E tu che fai nella vita? Sì, tu, che stai iniziando a sfogliare questa strana rivista: nella vita, che fai? Questa è probabilmente la domanda, la questione che – a tratti ironica e sibillina, a tratti angosciante e spiacevole – insiste di più in queste pagine. È proprio attraverso le tortuosità di questa domanda che si snoda il faticoso corpo a corpo critico (e collettivo) che abbiamo cercato di intavolare con l’abbruttente saldatura psicologica, ormai tristemente divenuta una specie di seconda natura, tra lavoro e identità, tra autoimprenditorialità e autostima. Una piccola battaglia culturale contro quel grottesco imperativo alla messa a frutto totale della propria vita, un imperativo di cui sicuramente uomini e donne di altre epoche (e chissà forse ancora qualcuno della nostra) avrebbero saputo ridere di gusto. “Viviamo per vivere, non per prepararci a vivere”, diceva il buon Pasternak, che certamente non avrebbe fatto molta strada nel mondo di oggi. E Marx, lui, che faceva nella vita? E le persone che giungono nel nostro paese fuggendo da guerre e povertà, prima, cosa facevano nella vita? E noi, che ci siamo impegnati a costruire questa rivista, che facciamo? Vite povere, vite precarie, sono le nostre, ci sono solo variazioni di precarietà. Anche la vita di un Salvini in fondo è precaria, e non c’è alcun bisogno di credere in dio per avere occhi abbastanza lucidi da distinguere in controluce la grande ala della morte fare democraticamente ombra a ogni vanità e a ogni sete di potere. Un’altra idea che troverai, strisciante, in questo fascicolo è che esiste un “come” del lavoro, del lavoro per come è oggi, che porta irresolubilmente dritti all’odio di sé. Un odio talmente profondo e nauseante che non può essere vissuto, assunto, percepito come tale dalle persone. Un odio che ha bisogno di essere proiettato nel fuori, sugli immigrati, o in alternativa e paradossalmente sui tanti che, soccombendo a questo risentimento, gli immigrati li odiano. È l’invidia, l’invidia di classe, che sotto nuovi nomi continua a essere il segreto motore della deriva, della vera e propria apocalisse, che il mondo occidentalizzato vive nella carne di ogni singolo lavoratore. Nella nostra, nella tua. Al punto tale che, forse, non è più lecito nemmeno sognare, credere, sperare, in un al di là di tutto questo. Uno scenario glaciale che ci conduce idealmente dal precedente numero, Distopie, a quello attuale, Fuori dal lavoro: la distopia realizzata di un mondo in cui non c’è niente, non c’è più vita, “fuori” dal lavoro; la stessa in cui sempre più persone restano invece letteralmente fuori dal lavoro, e soccombono. Un mondo in cui non speriamo più di poter cambiare le cose, in cui non sogniamo più che un giorno, dall’alto, qualcuno o qualcosa possa finalmente aprire un varco in questo vicolo cieco. Ma a volte i vicoli ciechi – è il loro unico pregio – insegnano, obbligano a imparare a muoversi nel buio, a respirare sott’acqua, anche se farsi crescere delle branchie è, e sarà, doloroso. Così come sarà difficile, e spesso deludente, imparare a riconoscersi a naso, pelle contro pelle. In questo numero leggerai molte voci di denuncia, ascolterai le condizioni disastrose, umane ed economiche, in cui versano lavoratori di tutte le categorie e di tutti i ceti: operai, impiegati, lavoratori intellettuali, stagionali, piccoli imprenditori. Un ritratto lucido, un mosaico impietoso e raccontato dal di dentro dello sfacelo in cui versa il mondo del lavoro. Ma, diciamocelo, se fosse tutto qui la cosa non sarebbe poi così interessante. Oltre a questo leggerai in filigrana anche la lucida certezza che non c’è nessun dio, nessun partito, nessuna ideologia, che possa ascoltare e dare giustizia a questa denuncia, nessun al di là in grado di portarle aiuto o redenzione. C’è solo, ed è già molto, il formarsi di una silenziosa agrodolce consapevolezza: tutti questi pezzi di specchio rotto, questi tasselli irricomponibili di vite alla deriva e precarie, possono, devono e vogliono unirsi, saldarsi in un “noi” che non esiste ancora, ma che – sotto le macerie di una cultura e di una società ormai in avanzato stato di decomposizione – iniziano lentamente ad aggregarsi, come molecole di una nuova forma di vita. Uno strano ibrido, un nuovo “noi” a cui faticosamente, dolorosamente stanno spuntando le branchie, che sta imparando a respirare sott’acqua, a muoversi nel buio. A stare nel vuoto, nel vuoto per mano. Un “noi” di cui forse, chissà, senza saperlo fai già parte anche tu.
