di Sara Nocent
Di loro, mi ricordo, mi davano fastidio le S. Sempre sorde, un sibilo continuo tra i denti, come se fisicamente non bastasse parlare piano, ma si dovesse anche stringere la bocca, rendere incomprensibile il labiale. Stavano parlando di me? Non era tanto questo a darmi fastidio: il problema erano quelle maledette S. Mi rovinavano il piacere di immaginare la loro conversazione, non era nemmeno più possibile tenerla come sottofondo.
Ho sempre pensato all’origliare come a un privilegio. Sia perché gli ambienti più o meno rumorosi in cui viviamo ogni giorno non ce lo permettono, sia perché lo vedo come uno spogliarsi dal fardello dell’ascolto. Ascoltare per tutto il giorno, e cercare di capire, non ha nulla di piacevole: la lingua sfacchina per trasportare significati, la voce resta punita dentro la vergine di ferro del discorso.
Capita raramente di sentire una voce. E con questo non mi riferisco alle allucinazioni, alle voci che si sentono nella testa (per quanto, per citare Derrida, anche la convinzione di ascoltare e intendere la propria voce sia un’allucinazione), ma proprio alla voce come oggetto corporeo, come traccia compresente e al tempo stesso estranea alla persona. Lacan nel Seminario XI parla di schisi tra l’occhio e lo sguardo, ma non si potrebbe dire lo stesso della mancata coincidenza tra l’orecchio e l’ascolto?
Poche righe e ho già fatto due interventi nel campo visivo. Vi ho presentato una scena, e potrei chiedervi: come ve la siete immaginata? Dove eravate? Perché un minimo, penso, ve la sarete ricostruita, con una sua scenografia minima, forse una casa, forse un ufficio, un bar. Forse con estranei, forse con facce note.
E poi l’altra scelta, sottotraccia: le due citazioni, ormai un tic accademico evitabile, ma che fa il solito lavoro di estrazione di contenuti da testi scritti da altri. Ecco, appunto, il testo: ecco dove siete, siete di fronte a un testo. Il testo è ciò che vedete ora. Nient’altro che grafemi muti buttati su un sito.
(E comunque di Derrida e di Lacan abbiamo le voci registrate ed è tutto ciò che ci interessa da qui in poi).
Sarebbe bello se questo testo avesse la forma di una voce senza corpo.
Il cornetto acustico
Immaginate di essere quasi sordi. Dovreste prendere un apparecchio acustico, di quelli della pubblicità, piccoli e praticamente invisibili, da inserire nell’orecchio per riuscire ad ascoltare.
È lo stesso problema che ha l’anziana protagonista del racconto Il cornetto acustico di Leonora Carrington, solo che a un certo punto un’amica le regala, appunto, un cornetto acustico: un grazioso oggetto di argento e madreperla, molto bello a vedersi, che le permette di sentire discorsi che lei non avrebbe dovuto ascoltare. Di origliare, insomma.
Il cornetto acustico è l’oggetto che meglio rappresenta l’origliare. Perché è vero che quando origliamo potremmo anche non usare uno strumento (per esempio, l’emblematico bicchiere rovesciato che comunque, per esperienza, non funziona così bene) e accostare direttamente il nostro orecchio, ma penso che quest’azione sia accompagnata da qualcosa di più, che la differenzia sia dallo spiare sia dall’ascoltare.
Insomma, quel cornetto acustico di cui andiamo tanto fieri è il godimento: ve l’ho solo reso visibile. Un po’ come il binocolo per il voyeur. Chi origlia o osserva deve provare un certo godimento per quello che sta facendo, e questo non deriva tanto dalla qualità dell’immagine o della voce rubata. Perché anche se la scena che sto osservando di nascosto fosse particolarmente sfuocata, e se le voci fossero particolarmente soffocate, proverei ancora piacere nel guardare e origliare. Il punto sta nell’immaginazione o, ancora meglio, nella ricostruzione fantasmatica: è quel misto di aspettative, scenografie immaginate ed esagerazioni fantasiose che stanno nella mente del voyeur e costituiscono la realtà della scena. C’è poi da dire che la ricostruzione fantasmatica è sempre di carattere visivo e, quindi, fondamentalmente voyeuristica anche quando si parla di origliare. La voce disincarnata è sempre fonte di angoscia, quindi ho bisogno di darle almeno una posizione, se non anche un’identità immaginata, per cui quando origlio sono ancora un voyeur.
Il cornetto acustico è tutto questo. Non serve per forza a sentire benissimo, ma è come una dichiarazione di intenti molto vistosa: siamo qui per godere.
Le S
Non sempre origliare è piacevole. Ci potrebbe essere un rumore di fondo, un’interferenza, un qualcosa che ci sottolinea la bastarda estraneità della voce. Qualcosa che con la vista non potrebbe accadere, perché l’occhio può chiudersi e far finta per un momento di non essere visto e di non vedere, mentre l’orecchio resta aperto al mondo e continua ad ascoltarsi anche quando sente altri. Perché come dice Roland Barthes, “io ascolto” vuol dire sempre anche “mi ascolto”.
