevuto il sangue di tanta strage: quando i morti e i feriti, i torturati e gli abbandonati dormiranno insieme sotto le stesse zolle, e l’erba sarà tenera lucida nuova, piena di silenzio e di lusso al sole della primavera che è sempre la stessa?”.
Da questo passo si possono trarre delle considerazioni in merito alla concezione del tempo di questo scritto che certo non guarda ad un vicino orizzonte, previsto di sangue e dolore, ma vede gli accadimenti della vita dell’Uomo in un’ottica quasi eterna, dove la bellezza e la natura sono superiori alle disgrazie umane; quasi con una visione religiosa di matrice cristiana o almeno con quella forte spinta vitalistica che caratterizza altri giovani scrittori del tempo come Scipio Slataper. La vita continua e la guerra che ciclicamente si presenta nella storia non arresta la forza dell’uomo. Serra prevede perfettamente uno scenario che sembra quello successivo alle due Guerre Mondiali, tenendo fede alla sua visione della storia: “ci saranno cambiamenti di tendenze politiche e di indirizzo morale; delle rettifiche e delle definizioni, così di confini geografici come di valori civili, che diminuiranno in quel che si suol chiamare l’equilibrio mondiale”. Anche il ruolo dell’Italia in guerra, intesa come comunità di persone in guerra, non esaurisce il suo ruolo solamente nella partecipazione al conflitto perché aspira, secondo i desideri dello scrittore cesenate, a sommovimenti, sentimenti e azioni più ampi e certo più duraturi nel “teatro della storia”.
In fondo la guerra non porta alcun bene perché “non c’è bene che paghi la lagrima pianta invano, il lamento del ferito rimasto solo, […] il sangue e lo strazio umano che non ha servito a niente”. L’unico insegnamento che l’autore pare voler imparare da ciò è il sacrificio. Anche alla luce della sua (e di tanti altri intellettuali) morte sul campo, non si può non sottolineare come la guerra sia fatto umano ed esperienza forgiante dell’animo: “si impara a soffrire, a resistere, a contentarsi di poco, a vivere più degnamente, con più seria fraternità, con più religiosa semplicità, individui e nazioni, finché non disimparino…”.
Non sono solamente parole che mantengono la loro attualità, ma esse resistono come ideali per una convivenza e un rapporto tra uomini esemplare ancora da venire. Specialmente in Italia ai giorni nostri, dominati da disvalori imperanti che passano dalla esaltazione del denaro alla devastazione della Natura e ad una mancanza di statura morale degli uomini. Insomma questo testo è certo una critica della letteratura, ma si trasforma in una energica critica sociale e in una descrizione di un manifesto a-storico di valori.
Il testo si chiude con una lunga descrizione naturale e sentimentale che riporta l’autore al proprio presente di angosce, speranze e inquietudini a cui si abbandona. A voi, cari lettori, la parola e l’azione della lettura di questo testo. Ancora vi chiedo, per dare qualche elemento di risposta alla seconda domanda posta all’inizio, quale vi sembra essere il peso e l’autorevolezza degli intellettuali (termine che per me ha ancora una valenza positiva non dispregiativa) di oggi, segnalandovi alcuni esempi scelti a caso fra i molti (?) a disposizione. Una delle ultime prese di posizioni intellettuali è quella di Erri de Luca sulla lotta contro il TAV o quella di Paolo Rumiz contro il rigassificatore a Trieste. Possiamo accontentarci di come gli uomini-con-intelletto valutano, criticano la realtà o piuttosto essi sono ancora appiattiti al potere oggi come cento anni fa?