di Arianna Marchente
Sappiamo tutti cosa è successo in Francia tra mercoledì e venerdì: non c’è bisogno di raccontare nulla né di elencare per l’ennesima volta una serie di dettagli atroci, che ormai servirebbero solo a nutrire un latente voyeurismo e ad offuscarci la mente. Non è facile pensare criticamente quando ci si trova coinvolti (seppur a relativa distanza) in qualcosa di incomprensibile. Ancora più difficile è riuscire ad evitare discorsi patetici, retorici e spesso inutili. Scrivere quindi di Charlie, dei fratelli Kouachi, del terzo attentatore e degli ostaggi del market kosher in questi giorni è stata una sfida nella sfida, soprattutto per chi ha scelto di usare la propria penna cercando di andare oltre la mera cronaca.
Ho letto decine e decine di articoli sulla strage parigina e, se posso essere sincera, ho le idee ancora abbastanza confuse. Con il passare delle ore il mondo mediatico si è spaccato nettamente in due: accanto ai messaggi di vicinanza, alle analisi commosse e commoventi sono comparse le posizioni di chi invece non ha voluto cedere all’ipocrisia e al buonismo, condannando il taglio editoriale del settimanale e affermando che “in fondo se la sono andata a cercare.” Il New York Times ha definito Charlie Hebdo come una testata tendenzialmente “rancorosa e volgare,” simbolo di un “laicismo aggressivo”. Il Financial Times invece ha parlato di una “follia editoriale”.
C’è stato poi chi si è impegnato in analisi precise e acute del fondamentalismo religioso e chi ha iniziato ad abbracciare l’ipotesi di complotti interni a favore del Front National (bisogna ammettere che il fatto che dei terroristi addestrati abbiano sbagliato indirizzo, perso una scarpa e dimenticato il documento di identità sui sedili dell’auto è senz’altro uno di quei casi di cui si dice che la realtà supera la fantasia). Ma il punto è che quasi tutti hanno riconosciuto nella difesa della libertà di espressione la questione più urgente, poiché in essa risiede il cuore della democrazia.
Senza voler togliere nulla alla libertà di parola, di stampa, alla laicità e al diritto di ridere, l’impressione generale è però che si stia perdendo di vista il punto politico e sociale, e che dietro quelle centinaia di matite alzate al cielo si stia svolgendo il bandolo di una matassa ben più drammaticamente intricata, e di cui ancora non siamo in grado di comprendere la complessità: i tempi forse non sono maturi e non è detto che lo saranno a breve.
Parallelamente alla frattura mediatica si è sviluppata una divisione dell’opinione pubblica, rappresentata da alcuni hashtag – e dalle conseguenti critiche – che hanno dominato la scena dei social durante le ultime ore. #JeSuisCharlie è diventato in pochissimo tempo uno degli hashtag più popolari della storia di Twitter, suscitando fin da subito non poche reazioni. “Col cazzo che siete Charlie”, ha scritto Fabrizio Casalino sulla sua pagina Facebook, riassumendo in modo lapidario l’umore di tutto coloro che in questi giorni hanno controgridato al mondo un messaggio molto chiaro: è inutile e irrispettoso, sulla scia della strage, dirsi uguali a chi ha rischiato ogni giorno la propria vita in nome della libertà di espressione, mostrando un coraggio che non tutte le persone che oggi si dicono “Charlie” avrebbero nella stessa situazione. Inoltre, sotto la maschera del #JeSuisCharlie, qualcuno ha addirittura intravisto una pretesa rivisitazione ultracontemporanea del celebre trinomio rivoluzionario sotto a cui si celerebbe il volto segreto di un’empatia elitaria, diretta solo verso alcune vittime, stimate in differenti gradi a seconda del colore della pelle e della nazionalità. Qualcuno si è chiesto “Perché essere Charlie e non invece una di quelle decine di persone che sono morte, lo stesso giorno, in Yemen proprio a causa di un attentato?” Alludendo in tal modo ad una sorta di “economia della morte” praticata sulla pelle delle stesse vittime della strage parigina (in cui hanno perso la vita, oltre ad un poliziotto di fede musulmana, persone appartenenti a culture ed etnie molto differenti). Al #JeSuisCharlie è seguito così ben presto il #JeSuisAhmed: “Non sono Charlie, sono Ahmed, il poliziotto che è stato ucciso. Charlie ridicolizzava la mia fede e la mia cultura e io sono morto per difendere il suo diritto a farlo” ha twittato Dyab Abou Jahjah, blogger libanese.
Nel giorno dell’assedio alla tipografia di Demmartin e dell’uccisione dei due terroristi responsabili di – come loro stessi hanno gridato – avere ucciso Charlie, un nuovo e inquietante hashtag è comparso misteriosamente in rete in opposizione al #JeSuisCharlie. #JeSuisKouachi è il cancelletto lanciato per esprimere la propria solidarietà agli attentatori, nella speranza che Allah potesse proteggere i due fratelli franco-algerini dall’imminente blitz della polizia: è diventato immediatamente un vero e proprio trending topic, scatenando la paura degli utenti della piattaforma e innescando un’aggressiva reazione, in particolare da parte del Front National.
