Giro di vi(s)te. Frammenti di un corpo (quasi) nudo [II]

di Davide Belgradi

Sul voyeurismo – secondo frammento: un cannocchiale puntato su di te

Nella puntata precedente abbiamo imparato che un osservatore si può togliere dal suo posto di osservazione senza che lo sguardo voyeuristico cessi di esistere. Ma ancora, abbiamo scoperto che un voyeur può essere a propria volta osservato, che non è immune alla ‘reversibilità’. Su questa parola si era passati in sorvolo ma ci si deve fermare un attimo e spiegarla meglio, forse la si deve mettere come titolo di questo episodio. Ecco, così: 

r e v e r s i b i l i t à

Abbiamo appena deciso che l’oggetto del secondo fotogramma sarete voi o, per meglio dire, un teleobiettivo o un cannocchiale puntato su di voi che vi fa un certo effetto

Figura 3. Particolare di Rear Window di Hitchcock (1954)

Ma quale effetto in concreto? Senza dubbio succede qualcosa quando si scopre su di sé uno sguardo, e questo qualcosa non è neutro. Anzi sarebbe meglio dire che accadono almeno due cose, si scatenano almeno due sentimenti: la vergogna e la paura (o il senso di vulnerabilità). Questa volta si parlerà soltanto di vergogna, rimandando la questione della paura a un prossimo episodio.

Se non avete letto Lacan, di reversibilità ne avrete sentito parlare a proposito della pensione. Quando un congiunto muore l’INPS garantisce la ‘pensione di reversibilità’ ovvero, cito, «un sostegno finanziario dedicato ai superstiti di un pensionato o di un lavoratore deceduto». C’è chi ci può anche sopravvivere con una pensione di reversibilità, anche se magari non lo confessa perché ne prova (giustificata/ingiustificata) vergogna. Quindi: possiamo forse dire che la reversibilità ha un certo rapporto con la morte e che questa morte si rovescia in qualche modo su chi è vivo? E possiamo forse dire che questo rovesciamento fa stare al mondo chi lo subisce, anche se magari con un po’ di vergogna? A dire il vero non credo, ma diciamolo lo stesso perché ci fa gioco. Per dire qualcosa di più però è meglio farsi da parte e lasciar la parola a chi è più competente.

Di voyeurismo e di reversibilità ha parlato mirabilmente Calvino che, ne Le cosmicomiche, fa iniziare un suo racconto proprio così (cito da Romanzi e racconti, vol. II, Milano, Mondadori, 1994):

Una notte osservavo come al solito il cielo col mio telescopio. Notai che da una galassia lontana cento milioni d’anni-luce sporgeva un cartello. C’era scritto: TI HO VISTO. Feci rapidamente il calcolo: la luce della galassia aveva impiegato cento milioni d’anni a raggiungermi e siccome di lassù vedevano quello che succedeva qui con cento milioni d’anni di ritardo, il momento in cui mi avevano visto doveva risalire a duecento milioni d’anni fa. […]

Proprio duecento milioni d’anni prima, né un giorno di più né un giorno di meno, m’era successo qualcosa che avevo sempre cercato di nascondere. Speravo che col tempo l’episodio fosse completamente dimenticato; esso contrastava nettamente – almeno così mi sembrava – con il mio comportamento abituale di prima e di dopo tale data […]. Ecco invece che da un lontano corpo celeste qualcuno mi aveva visto e la storia tornava a saltar fuori proprio ora

L’incipit del racconto ci dà tutti i dettagli: il protagonista, che si chiama Qfwfq, è innanzitutto un osservatore, un voyeur, qualcuno che passa le sue giornate senza tempo a scrutare galassie distanti milioni di anni-luce. La possibilità di dilatare lo sguardo nel tempo in una finzione narrativa, che consente di saggiare lo sviluppo dell’atto voyeuristico nelle vite immortali di questi esseri, è affascinante, e suggerisce immediatamente a Calvino di rovesciare lo sguardo e l’ipotesi di partenza. E se come io guardo gli altri, si e ci chiede, improvvisamente gli altri guardassero me? Se col mio cannocchiale vedessi un cannocchiale che mi scruta? O ancora, se vedessi un cartello apposto lì qualche tempo prima da qualcuno che mi ha visto? Cosa succederebbe in quel caso, soprattutto se ci fosse questa incolmabile distanza tra l’atto di osservazione e il compimento dell’azione osservata, tra il me-visto, che ha agito da osservato inconsapevole, e il me-osservatore, che 200 milioni di anni-luce dopo si scopre guardato? Non c’è alcun dubbio: proverei un’enorme vergogna, una vergogna anche ben giustificata perché mi avete visto non in un momento qualunque, ma proprio in quello: andavano bene tutti e no, proprio in quel maledetto momento in cui tutto avrei voluto tranne che qualcuno mi vedesse. Io stesso mi vergogno di quel momento cosa credete? Non sono così, non sono fatto così e non sono quel tipo di persona lì, io, ma in quella circostanza (che non mi rappresenta) certamente non ho dato a vedere il meglio di me. È facile farsi un’idea sbagliata della persona che sono se mi associate a quella circostanza che io non sono.

