Giro di vi(s)te. Frammenti di un corpo (quasi) nudo [I]

di Davide Belgradi

Sul voyeurismo – premessa

Che cos’è il voyeurismo? E perché può avere senso studiarlo? Perché, soprattutto, lo sto studiando io? Me lo sono chiesto per più di tre anni.

Chiunque abbia un po’ di dimestichezza con il mondo accademico sa bene che, prima o poi, ci si trova a dover mettere in qualche tabella l’elenco puntato dei propri risultati. Si chiamano proprio così: ‘prodotti della ricerca’. E lo si fa anche con cura: si impara a compartimentare lì dentro tutto ciò che è venuto fuori da uno sforzo intellettuale, da un lavoro. Sì perché, come diceva Gramsci (Quaderno 12: 1549),

occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza.

Come ogni abito acquisito con lo sforzo, l’importante è imparare a dismetterlo. Ricordarsi di non stringere troppo la cravatta al collo, di slacciare i bottoni dei polsini quando si arriva a casa. Queste righe partono dalla convinzione personale, e forse sbagliata, che in fondo i ‘prodotti della ricerca’ non servano a niente se non a trovare dei lettori a cui affidare, più che le conclusioni, i nostri interrogativi di partenza; dalla certezza – o dalla speranza – che la bontà di un lavoro stia nel metodo con cui si dà forma a un’ossessione, non nei risultati; dalla volontà di seguire un pensiero erotico e non autoerotico, che crei godimento a un Altro, non esclusivo autocompiacimento.

Fatta questa premessa, si deve tornare al punto. Che cos’è il voyeurismo? E perché può avere ancora senso studiarlo? Sono due domande enormi. Ma perché rispondere quando lo si può mostrare? Stiamo parlando di sguardo, alla fine. 

Quello che segue è, dunque, un percorso a tappe: a ogni tappa ci sarà un’immagine, quasi un fotogramma, che immortala qualcosa del voyeurismo. Qualcosa, non tutto. Mettendo insieme tutti i fotogrammi si otterrà un ritratto parziale ma in movimento di ciò che, globalmente, si può definire ‘voyeurismo’.

Insomma: si sta pur sempre parlando di voyeurismo, quale ingenuità sarebbe voler vedere un corpo nudo, senza la tenda che gli sta di fronte. 

Sul voyeurismo – primo frammento: sguardo dentro e sguardo fuori

Figura 1: Panopticon (Carcere di Santo Stefano)

Il primo frammento ha già la forma di una contraddizione in termini, perché è duplice. È opinione diffusa che, per parlare di voyeurismo, siano necessari almeno due attori: uno che guarda e uno che è guardato. Ma ne siamo davvero certi? C’è sempre qualcuno che guarda e qualcuno che è guardato? Non staremo cadendo nel fraintendimento di credere che uno dei possibili esiti del voyeurismo descriva l’architettura del fenomeno? Forse è proprio l’idea di ‘architettura’ che ci può soccorrere.

Il carcere di Santo Stefano (Figura 1), edificato nel 1795, è stato uno dei primi penitenziari costruiti secondo il modello del Panopticon proposto da Jeremy Bentham nel 1787. Il modello è noto: il principio di costruzione prevede una struttura circolare, occupata ai lati dalle celle di detenzione, e al cui centro viene posta una torre di sorveglianza. Ogni cella sarà abitata da un singolo detenuto, mentre nella torre di guardia sarà sufficiente un solo sorvegliante. Ciò che però rende speciale questa struttura architettonica, è che essa permette una razionale ed economica organizzazione del potere grazie a una minuziosa gestione dei diversi principi di visibilità. Il Panopticon è un perfetto esempio di un’architettura al 100% voyeuristica, si può dire che nasca per garantire (se non soddisfare) il voyeurismo. Infatti, nel disegno di Bentham la struttura panottica è pensata come uno spazio di visibilità asimmetrica: grazie a un preciso insieme di muri, barriere, e punti di illuminazione (che proiettano l’ombra di ogni detenuto al di fuori della cella), il sorvegliante nella torre è in grado di osservare tutti senza poter essere visto da nessuno. In altre parole, è sufficiente lo sguardo di una singola persona, del tutto invisibile dalle celle, affinché ogni detenuto sia concretamente controllato. Ma non è tutto, possiamo spingerci oltre. Osserviamo una scena di nascosto:

