di Emanuela Golia
Negli Stati Uniti
Nell’ultimo trentennio del secolo scorso gli Stati Uniti d’America sono stati investiti da una radicale riforma sul piano della prevenzione e della repressione criminale.
Per più di cent’anni, infatti, si è creduto che lo Stato fosse l’unico organismo in grado di proteggere i cittadini dai “disagiati” e dai “socialmente pericolosi”. Il sistema penale statunitense poggia infatti sull’”assistenzialismo”, ossia sulla corrente di pensiero per la quale il criminale va sottoposto a un percorso riabilitativo personalizzato, che gli permetta un adeguato re-inserimento sociale una volta espiata la pena. La rieducazione carceraria, quindi, è intesa comunemente dalla moderna penalità statunitense come una forma di riabilitazione, reinserimento, che di fatto è il suo pane quotidiano.
Intorno alla metà degli anni settanta, in particolare dopo il rapporto del 1976 “Doing Justice: the Choice of Punishment – Report of the Commitee for the Study of Incarceration” di Von Hirsch, ci si è però resi conto che questo percorso ad hoc per ogni singolo condannato comportava la violazione del principio di eguaglianza, soprattutto perché il giudice – in questa prospettiva – godeva di ampia discrezionalità nel decidere quale trattamento applicare e quanta pena irrogare per ciascun reato commesso. Poteva accadere, infatti, che il giudice ritenesse l’omicida Tizio alla stregua dell’omicida Caio, sebbene le modalità di commissione del reato e le circostanze del caso concreto fossero diverse; così come poteva succedere, per converso, che il rapinatore Sempronio venisse “curato” in modo più “pesante” rispetto allo stupratore Mevio, sebbene il secondo reato potesse considerarsi “più truce” – e quindi più grave – del primo.
Andava infatti pian piano costituendosi parallelamente all’ “assistnezialismo” un nuovo filone di pensiero che sgretolava gradualmente il mito dello Stato sovrano capace di fungere da unico e autorevole “paladino della giustizia”, mentre si accentuava sempre più da un lato il “principio di proporzionalità” (cioè: ti condanno a una pena corrispondente alla gravità del reato commesso, quanto a tipologia ed intensità), e dall’altro la creazione di strumenti che permettessero di evitare il carcere (da intendersi come misura estrema) privilegiando metodi punitivi più lievi.
Questo intento riformista è stato però completamente stravolto a partire dagli anni Ottanta, nel concreto, con l’instaurazione in molti Stati federali e per alcune tipologie di reato (traffico di sostanze stupefacenti e detenzione illecita di armi da fuoco, in primis) di condanne a pene minime obbligatorie (le c.d. mandatory minimum prison sentencing).
Alla base di questa inversione di tendenza vi era l’aumento effettivamente vertiginoso del tasso di criminalità, che generava nella popolazione una crescente sensazione di paura, insicurezza, inquietudine e sfiducia nei confronti dello Stato, ritenuto inadeguato a proteggere e tutelare i cittadini. Le autorità governative, che non ci stavano ad ammettere le reali reali ragioni di questa esplosione di criminalità, hanno quindi incentivato una politica criminale repressiva e neutralizzante, “egregiamente” espressa con il ricorso smodato all’incarcerazione di massa e a sanzioni molto più pesanti in relazione a certi settori e contesti penali – sanzioni che fuoriuscivano dallo schema della proporzionalità.
Le nuove teorie criminologiche, che accompagnavano le diverse modalità con le quali il controllo sociale veniva – e viene tuttora – esercitato, interpretavano diversamente la figura del reo e del suo comportamento antigiuridico. “Vincente” era – ed è – l’idea di fondo dell’uomo malvagio, insensibile ed amorale, che dev’essere escluso dalla società e relegato ai margini del vivere comune, attraverso la repressione e la neutralizzazione.
Attualmente infatti sono proprio la repressione e la neutralizzazione gli strumenti che vanno per la maggiore, nonostante i dati empirici e le ricerche statistiche dimostrino come, in realtà, la loro efficacia sia alquanto ridotta e fomenti eccessivamente la preoccupazione e la paura di vivere in un ambiente pregno di malvagità, dove la criminalità è considerata una “minaccia mortale” da dover combattere con ogni mezzo.
La popolazione, angosciata dalla criminalità, chiede al governo sempre maggiore intransigenza (nel senso di un’effettiva, certa e severa applicazione della pena), e questa domanda stimola i partiti politici ad avanzare dei progetti di legge idonei a soddisfare le esigenze e le aspettative dell’opinione pubblica.
Si crea così un circolo vizioso per cui la severità penale viene utilizzata dalle fazioni politiche come esplicito veicolo di propaganda elettorale, in modo da compiacere l’opinione pubblica e tentare di ottenere il maggior numero di voti in sede elettorale.
In tal modo, però, la funzione della pena, nella sua accezione retributiva, è svuotata di significato, perché non fungerebbe più da giusta compensazione per il male arrecato, ma sembrerebbe avere soltanto uno scopo utilitaristico, volto ad ottenere un consenso popolare.