Però basta giustificarsi. Mi devo solo spiegare, chiarire le circostanze di questo malinteso. Infatti,

ero in grado di spiegare tutto quel che era successo, e come era potuto succedere, e di rendere comprensibile, se non del tutto giustificabile, il mio modo d’agire. Pensai di rispondere subito anch’io con un cartello, impiegando una formula difensiva come LASCIATE CHE VI SPIEGHI oppure AVREI VOLUTO VEDERE VOI AL MIO POSTO

Funzionerà? A volte a giustificarsi si fa peggio che a fare il male, basta vedere cosa è capitato alla Ferragni per il pandora-gate: ci ha sempre lasciato vedere nella sua vita ma quel dettaglio invece no, non lo avremmo dovuto vedere. Inutile anche dire che, senza dubbio, io non potrei essere invitato per un’intervista riparatoria da Fabio Fazio e approfittare della sua passività intellettuale. Me la dovrei cavare da solo. 

Certo però… bisogna anche pensare che, tutto sommato… m’ha visto lì, uno, magari un cretino; ma me ne frega davvero di cosa pensa lui? Chi lo conosce poi? Chi gli dà retta? Solo che

dopo due notti mi accorsi che anche su una galassia distante cento milioni d’anni e un giorno-luce avevano messo il cartello TI HO VISTO. Non c’era dubbio che anche loro si riferivano a quella volta là: ciò che io avevo sempre cercato di nascondere era stato scoperto non da un corpo celeste solamente ma anche da un altro, situato in tutt’altra zona dello spazio. E da altri ancora: nelle notti che seguirono continuai a vedere nuovi cartelli col TI HO VISTO innalzarsi da sempre nuove costellazioni. Calcolando gli anni-luce risultava che la volta che m’avevano visto era sempre quella

Ok c’è un problema: mi hanno visto. Mi avete visto. In quanti mi avete visto? Ma non avete altro da fare? Non me la prendo perché mi guardate, per carità, pure io guardo, ma capiamoci: quello non sono io, detesto che mi associate a quella versione di me che io non sono.

Tutto questo è ciò che, forse, penseremmo se noi oggi fossimo Qfwfq. Ma lasciamolo ai suoi problemi e usciamo dall’appiccicosa orbita della sua coscienza: se c’è qualcosa di confortante è scoprire che una vergogna non è tua ma è d’altri. La vergogna d’altri noi non la potremmo mai provare perché è legata a un’azione che noi non avremmo mai commesso. E quando invece la proviamo (i più giovani dicono ‘cringiare’), ci vergogniamo per gli altri perché qualcosa in loro fa sì che ci mettiamo nei loro panni, ci vediamo visti mentre ci ricopriamo di vergogna come loro stanno facendo di fronte ai nostri occhi. Ma questo non è ciò che sta accadendo ora, e dunque per fortuna non avete visto me ma lui (sostiene che non era lui ma era lui, diciamocelo). Prendiamo le distanze e che ogni lettore scopra da sé l’epilogo calviniano; noi piuttosto abbandoniamo Qfwfq al suo destino misero e giudichiamolo. 

Infatti, cosa c’è dietro alla vergogna che sta provando Qfwfq, cosa c’è davvero dietro a quel gesto voyeuristico che lui vede rovesciato su di sé? Ci abbiamo girato intorno con un pizzico di ironia ma la questione si è rivelata addirittura vitale; in qualche modo qui c’è in gioco la sopravvivenza del soggetto o, meglio, la sua possibilità di decidere se aderire o meno con quell’idea di sé che gli altri si possono fare. Qui le parole più puntuali sono quelle di Sartre, che ne L’essere e il nulla dice con chiarezza che la vergogna «è vergogna di , è riconoscimento del fatto che sono, per l’appunto, l’oggetto che altri guarda e giudica. […] Io sono, al di là di qualsiasi conoscenza, quel me che un altro conosce».