C’è una sovrapposizione in gioco, una simultaneità, che nella vista non può intervenire se non in un secondo momento, per esempio nella fotografia o nel cinema (o magari con uno specchio, in cui a sua volta il voyeur potrebbe spiarsi). Perché quando origlio il punto non sta tanto nel fatto che potrei essere a mia volta origliato da altri, ma il problema è che mi sto origliando, sono immerso nell’allucinazione dell’ascoltarmi/intendermi (come direbbe Derrida). E se in questa allucinazione intervengono dei rumori che mi impediscono di sentirmi, che mi danno fastidio, ecco che sono a disagio.
C’è una citazione di Carmelo Bene che mi piace molto, dalla pièce incompiuta Il Vampiro:
Musica dell’indifferenza…
Copri le loro voci ch’io
Non mi sento più
Tacere.
(Che poi, è pur sempre un’altra citazione, ma almeno la voce di Bene è un bel fantasma da evocare, e vorrei che questa frase trapelasse nel testo con la sua intonazione). È esattamente questo che intendo dire nel descrivere l’origliare, l’azione diventa problematica quando qualcosa mi impedisce di sentirmi tacere.
Potrebbero essere le S del brano con cui ho aperto questo pezzo. O potrebbe essere il suono di un ventilatore, lo sfrigolio alienante dei neon, il ticchettare rumoroso di un orologio che prende il sopravvento.
Il problema sorge quando nel fantasma emerge un altro fantasma.
I tubi belli di Bentham
“Vorremmo scalpellare ma dovremmo essere silenziosi, perché Lui ci guarda e Lui ci sente. Dalla Sua torre può farlo, il muro ci impedisce di scorgerlo ma Lui ci scorge. Non possiamo sentirlo ma Lui ha un sistema di tubi grazie ai quali può sentirci. Se faremo troppo rumore Lui ci scoprirà”. (da Giro di vi(s)te. Frammenti di un corpo (quasi) nudo [I])
Il Panopticon funziona bene, si sa, grazie allo sguardo del potere che resta all’opera anche senza che ci sia qualcuno che osserva i prigionieri. Il Panopticon e l’estasi di Bentham, però, continuano a essere un po’ freddi, poco perversi.
Per citare di nuovo, tanto vale che cito Foucault, che in un passaggio di Sorvegliare e punire, nel parlare delle diverse organizzazioni urbanistiche legate alla peste e alla lebbra, se ne esce con questo capolavoro di frase: “Esiliare il lebbroso e arrestare la peste non comportano lo stesso sogno politico”. Se come termini di paragone usassimo il sadismo e il masochismo, questa frase sarebbe ugualmente vera e meravigliosa. Potremmo riprendere la voce di Foucault, che ci ha parlato sopra, per dare una nuova forma al “sogno politico” del Panopticon.
E se il prigioniero scrupoloso ma terrorizzato dallo sguardo del Grande Altro nella torre non fosse più il protagonista di un thriller di Hitchcock, ma di un musical di Brian De Palma? Se la struttura stessa del Panopticon non fosse tetra e grigia, ma una sorta di Centre Pompidou steampunk, con questi strani tubi per origliare cromati e colorati? Insomma, il carcerato dovrebbe sapere bene che la guardia gode nel spiarlo e nell’ascoltarlo, e forse potrebbe capitare che goda a sua volta.
“C’è un sottile godimento nel guardarli immobili, in nostro potere. Più che il guardarli, fa godere che si sappiano guardati”.
Altro che sottile. È esibito: grossi tubi di acciaio inox fucsia, rosso e magenta circondano le celle e vibrano per i più piccoli rumori provocati dai prigionieri. Nei tubi la guardia, o Bentham, può addirittura parlare, e la sua voce suona baritonale e compiaciuta, quasi paterna. E dalla torre si sente “Cari, più che ascoltarvi, mi piace che vi sentiate ascoltati”.
C’è una canzone di Fedez, Alfonso Signorini del 2013, di cui mi ricordo questa parte:
E poi non ti puoi perdere un lusso per pochi
Il nuovo manganello glitterato rosa shoking
Scappare dalla polizia equivale a fare jogging
Un toccasana per avere veri glutei sodi.
(Ricordo bene che alle medie girare per il paese con Fedez a tutto volume nel telefono ci faceva sentire ribelli). Il manganello glitterato è in quella classe di oggetti che rendono visibile il godimento della guardia in cui rientrano i tubi di Bentham.
Insomma, sentiti osservato. Sentiti ascoltato: ma l’occhio che ti sta guardando da qualche parte, l’orecchio che coglie anche i tuoi sospiri, sono decorati, belli da vedere, esibiti. Non c’è nulla di nascosto: se sai di essere visto, e ti senti oppresso dallo sguardo del Grande Altro, tanto vale che questo Grande Altro si degni di giocare, e si mostri.
Perché il voyeur, nel cinema e nella letteratura, ha spesso la brutta abitudine di essere maschio, vestito male e un po’ supponente.