Su tutt’altro versante Igiaba Scego, scrittrice italiana di origine somala e di religione musulmana, con il suo #notinmyname ha contribuito a complicare ulteriormente la già caotica scena della rete. “Sono stufa di essere associata a gente che uccide, massacra, stupra, decapita e piscia sui valori democratici in cui credo e lo fa per di più usando il nome della mia religione. Basta!”, scrive su Internazionale. Molti uomini e donne musulmani, in queste ore, si sono fatti immortalare nell’intento di mostrare al mondo che loro non hanno nulla a che vedere con queste stragi, che essere musulmani non significa per forza essere dei barbari sanguinari, che il loro profeta non è lo stesso di quei mostri. Anche in questo caso, però, il fronte non si è mostrato compatto e c’è stato chi non ha voluto omologarsi. Diversi giovani musulmani hanno infatti spiegato di trovare assurdo che il mondo occidentale pretenda che loro chiedano scusa per qualcosa che non hanno fatto, sostenendo che il loro scusarsi finirebbe solo con lo stabilire un implicito legame con i terroristi. Rifiutarsi di chiedere perdono per delitti atroci commessi da altri in nome di una interpretazione religiosa che non condividono è per questi ragazzi il gesto più concreto che hanno a disposizione per mostrare al mondo che loro con l’estremismo non hanno nulla a che fare.
La battaglia dei cancelletti che sta popolando la rete in queste ore mette in scena la classica contrapposizione tra bene e male, buoni e cattivi, sfumandone però inconsapevolmente i confini, inspessendoli e intersecandoli al tempo stesso. Proviamo a confrontarli: 1) “sono Charlie”, 2)“non sono Charlie, sono Ahmed”, 3) “not in my name”, 4) “Non vedo perché dovrei scusarmi per qualcosa che non ho fatto io, e che non mi è più familiare che a chiunque altro soltanto perché sono arabo o di fede musulmana”.
Queste posizioni ci fanno capire in modo molto chiaro (più di molti articoli usciti su quotidiani assolutamente degni di nota) che dietro all’unificante baluardo della lesa libertà di espressione si celano due questioni storicamente e politicamente ben più complesse: da una parte c’è il rapporto che intercorre tra l’Islam e le singole Nazioni occidentali (ognuna della quali ha – è utile ricordarlo – una propria storia da cui è impossibile prescindere), mentre dall’altra si pone la questione del rapporto che l’Islam occidentalizzato, o moderato, intrattiene con se stesso e con le proprie radicalizzazioni estremistiche. Ma soprattutto, questa particolare insiemistica virtuale rende evidente il bisogno viscerale e ambivalente di identificarsi o di prendere le distanze, che si traduce nei due poli “io sono” e “io non sono”. Identità e differenza, bisogno urgente di appartenere o di chiamarsi fuori, inclusione ed esclusione: sono queste le dinamiche principali in gioco, e sono – non a caso – dinamiche tipiche del fenomeno religioso.
In questo continua smania di spaccarsi in due “fazioni” si rivela fondamentalmente la mancata tematizzazione di una questione cruciale: il fatto che alla base di qualsiasi sentimento identitario c’è proprio la differenza. Questo paradosso, difficile da districare in un tweet o da riassumere in un hashtag, è la fonte di tutte le polemiche e di tutti i contrasti “virtuali” che in questi ultimi giorni hanno parzialmente avvelenato un lutto che, sicuramente in maniere diverse a seconda dei punti di vista, ha accomunato tutti. Non c’è in realtà nessuna ipocrisia nel dire “io sono Charlie”, nessuna pretesa di assimilarsi, nessun desiderio di ostentare un coraggio uguale a quello di chi nella strage ha perso la vita. Quella che potrebbe sembrare una semplice e sbrigativa retorica della solidarietà può acquistare un senso politico positivo, soltanto se concepita a partire dalla distanza e dalla differenza che consente logicamente di esprimere una vicinanza: posso dire che sono Charlie proprio perché non lo sono.
Anche lo stesso #notinmyname, in un certo senso, manifesta un ambiguo bisogno di prendere una distanza pubblica da qualcosa che dovrebbe essere già estraneo. Dire di non essere qualcuno spesso significa indirettamente ammettere di avvertire il peso e l’angoscia di un implicito paragone.
Da un certo punto di vista potrebbe risultare corretto il ragionamento di quei musulmani che stanno cercando un modo positivo e non negativo di esprimere la loro solidarietà alle vittime, consci del fatto che chiedere scusa vorrebbe dire ammettere un qualsiasi tipo di relazione sui generis con i terroristi. E non è un caso, forse, che nonostante siano moltissime, queste persone non abbiano avvertito il bisogno di un hashtag per manifestare coerentemente la loro solidarietà.
Non intendo schierarmi a favore o contro alcuna di queste posizioni e non mi interessa condannare l’utilizzo di tag – di qualsiasi sorta – per esprimere il proprio pensiero. Bisogna però fare attenzione a destreggiarsi nel mondo di queste etichette, di cui ci serviamo e con cui dialoghiamo, avendo sempre in mente che il senso di appartenenza e l’ordine che sembrano produrre sono tanto rassicuranti quanto illusori. Seduti davanti agli schermi e alle tastiere dei nostri computer non condividiamo la metà delle cose che leggiamo ma invece di gioire di questa differenza diventiamo subito inutilmente aggressivi. Ci dimentichiamo che queste posizioni sono di fatto manifestazioni differenti di quella dinamica paradossale che si gioca tra differenza e identità e che sola ci consente di parlare faticosamente di democrazia. Ma dobbiamo stare attenti, perché questa dimenticanza è proprio ciò di cui si nutre qualsiasi forma di estremismo.