In altre parole, ciò che scatena il sentimento di vergogna nel racconto di Calvino è il fatto che, continuando con le categorie di Sartre, lo sguardo di cui il cartello è manifestazione scoperchia nel protagonista una distanza tra il suo ‘essere per-sé’ e il suo ‘essere per-altri’. L’azione incriminata, quella meritevole di biasimo e che causa il sentimento di vergogna, fintanto che non è vista da qualcuno permette a Qfwfq di esistere e stare al mondo come un semplice ‘per-sé’. È un’azione che si attua all’interno di una significazione puramente riflessiva, perché il mondo dell’essere-per-sé è quello della coscienza del soggetto e finché l’azione rimane relegata in quel mondo, colui che la compie non deve dare alcuna spiegazione del suo gesto. Non è tanto l’azione a provocare la vergogna, allora, perché se avviene prima di essere scoperti (e in tal senso pochi secondi prima o duecento milioni di anni-luce non fanno differenza), in assenza dello sguardo di un Altro la coscienza che di sé ha il soggetto non è conosciuta: non è dotata di un esterno. È lo sguardo dell’Altro ad appiccicarci addosso un esterno. Fintanto che chi agisce non è visto, il soggetto aderisce totalmente all’azione senza che sia necessaria alcuna giustificazione.

A questo punto però torniamo a volgere il nostro telescopio sulla galassia lontana in cui vive il povero Qfwfq. Volevamo giudicarlo a distanza ma abbiamo l’opportunità di chiudere il cerchio. Dopo tutto l’abbiamo osservato fino ad adesso perché, in quanto suoi lettori, siamo i suoi primi sorveglianti; sappiamo che da qualche parte e a una certa distanza di anni-luce ci starà osservando nell’atto di osservarlo. La vergogna che gli ha fatto guadagnare il primo cartello, prima o poi, verrà eclissata. La crescente distanza tra i pianeti porterà lontano lui e i suoi osservatori, ovvero lui e la sua vergogna, ma noi possiamo replicare lo schema: possiamo rilanciare il voyeurismo. Ci basta preparargli a nostra volta un cartello:

t i  a b b i a m o  v i s t o:

s a p p i a m o  c o s a  h a i  f a t t o

e,  dunque,

s a p p i a m o  c h i  s e i

– c h e  t u  l o  v o g l i a  o  m e n o –

***

Quello che con questo frammento si voleva mettere in luce, è che il fenomeno voyeuristico può convivere con un atto di reversibilità. 

Nel primo episodio di questa rubrica abbiamo insistito sul fatto che intorno all’atto voyeuristico non ci sono necessariamente due attori: un osservatore e un osservato. Può anche capitare che lo sguardo ci sia, ma che il voyeur non sia fisicamente presente. Il Panopticon ci ha offerto un esempio architettonico calzante, ma in fondo che cos’è il cartello di Qfwfq se non uno sguardo panottico con una carica retroattiva? Uno sguardo sospeso da qualche parte del mondo che a un certo punto giunge a destinazione? Uno sguardo che appare dal nulla e che condiziona tutti gli atteggiamenti del protagonista da quel momento in avanti?

Con questo frammento però diciamo qualcosa in più, e cioè che non soltanto ci possiamo disfare di uno dei due attori, ma possiamo anche ipotizzare che i ruoli divengano interscambiabili. Che chi ha sempre indossato i panni di voyeur debba cambiare vestiti. Questo repentino cambio di prospettive ci mostra il voyeur che fa esperienza del voyeurismo dalla parte della passività, scoprendo cosa può scatenare la lente di un telescopio sulla sua persona: un sentimento di paura, di cui abbiamo rimandato la discussione, ma anche un sentimento di vergogna; vergogna dovuta al fatto che, quando siamo scrutati a nostra insaputa, magari l’Altro cattura di noi un esterno che non è quello che vorremmo dargli in pasto.

Insomma: la vergogna non è vergogna di qualcosa, ma vergogna di sé di fronte a qualcuno. Inoltre, ciò che il racconto ci mostra è che questo sentimento può avere una carica retroattiva, come anche lo sguardo voyeuristico. Forse non l’avremmo mai immaginato, e la verità è che non credevamo che un voyeur potesse guardare tanto indietro. Ci va cautela nell’essere visti.

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