Diplacusia politica
Qualcuno potrebbe pensare che non c’è nulla che riguardi il voyeurismo, o l’origliare, nella politica.
Certo, va fatto qualche passo indietro e qualche chiarimento in più: prima di tutto, dovremmo distinguere lo spiare dall’origliare. Spiare è sicuramente un atto politico che si installa su un rapporto di potere, ma anche l’atto voyeuristico esplica un rapporto simile. Quello che davvero li rende diversi è che il voyeur o chi origlia non lo fa per l’informazione bensì per puro piacere, come si è detto prima. Tuttavia, ed è qui che dobbiamo fare attenzione, anche in questi casi siamo di fronte a un atto politico.
In Sicilia c’è una grotta chiamata l’orecchio di Dionisio, dal nome del tiranno greco che, si dice, sfruttava la particolare amplificazione acustica del posto per spiare le voci dei suoi prigionieri. È curioso notare che l’orecchio di Dionisio veniva chiamato in antichità crypta loquens, ovvero “grotta che parla”. Vorrei prendere questa particolare grotta come una metafora della nostra posizione politica: ognuno di noi è una crypta loquens, un luogo da cui emettere messaggi politici, ma allo stesso tempo è anche l’orecchio del potere, il carcere di discorso in cui ciò che si dice è già stato ascoltato non perché sia stato indotto o spiato, ma perché risponde sempre a una domanda primaria del potere, del Grande Altro.
Siamo le nostre stesse spie, nemmeno così brave a non farsi sgamare. Il luogo dell’emittente e quello del ricevente nel discorso politico coincidono e si rivelano come lo spazio vuoto, la cripta attraversabile da molteplici flussi di informazione e di scambi.
Ma come riappropriarsi di un ascolto, e quindi di una parola, davvero propria in politica? Forse, con una certa ironia e una buona dose di ottimismo, potremmo ipotizzare una grotta di Dionisio affetta da diplacusia, una condizione per cui la ricezione della voce avviene in tempi diversi o addirittura in modi diversi da parte delle due orecchie. Con un orecchio saremmo in grado di spiarci, mentre con l’altro resteremmo ad origliare il rumore non significante dei nostri messaggi politici.
L’origliare e l’origliarsi come atto politico è quasi rivoluzionario. Non si tratta di nulla di astratto, ma di un esperimento, un’ipotesi. Se prendessimo le notizie di guerra a cui siamo esposti ogni giorno, i report degli scandali del governo, le dichiarazioni delle parti politiche, i dibattiti in TV e cominciassimo non a farli risuonare nella nostra testa pretendendo di capire, bensì ad ascoltarli con una certa distanza, come se fossero fonti sonore qualsiasi, cosa accadrebbe? Probabilmente inizieremmo ad accorgerci che si urla molto, che le notizie sono riportate con un certo ritmo macchinico e impersonale, che i dibattiti generano quei rumori fastidiosi di cui parlavo prima e che ci rendono molto meno piacevole l’origliare. Ci accorgeremmo che nessuno parla con la nostra voce, o semplicemente con il nostro ritmo e tono: nessuno parla piano o magari anche forte, ma in maniera umana, tranne i testimoni di quelle guerre sempre “altre” o chi ha perso il lavoro o la speranza.
È facile spiare quando una conversazione non ti riguarda. E la politica, o meglio il governo e i partiti, hanno questo grande talento nel far sembrare che non tutte le cose riguardino te, elettore. Si selezionano le cose per cui dovresti indignarti, ci sono “lotte porzione singola”, per riprendere una battuta di Fight Club, ma nessuna grande lotta per cui varrebbe la pena indignarsi insieme.
E poi ci accorgeremmo del silenzio. Di quanto poco si parla, si urla e si protesta tra di noi per le piccole, grandi manovre che sono state fatte sui nostri diritti: i passi indietro fatti, a livello di tutele, sul lavoro, sulla salute e sui diritti delle donne, sul diritto di andare in pensione ad un’età decente, sul diritto di avere una casa.
C’è un film di Coppola – ultima citazione, lo giuro – che si chiama La conversazione, in cui un investigatore privato solitario, ossessionato dal rischio di essere origliato in casa sua, riceve l’incarico di spiare la conversazione di una coppia. Ecco, le cose diventano angoscianti per lui quando si rende conto che la conversazione, in un certo modo, lo riguarda. Alla fine del film, sventra i muri della sua casa nel timore che ci siano delle cimici per spiarlo.
Stare nella politica vuol dire forse proprio questo: stare nella conversazione, rivendicare – possibilmente senza paranoia – il proprio posto in quel triangolo di sguardi e di parole per cui tutti i provvedimenti e i giudizi che riguardano altri riguardano anche me, ma non più come nodo della comunicazione spiato e spiante, bensì come origliatore volontario e compiaciuto.
Riempiamo l’orecchio di Dionisio, rendiamolo insieme il nostro orecchio e la nostra bocca, finalmente capaci di godere della forza rivoluzionaria di una conversazione umana.