Felici, consumatori e sfruttati

Quarto statoRuben Salerno: L’altra sera alla “Gabbia” discutevano di Jobs Act e, come spesso accade, si è finito per parlare di sfruttatori e sfruttati. Colma d’ottimismo la Vicepresidente della regione Emilia-Romagna (rossa, in teoria) ha sostenuto le Start-up come ricetta alla crisi. Evviva l’uomo-impresa! Il giovane che si inventa padrone di se stesso e si fa azienda. Grazie a una “vision”, crea una “mission” e piazza il suo “product” nel “place” giusto facendo lievitare il “price”. Proprio in virtù di questa nuova forma di capitalismo ho deciso di sfidarti, mio caro Davide. Questo mutante che da qualche anno scorazza per il mondo, sfruttando la velocità e i mezzi di internet, ha dato un colpo di spugna all’annoso dualismo padrone-lavoratore. Non c’è sfruttato se homo artifex suae quisque fortunae, con buona pace dei sindacati e di coloro che tutt’ora levano gli scudi in nome del salario, del tempo libero e contro lo sfruttamento del povero lavoratore indifeso.

La legge universale di tutti i mercati si basa sul dualismo domanda-offerta e nasce da un’interpretazione darwiniana del commercio: sopravvive il più adatto, ovvero chi riesce a produrre prima, meglio e al minor costo “il bene necessario”, rivendendolo a un prezzo maggiore e guadagnando dalla differenza tra il primo e il secondo passaggio. Su questa base hanno campato ciabattini, bottegai e artigiani di ogni epoca. Nessuno si considerava una start-up ma il concetto era lo stesso: il lavoro non era che la vita stessa ed era l’unica via per garantire un pasto caldo al giorno per sé o per la famiglia (a sua volta impiegata nell’attività propria o di altri). Mercato locale, produzione per lo più di beni di sussistenza o arte. Questa legge però si è complicata quando il bene necessario è mutato in “bene di consumo” ed il tempo del lavoro è stato diviso da quello libero, dedicato per l’appunto all’acquisto e al consumo dei beni prodotti. Anche su questo fondamentale imbroglio si sono basati gli ultimi due secoli di sfruttamenti, lotte sociali, conquiste e guerre, scioperi e assemblee. Ma adesso? Non ci sarebbe operaio né catena di montaggio se non ci fosse la necessità di produrre su scala industriale. L’individuo non si aliena più attraverso il lavoro ma con tutto quello che spende per avere più visualizzazioni e informazioni condivise. Così fa straordinarî se è dipendente, non si ferma se è imprenditore e brucia e produce a ciclo continuo, finché la distinzione si annulla. Il mercato, pur cambiando, sta ritornando alle origini ed ha riportato il tempo del lavoro alla sua dimensione primitiva, totalizzante e globale. Si tratta di capire se la difesa dell’essere umano voglia trovare in questa realtà rinnovata diversi codici espressivi o se, insistendo nell’attaccare il cattivo padrone che opprime il debole operaio, sarà spazzata via.