Eccoci: siamo all’interno della cella, siamo riusciti a fabbricarci uno scalpello con un cucchiaio di metallo. Non possiamo comunicare con nessuno, nessuno ci può avvertire se faremo troppo rumore. Vorremmo scalpellare ma dovremmo essere silenziosi, perché Lui ci guarda e Lui ci sente. Dalla Sua torre può farlo, il muro ci impedisce di scorgerlo ma Lui ci scorge. Non possiamo sentirlo ma Lui ha un sistema di tubi grazie ai quali può sentirci. Se faremo troppo rumore Lui ci scoprirà. Il braccio che si alza e pugnala il muro proietterà un’ombra sospetta, Lui la vedrà. Forse anche adesso si sta accorgendo che il nostro corpo è titubante, immobile. Forse questa incongruenza con il nostro abituale modo di abitare la cella l’ha già insospettito. Forse sta venendo a prenderci, a picchiarci. Ci prenderà a manganellate. Cazzo, abbiamo questo fottuto cucchiaio in mano, e il Suo occhio addosso. Le sue pupille sono sulle nostre nocche. Non abbiamo via d’uscita. Siamo nudi.

Ci tocca fermarci un attimo, riavvolgere il tempo di qualche minuto e cambiare punto di osservazione:

Nella torre. Lo spazio è circolare, le feritoie ci permettono di stare seduti più o meno comodi al centro. Da qui possiamo vedere tutto, scorgiamo le ombre che ondeggiano sul piazzale, possiamo sentire i bisbigli di ogni cella. Basta un nostro gesto e qualcuno passerà da un corridoio e andrà a picchiare quei bastardi. C’è un sottile godimento nel guardarli immobili, in nostro potere. Più che il guardarli, fa godere che si sappiano guardati. Non possiamo osservarli tutti assieme, non ci basterebbero cento occhi, ma da qui siamo invisibili e ognuno di loro ha il nostro sguardo addosso. Certo è che, in ogni caso, alla lunga qui ci si annoia. Magari potremmo uscire un attimo, scendere nella stanza sotto e andare in bagno a leggere il giornale. Nessuno di loro se ne accorgerà. La nostra mano è sulla maniglia, la porta si apre, scendiamo una scala a chiocciola e abbandoniamo la postazione. Siamo lo sguardo che ancora li osserva. Siamo fuori. Siamo invisibili.

Ciò che rende perfetto il Panopticon, in altre parole, non è la presenza di un solo osservatore per tutti gli osservati. È la presenza del suo sguardo e del potere che esso veicola. Dell’osservatore possiamo fare  tranquillamente a meno. Non è difficile immaginare perché questa struttura architettonica abbia affascinato un pensatore come Foucault: si tratta di un «laboratorio di potere» (Foucault, Sorvegliare e punire: 222) che ha possibili applicazioni ben al di là di una struttura detentiva. Non a caso Bentham proponeva lo stesso principio anche per la costruzione di scuole, di ospedali, di manicomi, di fabbriche: di tutti quei luoghi nei quali l’individuo può essere controllato, gestito, intrappolato. Il voyeurismo diviene un’arma molto più potente del manganello, diventa un manganello potenziale che non ha bisogno di cadere sul cranio di un detenuto per funzionare. La torre non è altro che «un edificio trasparente dove l’esercizio del potere è controllabile dall’intera società» (Foucault, Sorvegliare e punire:226). È questo ciò che intende Bentham quando sostiene che il potere deve essere al contempo visibile e inverificabile, perché deve sempre porre di fronte agli occhi del detenuto il profilo imponente e soverchiante della torre d’osservazione, senza permettergli di stabilire se in un dato momento egli è effettivamente guardato: nel detenuto stesso deve nascere la percezione che lo sguardo su di sé sia costante e onnipresente.

Ora però cambiamo scenario e spostiamoci dal centro dell’Europa al Medioriente.

Figura 2: Mashrabiyya (Alhambra – Granada)

Mashrabiyya è il nome arabo di quel particolare dispositivo di ventilazione, tipico dell’architettura islamica, caratteristico delle finestre delle stanze in cui dimoravano le concubine di un Sultano, ma proprio anche di case ordinarie e non solo per le camere dedicate alle donne. Se ne vedono esempi meravigliosi in Siria, soprattutto a Damasco, meno annientata dalle bombe delle altre città storiche della regione, ma se ne possono scorgere esempi significativi ed esteticamente magnifici anche senza spingersi in terre così lontane. A Granada, nell’Alhambra, chi si inoltra tra le stanze parlanti di incisioni si ritroverà, prima di arrivare ai giardini, proprio nella corte interna del palazzo in cui il Sultano aveva fatto costruire le stanze per le concubine. Superato il colonnato, il visitatore si troverà in un chiostro sulla cui parete frontale, al primo piano, domina un magnifico esempio di mashrabiyya (Figura 2; la foto è scattata ovviamente dall’interno). Concretamente, una mashrabiyya non è altro che una finestra costituita da pannelli lignei disposti geometricamente in modo che l’inclinazione e la trama consentano sempre all’aria di filtrare ma ostacolando la bidirezionalità dello sguardo. Insomma: c’è sempre il passaggio della luce e dell’aria, ma solo da dentro si può vedere fuori, mentre da fuori non si può vedere dentro.