La misure penali repressive diventano allora delle risposte populiste dal tenore simbolicamente emotivo e catartico: il delinquente è considerato un emarginato pericoloso che dev’essere escluso e neutralizzato. Punto. La collettività potrebbe altrimenti subire delle ripercussioni negative non di poco conto. Allarme sociale → Panico e paura. → Intransigenza, severità. → Politiche. → Voto.
In Italia
Nonostante vi siano stati – e vi siano ancora oggi – dei tentativi di emulare la repressione tipica della giustizia statunitense, il nostro sistema penale poggia le sue fondamenta sul principio della rieducazione, costituzionalmente sancito all’art. 27, comma terzo, che trova attuazione nella disciplina dell’ordinamento penitenziario.
L’ordinamento penitenziario, che è preposto a eseguire la pena, è sostanzialmente intriso di rieducazione: le regole generali di tutela dei diritti dei detenuti, la decarcerizzazione (con il ricorso ad una vasta gamma di misure alternative alla prigione), l’uso incentivato della c.d. collaborazione di giustizia (per i delitti di mafia e simili), esprimono tutti la volontà del legislatore di considerare il detenuto o l’internato anzitutto un soggetto con propri diritti da difendere e tutelare, in grado di partecipare attivamente ad un percorso utile per un futuro reinserimento comunitario, una volta espiata la pena.
La decarcerizzazione, in particolare, è ottenibile anche attraverso l’instaurazione di procedimenti speciali che, a determinate condizioni, consentono di omettere alcune fasi del giudizio ordinario, riducendo di molto le lungaggini processuali e garantendo uno sconto di pena all’imputato.
Ma, tuttavia e a ben vedere, i procedimenti speciali non sono più utilizzati con lo scopo ultimo di rieducare il reo, ma sono ormai diventati strumenti di snellimento dei processi presi in carico dai tribunali, costantemente intasati di richieste giudiziarie.
Ecco allora che, poco virtuosamente, il principio rieducativo della pena cede il posto all’interesse pubblico di contrastare le lungaggini processuali; la sua funzione perde, nella prassi, quell’importanza teorica che un “principio” propriamente inteso solitamente riveste; svuotato nei suoi contenuti, sembra essere un baluardo della giustizia formalmente esistente, ma sostanzialmente ormai desueto.
Che fare (in Italia)?
Questi meccanismi, spesso, non vengono compresi dalla gente, che proprio per questo invoca pene più severe. Il legislatore ha spesso “oscillato” nei suoi interventi, alle volte repressivi e neutralizzanti, alle altre rieducativi e garantisti. Ma qual è il quadro d’insieme che ne deriva?
Ci troviamo in una situazione dove le autorità tentano di legiferare nella direzione di una maggiore repressione, per adattarsi alle esigenze della collettività (il cui senso comune è quasi sempre orientato ad una giustizia severa), sperando così di (ri)creare un vincolo di fiducia tra le istituzioni e la cittadinanza. Le stesse autorità però, al tempo stesso, devono fronteggiare le annose problematiche del sistema penale attualmente in vigore (tra le quali, ad esempio, le lungaggini processuali ed il sovraffollamento carcerario), e lo fanno proprio attraverso quegli strumenti (come i procedimenti speciali) che cozzano con la linea di durezza e repressione richiesta dalla collettività.
Emblematico è il caso del decreto svuota – carceri del 2014, ma anche dell’indulto del 2006 e dei procedimenti speciali penali che, appunto, risultano essere indici inequivocabili di una tendenza a voler porre in primo piano non tanto la giustizia in sé e per se stessa, quanto piuttosto un’utilità deflazionistica completamente scevra da qualsiasi connotato di etica e moralità.
Da questo punto di vista, quindi, le scelte delle autorità governative e del legislatore sembrano essere incongrue e contraddittorie: ciò ha generato una percezione di incertezza ed instabilità penale che si è progressivamente tradotta in un malcontento popolare ed in una perdita di fiducia globale nei confronti del sistema di giustizia operante nel nostro Paese.
Sarebbe necessaria una riforma italiana, sul piano del controllo sociale, che riuscisse non tanto ad amalgamare la repressione con la rieducazione, quanto a rendere la sanzione penale maggiormente effettiva dal punto di vista esecutivo, in modo da ricreare quel vincolo fiduciario che l’opinione pubblica aveva un tempo riposto nello Stato e che ormai sembra essersi spezzato generando sfiducia nei confronti delle istituzioni (e del “prossimo”).
Sarebbero forse da rivedere i presupposti di ammissibilità e applicabilità di certe misure alternative alla detenzione, dei procedimenti speciali e delle premialità che sono a vario titolo concesse al reo, restringendone forse la portata in alcuni casi eclatanti. Una maggiore “fermezza” esecutiva potrebbe effettivamente ridare credibilità ad un sistema che, pur se ispirato a un principio onorevole e imprescindibile qual è quello rieducativo, è stato ed è tuttora costantemente tacciato (in parte giustamente) di essere inadeguato nel garantire davvero una giustizia imparziale ed egualitaria.
Era 1988 e la foto d’introduzione,mi ricorda il brusco risveglio,era uguale. Era ancora il carcere vecchio. Ho letto,l’interessante articolo,fra Stati Uniti e L’italia: secondo te,è normale aspettare 5 anni per un appello con sentenza già decisa? Potremmo parlare di questo argomento per ore. Brava! Bel articolo. Ciao