di Massimiliano Mezzarobba
Qualunque ne siano state le cause, uno degli effetti più evidenti della crisi finanziario-economica scoppiata sui due lati dell’Atlantico fra 2007 e 2008 è da ricercarsi nello spettro dei fragili equilibri politici su cui si regge l’impianto ideologico dell’Unione Europea.
La misura in cui alle difficoltà della vita economica si sia accompagnata, in molti dei Paesi aderenti alla convenzione di Schengen, l’ascesa politica delle destre – più o meno estreme – è sotto gli occhi di tutti. I casi menzionabili sono fin troppo numerosi, e si estendono dalla Francia alla Finlandia, dalla Grecia all’Olanda, dall’Austria alla Danimarca e alla Svezia. Tra di essi, però, spicca forse più d’ogni altro quello ungherese: un caso che si rivela ancor più singolare alla luce della scarsa e distratta attenzione che i media, italiani e non solo, hanno voluto concedergli.Lo scorso 6 aprile, chiamati a decidere del nuovo esecutivo, i circa 8 milioni di ungheresi aventi diritto di voto, si sono infatti rivelati in grado di battere ogni record europeo. Se il secondo mandato consecutivo (terzo in tutto) del leader nazionalconservatore ed “eurominimalista” (come egli stesso ha avuto modo di etichettarsi con orgoglio) Victor Orbàn era dato per scontato, in pochi avevano previsto che la locale formazione di ultra-destra, denominata Jobbik, avrebbe sfondato la soglia del 20%, ottenendo il miglior risultato che uno schieramento di estrema destra abbia raggiunto in tutta Europa.
Quello che, dell’intero Continente, è uno dei movimenti politici più apertamente e sprezzantemente antisemiti, razzisti e sciovinisti, si è così imposto come primo interlocutore del vincente governo di centrodestra, facendo squillare per l’Europa, dopo il risultato di Marine Le Pen alle ultime elezioni amministrative francesi, un ulteriore e forse ancor più inquietante campanello d’allarme.
In nessun altro Paese europeo le forze avverse ai principi fondativi dell’Unione sembrano in rapida e minacciosa ascesa quanto in Ungheria: dove, all’affermazione di una leadership spiccatamente euroscettica, si contrappone un’opposizione parlamentare dominata da istanze di ispirazione dichiaratamente filo-nazista, tra le più nostalgiche e violente che l’Europa conosca.
Rimarrebbe tuttavia deluso chi, di fronte a tali avvenimenti, si aspettasse da parte dei vertici europei l’ammissione turbata di una qualche problematicità interna.
Se fra 2011 e 2013 i rapporti tra Bruxelles e Budapest non sono stati dei più facili, alla vigilia delle elezioni politiche ungheresi si è infatti assistito a uno stupefacente endorsement del PPE – Angela Merkel compresa – al partito politico di Orbàn: il Fidesz. Probabilmente a causa del timore per la possibile ascesa dello stesso Jobbik, Joseph Daul, presidente del Partito Popolare Europeo, e compagni, hanno dato prova di una notevole ambivalenza nel sostenere e acclamare la campagna elettorale di un leader politico che negli ultimi anni si era più volte distinto in Parlamento Europeo e in Consiglio d’Europa per l’aggressiva irriverenza e per l’anacronismo delle proprie dichiarazioni, arrivando, tra le altre cose, a paragonare la figura istituzionale di Angela Merkel a quella di Adolf Hitler.
Presentato dalle cronache europee degli ultimi quattro anni sotto un velo di diffidente sospetto, Victor Orbàn è la guida fiera e autoritaria del partito che, a cominciare dalla netta vittoria riscossa nel 2010, forte di una maggioranza parlamentare dei due terzi, ha radicalmente stravolto alcuni dei più fondamentali principi democratici della Costituzione ungherese. Le modifiche apportate alla Carta costituzionale, ed entrate in vigore all’interno dei confini magiari dal primo gennaio del 2012 (per poi essere ulteriormente puntellate da successivi interventi mirati), oltre a richiamarsi ai valori dell’etica cristiano-cattolica con sprezzo delle altre confessioni religiose, introducono il principio per cui la libertà d’espressione può essere limitata e arrivano a porre le fonti d’informazione sotto il controllo dell’esecutivo; esautorano di fatto la Corte costituzionale; riformano la Banca centrale ungherese, prevedendo che la nomina del presidente spetti al governo; criminalizzano i senzatetto e le organizzazioni di estrema sinistra; costringono i neodiplomati e i neolaureati ungheresi a lavorare entro i confini nazionali per almeno dieci anni dal conseguimento del titolo.