Questa struttura è quella che ispira quel tipo di persiane che, in italiano, assumono il nome parlante di ‘gelosia’, ma sono di questo tipo anche le ante tipiche di molti spogliatoi nei lidi di mare. Se la pensiamo applicata alla stanza delle concubine, l’architettura della mashrabiyya sembra rovesciare quella panottica: il sorvegliante e il suo sguardo pregno di potere stanno fuori e, dentro, per quanto invisibili, sono rinchiuse le donne sulle quali lui esercita un dominio maschile e sociale. Solo il Sultano può vedere le sue concubine, quella cecità di cui fa esperienza da fuori è per lui temporanea e serve a garantire soltanto che nessuna delle sue donne possa essere vista da altri uomini all’infuori di lui.

Eppure, la mashrabiyya non contraddice il Panopticon ma lo avvita: direbbe Merleau-Ponty che lo pone in un punto di torsione chiasmatica con se stesso. Infatti, se è pur vero che il potere sta fuori, nel chiostro in cui volteggia potente lo sguardo del Sultano, è anche vero che, finché lui sta nel chiostro e non entra nella camera, le sue concubine lo possono dominare invisibili (sarebbe meglio dire ‘potenziali’) con il loro sguardo.

Pare che i primi esempi di mashrabiyya risalgano al secolo XII e sorgano durante la dinastia abbasside nella zona di Baghdad, e sull’etimologia permane ad oggi qualche dubbio. La teoria più accreditata vuole che la parola si formi sulla radice del verbo shariba, ‘bere’, perché la particolare combinazione di ombra e ventilazione rende questa struttura perfetta per le stanze in cui si prende il tè. L’altra possibilità, molto meno probabile linguisticamente ma interessante per noi, è che invece la parola si formi sulla modificazione del verbo ashrafa: ‘osservare’.

Qualunque sia l’origine concreta del nome una cosa è certa: se Bentham fosse stato a Damasco, le pareti circolari (magari ottagonali) delle torri di sorveglianza sarebbero state delle mashrabiyyat, la torre di sorveglianza si sarebbe travestita da minareto. Ma allora, a quel punto, il passo sarebbe stato breve. A quel punto…

Nelle 21 lettere del Panopticon Bentham definisce nei dettagli (architettonici, economici, pragmatici) il funzionamento specifico della struttura panottica e tutti i suoi vantaggi. Come detto, le ultime lettere mostrano come tale struttura possa essere sfruttata anche per altri scopi: non solo le case di detenzione e i penitenziari, ma anche le case di correzione (Lettera 16), le prigioni per semplice custodia (Lettera 17), le fabbriche (Lettera 18), i manicomi (Lettera 19), gli ospedali (Lettera 20) e le scuole (Lettera 21). Il potere ha bisogno di avere molti occhi in molti luoghi. Ecco che, allora…

Lettera 22.

Chiese.

Tradisco ora la mia precedente lettera; avevo detto che avrei indicato come ultimo esempio di applicazione le strutture scolastiche, ma proprio mentre vi stavo inviando la missiva mi sono avveduto di un’applicazione ulteriore e, oserei dire, definitiva della struttura già in precedenza delineata. Le chiese.

Cosa sono, in fondo, le chiese? Luoghi di preghiera, luoghi di riunione, luoghi di educazione, e se pensiamo ad alcuni monasteri di clausura potremmo anche definirle come veri e propri ‘luoghi di detenzione’. Sono la stanza in cui ogni Dio fa il suo settimanale censimento. E cosa nuoce più di qualunque altra cosa alla fede se non un Dio cieco?

Converrete anche voi circa tutti i benefici che, volendo proprio persistere a non disgregare dall’interno questa cancerogena architettura conservativo-cattolica, deriverebbero dal renderla coerente con i suoi più reconditi intenti. Insomma: qualcuno prima o poi ucciderà Dio, ma qualcun altro dovrà anche dire che Dio non è morto finché persiste come inconscio, e se non possiamo ucciderlo del tutto perché non renderlo onnipotente? (A quest’altezza cronologica non so bene cosa sia un ‘inconscio’, ma il discorso pare chiaro.)