Davide Pittioni: Non mi sembra corretto parlare di imbroglio. È del tutto naturale che una società si evolva e trasformi i suoi paradigmi produttivi. Non lo fa certo in maniera indolore: ci sono stati e ci sono ancora (anche se lo si nega in nome di una presunta pacificazione) conflitti, lotte, insubordinazioni. Cosa c’è di strano nell’ammettere che le lotte operaie hanno portato, tra le tante cose, a ridurre il tempo di lavoro in favore del tempo libero? Non c’è nessuna menzogna, ma la semplice riappropriazione di tempo, la conquista di uno spazio su cui oggi sempre più prepotentemente si esercita una pressione per ri-sottometterlo alla valorizzazione capitalistica. Ma non si tratta di una parentesi della storia, che poi ripiegandosi su se stessa ha ritrovato la sua “dimensione originaria”. Forse in questo caso è più utile mostrare le differenze, gli scarti che si sono prodotti. Non possiamo, per esempio, assumere “ciabattini, bottegai e artigiani di ogni epoca” come il centro produttivo, o riproduttivo dell’epoca feudale (forse nel tardo medioevo, in alcuni comuni, ma quante differenze, sotto quale molteplicità…). Vien difficile credere che quella che a prima vista sembra un’affermazione preliminare e non problematica – “la legge universale di tutti i mercati si basa sul dualismo domanda-offerta” – sia valida e estendibile ad ogni latitudine, geografica e temporale (Marx notò come la scienza economica – che definiva borghese – operasse attraverso la naturalizzazione delle sua categorie, cancellando la loro storicità…). Ci vuole un mercato – efficientissimo, sia mai – e ho seri dubbi che quello che oggi potremmo intendere per mercato sia esistito in altre epoche (e non si vada a cercare nel codice di Ammurabi il termine mercato, è traduzione, e i significati cambiano, hanno storia, come le società). Come conciliare allora mercato ed economia di sussistenza? O la schiavitù? Dov’è la domanda, dove l’offerta? L’altro giorno in televisione, in tutt’altro contesto, Salvini proclamava: “se c’era la schiavitù è perché c’erano gli schiavi”. Parallelamente, sembra che se c’è sfruttamento è perché c’è lo sfruttato. Lì, da sempre, che non aspetta altro che essere, appunto, sfruttato. “Son qui per questo!”, sembra abbia detto prima di firmare il contratto. Eccolo il contratto, questa terra di nessuno dove soggetti astratti di pari poteri si scambiano prestazioni lavorative contro salario. Questo è l’inghippo, la robinsonata, come la chiama Marx. Perché non si può astrarre dai rapporti di potere, o banalmente dalle asimmetrie: ancora Marx distingue tra i possessori della sola forza lavoro, in posizione subalterna, e i possessori dei mezzi di produzione. C’è lotta, conflitto tra gli interessi, gerarchia, e quindi faglie e increspature nel campo sociale, non certo uno spazio liscio dove si incontrano domanda e offerta. È vero che si tratta di confrontarsi con figure nuove del lavoro che superano la differenza “classica” tra padrone e lavoratore: il fatto è che queste – anziché eliminarle – rimodulano nuove forme dello sfruttamento, del comando, dell’assoggettamento. Da qui forse potremmo ripartire per cogliere quei mutamenti che indubbiamente hanno travolto le nostra società.

centro commerciale

Ruben: Non servirà risalire ad Hammurabi per dare una definizione di mercato, in particolare se pensiamo a ciò che può significare oggi. Hai presente quelle moltitudini di persone che ogni sabato pomeriggio invadono centri commerciali e fiere? Vagano in mezzo alle stesse vetrine e bancarelle da anni, indecisi sul come spendere i quattro soldi che hanno in tasca, gonfiandosi di gioia quando c’è la notte bianca, ovvero i negozi (sempre quelli) aperti qualche ora in più. Che dire dell’happy hour o dei regali di Natale? Quelle persone non sono crudeli banchieri o meschini industriali ma perlopiù operai, impiegati, stagisti, giovani squattrinati, le cosiddette vittime della crisi. Attori incoscienti di un sistema che si basa sulla soddisfazione dei loro bisogni, dalla produzione, allo stoccaggio, al trasporto e alla vendita. Altro che formichine dedite al sostentamento proprio e della famiglia! Ormai siamo di fronte a masse di cicale o, peggio, locuste insaziabili. Non ci sarebbero miniere di silicio in Liberia se gli Apple store non avessero code oceaniche ad ogni uscita di nuovi smartphone, tablet e via dicendo.
Chi decide che il caffè in Italia costa solo 1€? Migliaia di braccianti nei campi e altrettanti operai che, nelle fabbriche, polverizzano i chicchi e li inscatolano, centinaia di trasportatori che portano oltremare i conteiner su navi e camion, passati per porti dove decine di impiegati gestiscono i traffici. Per non parlare dei grossisti, della vendita e del barista che ti riempie la tazzina. Il tutto per uno striminzito euro, il tutto perché io, te e tutti loro, reputiamo sia il prezzo giusto. Poco importa se da questo dipende il loro salario, la qualità dei macchinari che adoperano e dell’aria che respiriamo. Ecco il mercato, ecco l’ambita democrazia! Ecco la dittatura dei molti sui pochi. Il consumatore determina le scelte del capitalista, non viceversa, ovvero il servo comanda al padrone. Ora ti chiedo: dove sono le vittime e quali i carnefici?

