di Sara Nocent
È notte: ora parlano più forte tutte le fontane zampillanti. E anche l’anima mia è una zampillante fontana. È notte: solo ora si destano tutti i canti degli amanti. E anche l’anima mia è il canto di un amante. Qualcosa di insaziato, insaziabile è in me; e vuol farsi sentire. Una brama d’amore è in me; anch’essa parla il linguaggio dell’amore. Luce io sono: ah, fossi notte! Ma questa è la mia solitudine, che io sia recinto di luce. […] Questa è la mia povertà, che la mia mano mai si riposi dal donare; questa la mia invidia, che io veda occhi in attesa e le notti rischiarate del desiderio. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra
Prima scena
È notte. La tempesta ridisegna i corpi, ne esalta i limiti, le sconfinate geografie. Un lampo apre una ferita nell’oscurità, restituisce la carne allo spazio, alla notte la sua nudità.
Per un istante la luce si riflette sulla superficie gelatinosa di un bulbo oculare folgorato dal piacere. Il filosofo cieco sviene, cade sull’erba bagnata. Nessuno lo soccorre in mezzo alla festa: tutti lo evitano perché fa paura, il suo viso ormai è un teschio e ride, ride perché potrebbe essere buono per la mano di qualche attore che ancora si interroga sull’essere e il non essere, mentre lui sente il brivido di aver raggiunto il limite della stessa esistenza.
Le orbite vuote restituiscono ancora lo stupore della rivelazione. I suoi occhi sono ruzzolati tra i piedi di chi balla, uno è andato calpestato ma poco importa, ha sentito parlare di uno bravo che ne produce di nuovi per il riconoscimento oculare di Stato.
Eppure lui vede. Fa ridere, ma è così! Un teschio che vede chiaramente nella notte: percepisce la luce inesprimibile che c’è negli altri corpi e tra di essi, sotto i suoi piedi nella terra che calpesta.
Sono piste di desiderio, che gli occhi non potrebbero seguire.
Trasgressione alla prefazione
Non so bene come avvicinarmi alla Prefazione alla trasgressione di Foucault. È un testo che, proprio quando sembra coincidere con il suo pretesto di tributo post mortem a Bataille, si apre a un’intimità inaspettata, come se Foucault in questa occasione rinunciasse ai vicoli luminosi del linguaggio filosofico e incontrasse l’autore della Storia dell’occhio e il lettore stesso ai limiti della radura del linguaggio letterario, là dove la parola rischia di mancare, dove anche il commento diventa impacciato o si affida al balzo della fantasia.
Improvvisamente mi trovo di fronte a un filosofo che scrive. Non succede spesso leggendo i saggi, ma può capitare, come in questo caso, di sentire che c’è qualcuno dietro, qualcuno di compresente al testo che stai leggendo.
E nel cuore della Preface si apre, meravigliosa e reale, la scena di una notte. Foucault ne traccia i contorni partendo da alcune citazioni di Bataille, ma poi ne dà una descrizione originale nella parte centrale del saggio, dove il testo, come l’occhio, si ribalta su se stesso e diventa letterario.
Vorrei provare a rimettere in movimento le immagini di questa notte del filosofo. Essa è molto più che il palcoscenico: è lo spettacolo stesso della trasgressione rapportata al giorno della legge.
Effetto notte
Foucault ci dice innanzitutto che questa è la notte della morte di Dio. I cancelli sono aperti: è venuto a mancare il limite dell’illimitato, la nostra vita ultraterrena. A questo punto entra il linguaggio della sessualità con i suoi fondatori Sade e Bataille. Filtro blu sull’obiettivo: scende l’oscurità. Da qui in poi tutto è permesso, proprio perché non c’è più nulla che permette e i gesti degli amanti sono una profanazione, una messa, in assenza.
Potrebbe sembrare che a questo punto, mancando il fuori normativo a cui siamo stati ricondotti fin dal battesimo, la nostra esperienza diventi totalmente “interiore e sovrana” come dice Foucault. Ma qualcosa potrebbe impedirci di essere, proprio ora, dei tali campioni di ascetismo. Qualcosa che scintilla all’orizzonte, un campo illimitato senza Dio e senza uomo. La sabbia bagnata dopo il passaggio dell’ultima onda in un libro che verrà, Le parole e le cose, e che un altro saggio dello stesso anno profetizzerà con il nome di “fuori”.