Da parte di un Paese che, peraltro, fino a meno di un anno fa, versava in condizioni economiche estremamente critiche, un tale attacco allo Stato di diritto è stato recepito dall’Unione Europea come uno sfacciato affronto ai propri valori e al proprio spirito di fondo. Una sfida in piena regola, alla quale la Commissione europea sembrava voler reagire con decisione e fermezza, introducendo innanzitutto una serie di tagli alle risorse finanziarie destinate all’Ungheria. Di questi intenti sanzionatori si è con il tempo persa ogni traccia, fino ad arrivare al plauso del PPE alla vittoria di Fidesz del 6 aprile, preannunciato da un appoggio politico privo di alcuna riserva e da un caloroso messaggio d’auguri inviato nientemeno che da Helmut Khol.
Non è semplice dire se le ragioni di un tale ripensamento da parte di chi oggi a Bruxelles gode pressoché di ogni potere decisionale siano da ricercare – oltre che nella ovvia necessità di contrastare il Jobbik – nell’oggettiva debolezza giuridica degli organismi europei rispetto ai governi dei singoli Stati nazionali; o, semmai, nell’immensa e intricatissima rete di legami politici, economici e finanziari che sottende le complesse logiche che guidano la convivenza degli Paesi membri dell’Unione (non bisognerebbe infatti dimenticare che è stato il governo Orbàn, in vista di una difficile ripresa economica, ad aprire negli ultimi mesi i confini ungheresi a immensi investimenti da parte delle più importanti case automobilistiche di marca tedesca). Allo stesso modo, appare tutt’altro che semplice azzardare delle ipotesi sul perché le maggiori testate giornalistiche italiane abbiano, da un lato, sorvolato sulla scarsa coerenza dimostrata dal Partito Popolare Europeo in tale circostanza; dall’altro lato, divulgato la notizia dell’ampia maggioranza ottenuta da Fidesz in questa nuova tornata elettorale con una pacatezza di toni che stride a dir poco con le parole aspramente critiche e quasi angosciate che caratterizzavano gli articoli dedicati all’attuale leader ungherese fino a non più di un anno fa.
Il dato storico e politico che oggi, in attesa delle elezioni del prossimo 25 maggio, appare invece ben chiaro ai nostri occhi è che la grave crisi economica che stiamo vivendo, concedendo ai movimenti di estrema destra e ai partiti antieuropeisti sempre più facili appigli populisti, ha assestato un duro colpo non solo all’equilibrio politico e socio-economico dell’Unione Europea, ma alla sua stessa stabilità istituzionale: costretta com’è a destreggiarsi tra scivolosi e compromettenti accordi anche con chi le è in larga misura ostile, pur di non cedere il passo ai suoi più accaniti, e sempre più inneggiati, nemici interni.
Alla luce di questo articolo, si rafforza la mia idea che ormai la sinistra in quasi tutte le sue declinazioni sia una truppa di completamento del sistema attuale.
Questi partiti hanno ricevuto dei voti e dei consensi da parte del popolo: qual è il problema?
Il problema è che hanno paura dei popoli, delle Nazioni, delle idee forti, e fanno di tutto per osteggiarli in nomo del nuovo mondo globalizzato e appiattito.
Su Renzi, le privatizzazioni, le svendite, mai una parola.
Sul “pericolo nero” continui richiami e uso di termini preoccupati. Eppure sono voti, come gli altri.
Evidentemente in Italia siamo ancora figli diretti della guerra civile.