di Massimo Avella
Food for profit è un documentario realizzato da Giulia Innocenzi e Pablo D’Ambrosi che mostra il collegamento tra industria della carne, lobby e potere politico. Nell’attuale sistema economico la produzione intensiva non è funzionale al sostentamento dei popoli, ma alla reiterazione ad infinitum del capitale. Tale modo di produzione alimentare ha come scopo del proprio operare tecnico-scientifico e socio-politico non l’aumento del benessere delle nazioni, ma l’aumento dei capitali a disposizione di organizzazioni private e multinazionali, ovvero di strutture autonome che hanno finalità completamente differenti rispetto a quelle che dovrebbero essere dei singoli Stati e delle loro leggi.
È in questa situazione che, però, si muove ormai gran parte della politica economica europea. Questa divergenza fondamentale di interessi tra multinazionali e i singoli Stati e le loro legislazioni particolari è senza dubbio uno dei grandi temi che emergono dal documentario. Il film rivela infatti come dei quattrocento miliardi di euro che in sette anni l’Europa ha destinato alle politiche agricole comuni (allo scopo, in teoria, di aiutare gli agricoltori e sostenere il loro reddito), la maggior parte finisca in realtà nelle casse di grandi gruppi industriali e in quelle degli allevamenti intensivi. Giulia Innocenzi si chiede che senso abbia pagare con le tasse dei contribuenti questo tipo di allevamenti, che costringe gli animali in condizioni penose, inquina l’ ambiente e, soprattutto, costituisce un pericolo per gli umani: sia a causa della bassa qualità del prodotto che viene messo sul mercato e sponsorizzato in maniera assillante, sia per il pericolo di future pandemie causate dalla condizione innaturale in cui versano gli animali e dal fenomeno dell’“antibiotico resistenza”.
La trama di Food for profit è basata sul lavoro di infiltrati che, riuscendo a farsi assumere in allevamenti intensivi in tutta Europa, riprendono tramite telecamere nascoste quel che accade all’interno degli stabilimenti. Ma il problema non riguarda soltanto i poveri animali, interessa parallelamente – quasi sempre – anche la condizione dei lavoratori stessi di tali industrie, costretti a portare a termine operazioni disumane, a rispettare tempi di lavoro assurdi, a lavorare in luoghi malsani e pericolosi per la salute loro e altrui con contratti spesso inesistenti o farlocchi. A Bruxelles, Paolo D’ Ambrosi riesce a portare con sé una telecamera nascosta proprio dove le decisioni vengono prese, raccogliendo informazioni che gettano una luce inquietante sul legame tra l’industria della carne, le lobby e il potere politico.
Il film-documentario ci pone indirettamente tre grandi temi:
1) Che idea di futuro possiamo immaginare, se non siamo in grado di modificare radicalmente il nostro sistema economico e sociale?
2) Come pensiamo la vita animale e l’ambiente? Nelle società a capitalismo avanzato tendiamo a considerare alcuni animali, cosiddetti “domestici”, come nostri simili, spesso addirittura come persone umane, come familiari o figli ai quali attribuiamo sentimenti e pensieri umani e verso i quali non accetteremmo mai alcuna forma di violenza, al di là di quella a cui inconsapevolmente li sottoponiamo umanizzandoli appunto e costringendoli a pratiche per loro stessi innaturali. Poi ci sono gli animali da allevamento, gli animali dei quali ci nutriamo e che consideriamo alla pari di oggetti, produttori e prodotti al tempo stesso: latte, uova, carni, e loro derivati. Gli animali stessi sono materiale biologico che può essere lavorato, trasformato e infine venduto sul mercato sotto forma di prodotto commestibile, il quale è quasi sempre reso appetitoso da immagini, iperboliche e fasulle, che stimolano impossibili e inappagabili desideri che spesso trascinano I soggetti fino alla consunzione, all’obesità, all’esplosione.
3) In questa concezione, che esplicita le sovrastrutture etiche del capitale libero, si innesta – oltre al problema della vita animale – quello della vita in genere quando questa viene ridotta a mero quid trasformabile, a mera disponibilità, a merce. In questo contesto l’animale diviene parte dell’unità di produzione, della catena di montaggio, diviene oggetto, passaggio, funzione, parte senza vita, senza alcuna importanza in sé e senza alcuna soggettività. Soltanto quando viene pensato così, come materia inerte, l’animale infatti può passare dal pascolo e dall’ovile alla fabbrica, allo sfruttamento intensivo che lo risoggettiva come carburante, materiale di consumo di un’ indefinita crescita economico-industriale.
Il documentario racconta, e dimostra, come gli allevamenti intensivi rappresentino la seconda causa di emissioni di CO2 nell’ atmosfera, determinando inoltre l’inquinamento massivo dei suoli, delle acque, oltre a profondi squilibri in già fragili ecosistemi. Il docufilm auspica e propone soluzioni immediate, quali lo stop ai finanziamenti pubblici per l’industria alimentare intensiva, il cambiamento delle abitudini alimentari dei cittadini-consumatori e l’introduzione della carne sintetica; strumenti questi che certamente avrebbero un impatto positivo e diminuirebbero le conseguenze di un tale fenomeno.
Food for profit si impone alla nostra coscienza come una sveglia che ci chiama a uscire da una certa sonnolenza, a riaverci dal quotidiano mormorio ideologico di un megafono sempre più metallico e balbuziente che portiamo ormai nel fondo dei nostri stomaci. Un megafono simile, troppo simile, a quelli che campeggiano negli smisurati capannoni dei grandi allevamenti dove senza sosta impartiscono ordini e scandiscono impossibili tempi di produzione.
*Immagine in copertina di Meriç Tuna (via Unsplash), qui il riferimento.