“Fame”: l’editoriale

La fame è un oggetto elusivo, crocevia di diversi nodi problematici della nostra attualità. Motore oscuro di dinamiche corporee, simboliche e sociali che interessano la reciproca compenetrazione degli organismi viventi, la fame è un istinto che orienta i nostri corpi; la miccia biologica di pulsioni erotiche plastiche e imprevedibili; un fenomeno alla base di migrazioni e sconvolgimenti geopolitici; una brutta e troppo frequentata metafora per le più tossiche forme di ambizione e auto-imprenditorialità.

Spostando appena lo sguardo dai rapporti tra persone a quelli globali, possiamo invece veder emergere il tema della fame nei contrasti e negli interessi che orientano l’economia mondiale e le sue ingiustificabili diseguaglianze; nelle guerre, che si fanno sempre meno a causa della fame, ma tendono piuttosto a crearla dove prima non c’era (come a Gaza); nei mutamenti tecnologici e ambientali che, insieme alle guerre, scatenano la migrazione di miriadi di persone che sfuggono alla fame, che sono fame.

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Le bocche e gli stomaci, i denti e le ambizioni, i morsi e le cucine. C’è qualcosa di rivoluzionario e conturbante nell’osservare il mondo attraverso la lente della fame. Una zoomata di microscopio che si schiude su un mondo brulicante, nel quale si tesse la trama impercettibile di innumerevoli tensioni e resistenze attivo-passive, tra fantasmi masochisti di divorazione, assimilazione, assorbimento, e inverse tensioni sadico-aggressive a inglobare e incorporare l’altro da sé, ad accrescerci a spese altrui.

Fame come volontà di potenza che, al proprio limite estremo, tende oscuramente a rovesciarsi in forme di auto-annientamento e auto-consumazione, come capita a molti di coloro che cadono vittime dell’ideologia (auto)imprenditoriale del soggetto-impresa. Il famoso e grottesco “Stay hungry, stay foolish” di Steve Jobs rimane per molti, ancora oggi, anche se forse sempre meno, il triste astro in fondo al pozzo attorno a cui gravitano vite sfregiate da falsi bisogni e ambizioni irraggiungibili.

La fame e il suo codazzo di spettri (anche clinicamente declinati, come anoressia e bulimia) ci aprono uno scorcio sulla psicopatologia del quotidiano e sulle forme particolari della nostra soddisfazione individuale: il mangiarsi le unghie, le pellicine, il piacere senza tempo della suzione, del mordersi, della masticazione. Una “fame senza fame” il cui simbolo non è più la pancia che si riempie, ma la bocca e i denti che lavorano – e divorano – se stessi in un godimento di sé circolare e potenzialmente senza fondo.

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Come inside! Siete invitati al nostro festoso e inquietante banchetto, il tema della conversazione sarà l’universale quanto sfuggente questione del desiderio. Termine viscerale e concreto quanto sfuggente e ubiquo. Un piatto forte – o un ingrediente segreto – che non troverete nel menù né tra gli allergeni, ma che – portata dopo dopo portata – speriamo vi lasci in bocca un buon sapore (e la voglia di dire la vostra).

Il convito ha inizio con una breve prosa di Giadrossi dedicata ai pensieri che sopraggiungono nel dopopranzo, quasi a voler già nell’antipasto pregustare l’insieme di inquietudini che ci inseguono e mantengono controvoglia in uno stato di stordita veglia post-prandiale. Di Vittorio presenta riflessioni di taglio antropologico in un montaggio di suggestioni che spaziano dagli studi di Aby Warburg sulla simbologia dell’incorporazione nelle immagini dei serpenti degli indiani Hopi alla pulsione orale freudiana. Avella ci conduce in una riflessione narrativo-speculativa in cui la fame si fa tonalità dell’essere tra le cose, una traumatica voragine che ci ostina a incorporare l’altro e il mondo. Il testo di Bercic riflette invece sul tema del narcisismo alimentare, indagando il complesso rapporto tra benessere psicofisico, immagine di sé e pratiche alimentari nella società contemporanea.

Come in ogni lauto pasto che si rispetti, a improbabile cesura digestiva della prima sezione di testi, Nocent propone un’opera multimediale, scaricabile attraverso un QR code, in cui i fantasmi larvali della fame trovano espressione nella sua voce. Il racconto breve di Cattaruzza affronta il tema attraverso echi biografici che si contrappongono a riflessioni sul corpo di un giovane e di una madre, sul calcolo statistico dei consumi, sull’appetito come crocevia di luoghi e vissuti e sulle inappetenze di un corpo che si approssima a generare un’altra vita. Il testo di Cicogna prende in esame il rapporto tra fame e linguaggio, spaziando tra favola, agiografia e psicoanalisi. Moroni si fa interprete dello stravagante universo del film di animazione La città incantata di Hayao Miyazaki e delle sue fantasticherie culinarie. Quasi a controbilanciare l’incanto del cosmo immaginifico del regista nipponico, il testo letterario di Andreatta ci pone davanti all’inquietante immagine di un individuo che si propone di ingoiare un coltello da cucina, costringendoci a una serie di riflessioni sul labile confine tra violenza, incorporazione e ritualità quotidiane.

A separare questa sezione di testi, eco forse di un’impellente necessità fisiologica che costringe a sospendere momentaneamente il pasto, sono le riflessioni di David Watkins sulla natura delle funzioni corporee, intimamente scisse tra controllo e rilascio, tra l’appagamento immediato di un bisogno e l’accomodamento a una norma sociale. Segue il cut-up di Perozzi, in cui si susseguono frasi sottratte a dei commensali, scampoli di ricette di cucina, memorie biografiche e stralci di testi scientifici legati all’alimentazione, in un montaggio che ci invita all’assimilazione di una frammentata moltitudine di differenti prospettive attraverso cui indagare il nostro rapporto col nutrimento. Muni presenta un’intervista (im)possibile con lo psichiatra e antropologo Frantz Fanon, indagando le tematiche della fame, della violenza e della decolonizzazione attraverso il collage di alcuni passaggi tratti da I dannati della terra. Il testo di Sbordoni prende in esame il concetto di croccantezza attraverso una breve storia culturale delle patatine fritte, guidandoci poi in una serie di suggestioni che spaziano dal rapporto tra fame e volontà di potenza nietzscheana alla tecnicizzazione della produzione degli alimenti industriali. De Angelis ci offre uno sguardo sulla storia dei videogiochi costruiti attorno all’obiettivo – più o meno esplicito – di mangiare e di nutrirsi, da Pac-Man ai videogame da smart-phone come Candy Crush.

Nell’ultima sezione di testi Coppi prende in esame il prodotto vegano The Filet, realizzato attraverso la stampa 3D e replicante per forma e sapore la carne di salmone, proponendo alcune riflessioni sul rapporto tra processi culturali e paure alimentari. Barusso approfondisce il tema della fame e della sua impellenza attraverso le discordi rappresentazioni di Saturno che divora i propri figli nelle opere pittoriche di Francisco Goya e Peter Paul Rubens. Come contrappunto alle riflessioni sulla spaventosa e coatta “fame” della divinità, troviamo le riflessioni di Del Corso sul rapporto tra spettacolo e digiuno nel racconto Un artista della fame di Franz Kafka. Il numero si conclude con un’inedita traduzione (a opera di Corsunov e Muni) del racconto breve Salute to Spring (1940) di Meridel Le Sueur, scrittrice americana anarchica e femminista che ha raccontato dal di dentro la vita delle famiglie operaie e contadine durante la crisi economica degli anni ’30.

Buon appetito!

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