di Davide Pittioni
“Hai un’idea? Fanne un impresa!”, si leggeva qualche tempo fa su un cartellone pubblicitario. Un invito ormai ritenuto normale, radicato nella spirituale convinzione che l’unico modello vincente ed efficace sia appunto quello imprenditoriale. Un’evidenza, anzi un’auto-evidenza, inscalfibile. Non sarebbe altrimenti pensabile quella cieca presunzione di verità che gonfia le Leopolde e il dibattito pubblico tutto. È il segno di un paradigma che si diffonde capillarmente in ogni luogo sociale, piegandolo dolcemente ai principi del marketing e della produzione di valore – mai violentemente, perché il suo corollario è una sorta di pacificazione mediatica che alza i toni per confonderli in un indistinto e piatto rumore. Basta prendere in mano un volume di risorse umane: commitment, empowerment, coaching, vision, contratto psicologico, è tutto un fiorire di termini che riscrivono sostanzialmente un intero paradigma produttivo, svuotando di senso gli ultimi residui del classico rapporto di produzione. Non c’è più contrapposizione, esteriorità. Lo stesso tempo di lavoro diviene tempo di vita nel momento in cui è un capitale affettivo, relazionale, culturale, ecc. Se insomma nella visione di Marx il capitale sussumeva il lavoro, ora sembra estendere la sua cattura alla vita intera. Si vorrebbe così eliminare – Facebook docet – quel conflitto insanabile che si verificava nel bordo tra tempo di lavoro e tempo di non lavoro, tra la temporalità sottoposta al comando capitalistico e quella ancora “formalmente” libera, anche se ammantata dal velo ideologico.
Apparentemente una novità epocale. Eppure a rileggere qualche passo un po’ datato non si può che guardare a questo fenomeno in maniera leggermente diversa. “Ne risulta che il modo di produzione capitalistico genera non soltanto una continua spinta alla riproduzione, ma anche una spinta al continuo allargamento della riproduzione”, scriveva Rosa Luxemburg nell’Accumulazione del capitale. Il ciclo di riproduzione del capitale non può che essere un processo di progressiva interiorizzazione di un fuori. Se non è quindi l’allargamento del mercato, a causa della “saturazione” dello spazio globalizzato, l’unico modo per reperire un’esteriorità da incorporare diviene intensivo e non più estensivo. Marx e Engels notavano nel Manifesto: “Con quale mezzo la borghesia supera le crisi? […] con la conquista di nuovi mercati e con lo sfruttamento più intenso di quelli vecchi”. La vita e i suoi rapporti pre-economici vengono così approfonditi e attraversati dal processo di valorizzazione: sono relazioni, sentimenti, idee, servizi, a divenire il sostrato immateriale della riproduzione del capitale.
Un punto però rimane controverso ed è quello della contraddizione che si determinava all’interno di questo processo. C’era insomma resistenza, viscosità, nel movimento. Ora il campo sembra invece sgombrato dai conflitti, neutralizzato da tutte quelle mine che ne smuovevano il terreno. Ancora Marx e Engels nel Manifesto scrivevano: “viene tolto di sotto ai piedi della borghesia il terreno stesso sul quale produce e si appropria i prodotti. Essa produce innanzitutto i suoi seppellitori”. Uscendo dalla personificazione, era il capitale stesso a entrare in contraddizione con il lavoro proprio nel momento in cui se ne serviva per riprodursi.