Davide: Serve citare i soliti dati sulla distribuzione delle ricchezze? Come spiega Thomas Piketty nel suo ultimo libro, c’è una tendenza in atto che in quanto a numeri e statistiche ci sta riportando al capitalismo ottocentesco: aumento del rapporto tra capitale e reddito, incremento della rendita da capitale in misura superiore alla crescita economica, concentrazione dei patrimoni, peso sempre maggiore dell’eredità. Allora da che parte mettiamo le vittime, da quale i carnefici? Tratteggi un quadro da carnevale dei consumi, che è vero, ma confonde notevolmente l’insieme. Perché arrivare a dire che è il servo a comandare il padrone significa mettere il mondo con le gambe all’aria. Certo, la produzione si adatta ai mercati, diventa sempre più flessibile, elastica, per aderire alle più piccole oscillazioni della domanda: non è però una tenera concessione, ma un raffinamento delle tecniche produttive (cos’è la precarietà del lavoro se non un’esigenza di utilizzazione just in time della forza lavoro? Libertà? Per chi? Chi ne dispone veramente?).
Parliamo allora dello Smartphone. Questa merce-feticcio che dalle vetrine dei negozi oscura ciò che gli sta alle spalle: la sua storia produttiva, i rapporti di produzione che la creano in una piramide di sfruttamento. Il punto non è l’oggetto (io uno smartphone lo possiedo), ma la relazione di quell’oggetto, e cioè alla fine la distribuzione interna della ricchezza che produce, lo sfruttamento dei minatori della Liberia, degli operai della Foxconn (in condizioni fordiste, se non schiaviste, tra l’altro; qualche anno fa ci fu un’ondata di suicidi nelle fabbriche della Foxconn: l’azienda rispose montando delle reti…). E girando per quei centri commerciali, su questo concordo, finiremo per sbattere contro degli schermi, rappresentazioni di mondi sottosopra.

1 COMMENT

  1. mi è molto piaciuto il vostro dialogo, davvero. Credo che abbiate toccanto la questione politica cruciale di oggi: è nato prima l’uovo o la gallina? Viene prima il desiderio libero delle persone, o prima le logiche del capitale? Difficile rispondere.
    Quello che mi viene in mente è un verso di una canzone dei doors, in cui morrison canta “love has been lost, is that the reason for we’re trying so desperatly to be free”. E mi viene in mente il fatto che credo che in effetti sia vero che sia il desiderio libero dei singoli a creare il mercato, ma credo anche che questo desiderio “di mercato” sia una seconda scelta, un ripiego che proviene dall’impoverimento e la mercificazione spaventosi dei nostri rapporti umani, il quale a sua volta è senz’altro un effetto dell’ultra-capitalismo, e contro cui ergiamo un presunto egoismo/individualismo che non solo non ci rende felici, ma ci fa stare proprio male, al punto tale che inizio a sospettare che l’individualismo e l’egoismo siano una perversa forma di autopunzione per non essere in grado, né degni, d’amore.
    Forse è una posizione un po’estrema, ma credo che questo meccanismo diverrà sempre più evidente.
    Ancora complimenti a entrambi per il bellissimo spunto critico.

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