La trasgressione è quel movimento fondamentale che ci porta a questo fuori. Come il lampo nella notte, essa illumina la legge da cui si distingue, la rende più visibile e la consacra nel momento stesso in cui la viola. Non è una negazione, è un’affermazione, ma non di quelle che usano l’”è” e inchiodano le cose a una realtà positiva esponendole, inevitabilmente, anche alla possibilità del “non è”. Nel fuori c’è la pura affermazione, un “sì” senza ombre, un’esistenza che supera la nostra precarietà di soggetti parlanti.
In questo “mondo scintillante”, a cui, come afferma Foucault, si potrebbero anche ricondurre i concetti di divino o di origine, il discorso tace così come il soggetto che è immerso in esso. Il filosofo cade perché il contatto con questa affermazione accecante gli fa mancare per un momento il sostegno del linguaggio filosofico: si apre sotto di lui il gorgo del linguaggio letterario, il suo mormorio incessante in cui sono le parole e non più il soggetto a parlare se stesse.
Le esperienze di scrittori come Bataille e Blanchot o la filosofia di Nietzsche possono solo indicare la presenza di questo campo di forze oltre il limite, ma non c’è nessuna parola che ci permetta di esprimere cosa veramente significa “essere nel fuori”. Lo stesso Foucault non smette di parlarne nei termini della profezia, di qualcosa che deve ancora venire e per cui non è possibile essere preparati: “Nessun movimento dialettico, nessuna analisi del costituito e del suo fondamento trascendentale può essere d’aiuto alla possibilità di pensare una simile esperienza o addirittura di accedere a questa stessa esperienza”.
Il pensiero del fuori, illuminato all’inizio dalla trasgressione e rivelato via via dalle categorie con cui la letteratura fa intravvedere la propria autoreferenzialità (descritte nei capitoli dell’omonimo saggio), è solo una traiettoria che ci mostra la presenza di questo fuori.
Vietato lo zoom
Foucault a un certo punto della Preface, prima di passare a un’accurata descrizione del rovesciamento dell’occhio, ci pone di fronte a una particolare possibilità senza tuttavia addentrarsi nelle sue implicazioni.
La possibilità è quella del filosofo pazzo, che scintilla sul limite di questa apparente autodistruzione del linguaggio filosofico. Il filosofo folle scopre di poter svincolarsi dalla circolarità della dialettica e lanciarsi sulla retta del pensiero del fuori, capisce che tutto quello di cui ha sempre parlato – come l’origine, la vita, il desiderio – richiede altre parole, parole indicibili, puro pensiero danzante.
Potrebbe sembrare che il filosofo pazzo parli dal fuori, ma è lo stesso autore a operare l’ennesimo ribaltamento e a parlare, al contrario, di un “dentro”: “[il filosofo] trova, non già all’esterno del suo linguaggio (per un caso venuto dal di fuori, o attraverso un esercizio immaginario), ma in lui, nel nucleo delle sue possibilità, la trasgressione del suo essere filosofo”. La “messa in questione dei propri limiti” di cui si serve continuamente il filosofo lo porta a superarsi in direzione del linguaggio stesso, anche perché il pensiero che lui crede essere suo è in realtà una forza che “avviene a lui” dal fuori, “un colpo di dadi” come qui dice Foucault e come ribadirà Deleuze a cui, forse, si potrebbe dare il compito di completare questo bozzetto di follia.
Per ora lo zoom resta vietato su questa figura misteriosa che si intravvede al limite dell’inquadratura. Non senza una qualche ironia, il regista si rifiuta di farci vedere il suo volto.
Parafrasi dell’occhio
La notte è l’occhio: è la sua pupilla, il suo centro, la sua – e la nostra – interiorità. Tuttavia, al di là di esso – perché è questo il movimento che facciamo sempre oltrepassando questo organo con ciò che abbiamo imparato a chiamare “sguardo” – si apre uno spazio luminoso, lo spazio delle cose visibili, del mondo. Ancora una volta, questa visione può essere trasposta nell’occhio, nel biancore bovino della sclera. C’è quindi un equilibrio tra ciò che vede e ciò che viene visto: in entrambi i casi l’oscurità è un limite che viene trasgredito, è un’interiorità che viene violata e aperta a un fuori.