In questo numero campeggia sicuramente una questione: l’identità come effetto di lavoro. Troviamo quindi Plesnizer interrogarsi sul lavoro e l’attività generica, Moretti che a partire dal dirty care, la cura (il lavoro di cura) e il suo risvolto violento, getta uno sguardo sulle schiere di intere generazioni iperformate, che nel rimettersi a studiare vedono un nuovo giro di giostra, nella speranza di poter svolgere il mestiere per cui hanno studiato. Similmente sulla questione scrive Tieri, in un testo ibrido che parte dal vissuto di un telelavoratore: il lavoro culturale – attraverso Teoria della classe disagiata di Ventura – è l’investimento dopato (quanto costa un master?) che nasconde un gigantesco fenomeno di declassamento ritardato. Forse abbiamo investito troppo sul lavoro, identificandoci con esso? E c’è ancora una classe, un soggetto che possa ridefinire il lavoro e le sue condizioni? Tentativi di abbozzare una via di fuga da questa identificazione totale col lavoro sono compiute da Zeper, che dalle contraddizioni dell’etica del lavoro con l’arte ricerca una frugalità del far bene, nelle aspirazioni materiali di coltivare una vocazione più intima, meno alienata rispetto a quanto ci viene dettato socialmente; e Watkins che dalla consueta richiesta del “tu che fai?” prova a condurci alla risposta di un dolce far niente. Nel mezzo, le incursioni di Trevisano, che ci spiazza raccontando di un episodio di corruzione dal basso – tanto per sbarazzare il campo da visioni idilliache del lavoratore integerrimo – e Salerno con un racconto breve su un fugace incontro tra lavoratori atipici. Per la sezione Camera Oscura, il fotografo Giulio Magnifico ci conduce negli spazi “fuori dal lavoro” per eccellenza, le frasche friulane. Mentre per le recensioni cinematografiche, Ruzzier dall’ultima edizione del Festival del Cinema di Berlino getta uno sguardo su alcuni recenti produzioni che raccontano il mondo della mafia e delle periferie, luoghi dove il lavoro “legale” è spesso assente. Lettig recensisce Robledo di Daniele Zito, un’ucronia verosimile che ci permette di interrogarci sui ghost workers, che in qualche modo già siamo. Muni, invece, pone la questione della produzione di soggettività nel lavoro, nella china che conduce dallo sfruttamento all’auto-sfruttamento. Qui, dove troviamo frammentazione della classe, competizione e concorrenza, la proposta teorico-politica della perdita ci offre un atto di sovranità per non cedere alla logica neo-liberale, in un vero gesto di amicizia. Nava e Selan, infine, tracciano una panoramica sulla poesia dedicata all’esperienza lavorativa: la fabbrica odierna, le mani dell’operaio, il lavoro che “te struca”, la catena di montaggio, il panorama cementificato e industrializzato (in un diventare “tochi”), mentre avanzano nuove generazioni successive affacciate sulle precarizzazione, le agenzie interinali, la solitudine. Chiude il fascicolo il lungo pezzo di Brion, con il quale l’autrice ha analizzato i dispositivi che escludono i migranti “irregolari” – i nuovi working poor – dal mercato del lavoro, relegandoli all’illegalità e col rischio della carcerazione. C’è un che di malinconico tra le righe di questo numero. Non è risentimento, non è accettazione, è un senso diverso che ci restituisce un mondo sospeso tra vecchie categorie e nuovi orizzonti di cui ancora non vediamo i contorni. È un’esperienza nuova che chiamiamo ancora lavoro.