Oggi assistiamo ad effetti diversi, apparentemente contrari. Il conflitto è marginalizzato: lavoro e capitale si trovano abbracciati in una stretta ideologica che ne fa corrispondere gli interessi. Così, prima di tutto sono i termini a cambiare: l’imprenditore fa impresa nelle aziende, creando posti di lavoro e diffondendo benessere – che poi tutto questo sia un esito collaterale di un’attività che ha dei fini precisi, ovvero quelli del profitto, sembra del tutto ininfluente. Le linee di contrapposizione si disperdono: passano tra migranti e lavoratori autoctoni, tra garantiti e precari, tra pubblici e privati. Il conflitto viene spostato dentro il lavoro, mentre l’asse di riferimento capitale-lavoro viene pacificato. Non è raro leggere dichiarazioni di questo tipo: “Noi oggi abbiamo detto con serenità che gli imprenditori sono dei lavoratori e non dei padroni e che la sinistra si candida a rappresentarli” (Renzi dopo una direzione del suo partito). Segno dei tempi: l’impresa e l’imprenditore non solo sono portatori di un interesse universale, una sorta di accesso privilegiato alla logica del mondo, ma impongono il loro sistema di valori all’intera società. Renzi però, nella citazione poco sopra, non coglie il punto: non è tanto l’imprenditore a farsi operaio (potrebbe essere anche vero in un Paese con un alto tasso di piccole imprese), quanto invece l’operaio a farsi imprenditore, come è la società stessa a divenire impresa, a partire dallo Stato – non perché ne occupino la posizione sociale, ma perché attraversati dai dispositivi aziendali da parte a parte. Uomini al centro dell’azienda, industrie dal lato umano, stati governati dal rigore manageriale, precari che diventano flessibili nell’investimento del proprio capitale formativo e umano: è il rischio di impresa, dove le persone trovano la propria soggettivazione nella business-idea della propria azienda e gli imprenditori dettano le regole di funzionamento dei rapporti sociali, non come parti in causa, ma come un tutto che ne rappresenta il fondamento. Così basta avanzare qualche critica all’attività di Eataly e del suo guru Oscar Farinetti, modello all’italiana del capitalismo sociale fatto di vision e precarietà, perché la loro pagina Facebook venga invasa dai commenti di solidarietà dei dipendenti. “Oscar ci dà lavoro, perdio”. Che poi ti sfrutti, è tutta un’altra storia.
…forse è giunto il momento, per dirla con annie lennox, di fare i conti col fatto che a molti piace essere sfruttati..”sweet dreams are made of this, who am i to disagree, some of them want to use you, some of them want to get used by you”.. pensi davvero che i dipendenti che difendono il loro patron lo facciano perché non si sono ancora resi conto che li sfrutta?:)
Diciamo che l’articolo in alcuni passaggi è volutamente provocatorio. No, comunque, se proprio dobbiamo condensare la questione in un dentro-fuori. Non penso sia falsa coscienza, ma non penso nemmeno sia un piacere. Penso, però, che alcuni termini – te ne dico due: sfruttamento e capitale – andrebbero alle volte utilizzati, così, tanto per ricordarci della loro esistenza. Te la ricordi la barzelletta che raccontò Zizek ad occupy wall strett, quella dell’inchiostro rosso e dell’inchiostro blu?
:)…no… com’era? 🙂
Lo sfruttato che difende il padrone lo fa perché lui vuole essere uno dei futuri padroni.. e probabilmente ce la farà… è una sindrome di stoccolma che permea l’intera società. il cancro della nostra società è la convinzione che Farinetti sia più felice di Landini… la certezza assoluta che quasi tutti hanno (a destra e a sinistra) che Farinetti sia più felice di Landini (e che la sua vita sia più degna di essere vissuta): questo è il cancro della nostra società.
Ci sono persone che godono a farsi sfruttare (tipo quelli che difendono il loro “povero” padrone sui social), perché vedono in questo sfruttamento un percorso obbligato che li condurrà al loro futuro successo personale. La famosa gavetta… che li condurrà ad un brillante successo, che è qualcosa a cui ambiscono profondamente, a cui addirittura spesso sacrificano la vita, gli amici, gli affetti… sai bene anche tu che viviamo in un mondo in cui da sfruttato a sfruttatore il passo è brevissimo, ti basta un colpo di culo e potresti essere proprio tu (persona sfruttata) il prossimo padroncino di un piccolo orticello… (da magazziniere a direttore di reparto). Il sistema capitalista si regge su questo desiderio.. come hai brillantemente fotografato nel tuo pezzo, che nella sostanza teorica condivido al 100%.