A questo punto Foucault, il filosofo nella notte, compie una mossa cruciale: ribalta l’occhio. Rovescia nella sua mano il bulbo oculare sottratto ai racconti di Bataille e descrive minuziosamente gli effetti di questo movimento, con una precisione da autopsia (sono forse influenze paterne?).
Sequenza con jump cut
Edipo si acceca e rigira in mano un suo occhio.
Un regista russo scopre lo sguardo.
Un regista spagnolo lo viola per sempre.
Freud ti informa che il mago Sabbiolino non vuole solo accecarti ma anche castrarti.
Bataille ride.
Dissolvenza.
Primo piano su Foucault (monologo)
“In questa distanza di violenza e di estirpazione, l’occhio è visto in assoluto, ma al di fuori di ogni sguardo: il soggetto filosofante è stato gettato fuori di se stesso, inseguito fino ai suoi confini, e la sovranità del linguaggio filosofico è quella che parla dal fondo di questa distanza, nel vuoto senza misura lasciato dal soggetto esorbitato”.
“Ma forse è quando esso è strappato sul posto, rivoltato con un movimento che lo gira verso l’interno notturno e stellato del cranio, mostrando all’esterno il suo rovescio cieco e bianco, che l’occhio compie ciò che c’è di più essenziale nel suo gioco…”.
“Ma ciò che vale la pena di essere guardato, non è nessun segreto interiore, non è nessun altro mondo più notturno. Strappato al luogo del suo sguardo, rivoltato verso la sua orbita, l’occhio non spande più, adesso, la sua luce che verso la caverna dell’osso”.
“Ma cosa può precisamente significare, al centro di un pensiero, la presenza di una tale figurazione? Cosa vuol dire quest’occhio insistente in cui sembra raccogliersi ciò che Bataille ha successivamente designato come esperienza
interiore, estremo del possibile, operazione comica o semplicemente meditazione?”.
Voci fuoricampo
Di cosa sta parlando Bataille attraverso questo occhio “riportato alla sua notte”’ nell’estasi? Potremmo cercare di capirlo riflettendo su ciò che effettivamente questo sguardo inedito vede e cioè l’assenza, quello che poeticamente Foucault ci descrive come il “vuoto stellato” del cranio. Di fronte a questa non-visione il primo a vacillare è il filosofo, che dopo essersi tanto impegnato a conoscere se stesso scopre che, in fondo, non c’è niente da vedere, nessuna interiorità o coscienza da sondare. C’è solo un cranio, una presenza del corpo, la viva carcassa che testimonia una morte ben più illustre – quella del soggetto. Il soggetto che nel scoprirsi, nello sgamare la propria assenza al di là dello sguardo e del discorso, perde il senso della propria funzione in un mondo che è stato costruito come distinto da lui, oggettivo.
Come su uno schermo o su uno specchio, tutte le cosiddette “cose” convergono e si ammassano in quel luogo dove una volta doveva esserci un soggetto. Lo schizofrenico sperimenta questa vicinanza di tutto, questo desiderarsi di tutto.
La possibilità di un linguaggio non discorsivo, dove si libera anche il canto del desiderio, non è forse ciò che ci dimostrano le scene erotiche di Bataille?
Conclusione allo specchio
È notte. Foucault si rialza, ha ancora nelle sue mani il bulbo oculare. Pensa a una possibile citazione per concludere la sua Prefazione alla trasgressione e sceglie il famoso gesto di Simone nell’epilogo della Storia dell’occhio. Il regista è d’accordo, è l’ultima scena.
Lo vediamo allontanarsi attraverso l’obiettivo della cinepresa. Foucault è anche il regista, scopriamo solo in questo momento che gli occhi attraverso cui lo stavamo guardando sono sempre stati i suoi.
O i nostri? In fin dei conti, chi importa chi parla? O chi guarda?
Il filosofo sparisce nella notte luminosa.