La chiesa perfetta, inutile negarlo, è quella che permette a ogni fedele di ricordarsi che è osservato. Un minareto, come quelli di cui vi ho fatto descrizione dopo il mio soggiorno a Damasco, sorgerebbe al centro di uno spiazzo ottagonale e, tutt’intorno, si potrebbero disporre, in celle separate, i fedeli. All’interno del minareto, alle cui pareti potremmo immaginare immense mashrabiyyat, avremmo un officiante in grado di verificare, simultaneamente e senza margine di errore, l’efficacia della preghiera di ognuno. Con un sistema di tubi potrebbe, a un tempo, sentire la corretta esecuzione dei salmi e redarguire o correggere gli errori.

Immaginate i benefici che avremmo a rendere a tal punto evidente l’onnipresenza inconscia dell’occhio di Dio. Tradirete vostra moglie? Dio vi vedrà. Ucciderete vostro fratello? Dio vi vedrà. Ruberete al vostro vicino? Dio vi vedrà. Non pregherete? Dio di vedrà. E se Dio anche si dovesse assentare, vi saprete visti. Se anche dovesse andare al bagno con un giornale, se anche… beh, il Suo sguardo sarà lì. Ecco che una Nazione massimamente fedele non sarà altro che una Nazione costruita con un sistema panottico ad alveare in grado di estendere a tappeto la pervasività dell’occhio di Dio fino a coprire il 100% dei confini terracquei.

[…]

Questa lettera è secondo alcuni un apocrifo, i maligni direbbero che me la sono inventata: io preferisco non esprimermi. A cosa ci può servire però? A dire che se il Panopticon è una struttura voyeuristica perfetta, la mashrabiyya è l’altrettanto perfetta parete della torre panottica. Non solo. Ci serve anche a renderci conto della questione più delicata: finché «Dio è inconscio» non è morto (Lacan, Seminario XI: 58), e finché non è morto è nella torre.

*** *** ***

Cosa ci dice del voyeurismo questo doppio primo frammento? Partiamo con la prima foto.

Il Panopticon ci dimostra che non serve un osservatore per vedere applicato un fenomeno voyeuristico: basta il suo sguardo, come ci ricorda Lacan (Seminario XI), e questo sguardo ha il potere di condizionare ogni nostro gesto e, prima ancora, ogni nostro pensiero. Lacan parla a questo proposito di una ‘schisi’, una separazione, tra il concetto di ‘occhio’ e quello di ‘sguardo’. Il voyeurismo, e il Panopticon ne è un chiaro esempio applicato, è un fenomeno dello sguardo: l’occhio può esserci ma non è essenziale. Inoltre, quello che già con l’esempio del Panopticon è chiaro, è che lo sguardo non è neutro, e lo sguardo voyeuristico può scoperchiare una sovrastruttura di potere estremamente complessa.

La mashrabiyya, invece, ci racconta anche qualcos’altro rispetto a quello di cui abbiamo parlato: ci dimostra infatti che il Panopticon può essere avvitato su se stesso. Infatti, da una parte essa è perfetta se pensata per la struttura panottica, e cioè per qualcuno che dall’interno di una torre si fa osservatore invisibile, facendo sì che chi sta fuori si senta obbligato a rispettare un codice comportamentale che ha interiorizzato e che quello sguardo su di sé gli rende inevitabile. Tuttavia, se pensiamo all’esempio delle concubine dell’Alhambra, è innegabile che il rapporto si rovescia: finché il Sultano è fuori dalle mura, il suo sguardo non può raggiungere le donne chiuse in camera, eppure gode di saperle lì negate al mondo tutto, fuorché a lui stesso. 

Si potrebbe dire che, se il caso del Panopticon fa sì che l’osservatore sia solo potenziale – eppure effettivo –, con la mashrabiyya è l’osservato ad essere potenziale – eppure effettivo –. Un rovesciamento del Panopticon, ma non una sua negazione. Infatti, lo sguardo voyeuristico convive con un concetto su cui si dovrà tornare in altri episodi: quello di ‘reversibilità’. Per quanto sia innegabile la posizione di potere del Sultano, finché lui è fuori non è soltanto il voyeur visibile di una donna invisibile, ma anche un uomo osservato.

L’ultimo lembo di carne che del voyeurismo si scopre con questa foto, è ormai autoevidente. La dicotomia tra ‘fuori’ e ‘dentro’, esattamente come quella tra ‘osservatore’ e ‘osservato’, è insufficiente. Lo sguardo voyeuristico può benissimo essere inconscio. Quello sguardo di Dio, o quello che Lacan chiamerebbe ‘lo sguardo del grande Altro’, è uno sguardo interiorizzato. È il sorvegliante interiore che si sa nascondere così bene all’interno del nostro corpo, da farci credere che non esista; da farci credere che Dio sia morto; da farci addirittura pensare di non essere soggetti alla sua Legge. 

Insomma, tutto quello che sembra utile dire è che il potere che ci osserva sa nascondersi bene. Lo possiamo contrastare solo scovandolo.

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