di Sara Nocent
Una mattina d’estate del 2021, i lavoratori della Gkn di Campi Bisenzio ricevono una mail: la multinazionale londinese comunica il licenziamento di quattrocentoventidue dipendenti. Senza prima essersi confrontata con i sindacati. In un giorno di ferie forzate.
“Ce l’hanno fatta”, esclama uno degli operai che troviamo in scena. “Il capitale ci ha allenato a questo”. La consapevolezza di essere precari, il girone delle ferie forzate, il gioco delle delocalizzazioni e dei misteriosi cambi di proprietà che cercano di coprire l’intenzione, quella tutt’altro che nascosta, di abbattere il costo del lavoro e aumentare il guadagno degli azionisti.
Quanto tempo è passato, penso? E penso anche che siamo in tanti: in sala, in una serata di febbraio, in una città del ricco Nord Est come Udine, tra studenti e lavoratori riempiamo un intero teatro… per parlare del capitale. Dei suoi effetti, del sistema in cui ci troviamo che intrama le nostre vite ogni giorno.
Non è solo un libro, Il Capitale, non sono solo le teorie di Karl Marx. Tre volumi di cosa? Di parole, smembrate e proiettate su una tenda a strisce, come quelle che si trovano appunto nelle fabbriche o nei magazzini, in fondo alla scenografia, algide citazioni che sovrastano gli operai, che restano incomprensibili anche se parlano di noi.
Uno spettacolo è fatto di tempo, come il lavoro. Penso, continuo a pensare anche quando sono uscita dalla sala buia del Palamostre. Pianto gli occhi sul soffitto, perché la verità è che è fottutamente difficile rimanere impassibile.
Quanto tempo? Anni. Quelli che passano da quel 9 luglio 2021 al capodanno del 2023, con cinquemila persone che si sono raccolte nell’ex fabbrica Gkn per ribadire che l’occupazione continua e denunciare che la cassa integrazione è finita.
È proprio vero, ci hanno preparati. Mi ricordo le privatizzazioni, la crisi del 2008, Renzi in TV che ci invitava ad essere flessibili, mi ricordo il Covid, le “grandi dimissioni”, mi ricordo la Eaton, l’Electrolux, la Wärtsilä, Landini che urlava a Marchionne, ma poi?
Non ho ricordi di università occupate. Forse ero troppo giovane. Ma è anche vero che, se da una parte le fabbriche hanno continuato a chiudere e a delocalizzare, dall’altra le università sono sempre più diventate dei centri di autoerotismo intellettuale, incubatori di una futura classe politica e borghese comunque fallimentare.
Questo sì che è un fallimento. La cultura ha fallito. Penso. Ma mi smentisco subito: il sold out di una serata, un sabato di febbraio 2024, a Udine, forse mi comunica che qualcosa resiste e che si può ancora fare cultura e politica insieme.
C’è qualche pugno alzato in sala, non troppi, solo chi se la sente lo fa. Più che i pugni, più che questa politica, mi interessa la reazione che si è innescata, a stretto e ampio raggio: ci sono studenti e operai insieme. Studenti spettatori, studenti perenni già svezzati dall’alternanza scuola lavoro a un sistema di contratti che non saranno mai a tempo indeterminato, a varie forme di sfruttamento (o collaborazione o tirocinio retribuito, prendete il nome che preferite), al pensiero che sarà difficile per loro non solo avere una casa, per non parlare di un futuro o di una pensione, ma proprio avere una vita. Vivere.
Mi ritrovo con il telefono in mano, a spiegare a un impiegato d’ufficio che senza i soldi della mia “collaborazione”, senza quella misera retribuzione che mi spetterebbe anche se ho lavorato undici ore al giorno, io non riesco a vivere. Sembra assurdo, vero? Una giovane studentessa che fa fatica a mantenersi senza soldi del suo lavoro!
Perché è questo che fa il capitale: ti affama. Ti rende perennemente affamato, non si sa bene nemmeno di cosa, forse di opportunità, dato che non è semplicemente fame di soldi, ma bisogno di occasioni per averne sempre di più proporzionalmente alle spese che devi sostenere e alle aspettative altrui a cui devi rispondere.
Hai trent’anni. Stai in un’altra città, ti mantieni gli studi. Forse lavori in un bar, forse hai un dottorato, e ti pagano per pubblicare, per competere con altri ragazzi e ragazze che come te non hanno nessuna certezza per il futuro, ma sanno già come ci si sbrana stringendosi la mano.
A jar of flies. Siamo un bell’esperimento: da una parte un vasetto con delle mosche ben nutrite, ma che muoiono perché sono troppe, dall’altra un altro vaso con delle mosche affamate, che sopravvivono per lottare. Direi che siamo entrambi i casi.
Sul palco ci sono alcuni operai della Gkn. Sotto minaccia di licenziamento, anche se il tribunale di Firenze ha giudicato antisindacale il comportamento della multinazionale. È vero che il fondo d’investimento Melrose che ha acquisito la fabbrica vuole fare subito appello e procedere con la chiusura, ma è altrettanto vero che la fabbrica continua ad essere occupata.
Perché in questa reazione, in questo esperimento di visibilità e auto-visibilità di cui sono spettatrice a teatro, l’occupazione è l’elemento fondamentale. Mi rendo conto che è un’esperienza che potrei avere in comune con gli operai. Altri studenti hanno fatto così, sono venuti al presidio Gkn, e tra gli slogan che hanno condiviso, oltre a “Insorgiamo” (che deriva dalla resistenza partigiana fiorentina), c’è anche “Occupiamola”.
Occupiamolo, questo posto nel capitalismo che ci è stato assegnato, che ci siamo anzi guadagnati con tanto sudore e fatica per diventare qualcuno. Occupiamolo in maniera scomoda, opponente, occupiamolo come se fossimo un oggetto, Gegenstand in tedesco, e non un soggetto produttivo, un soggetto cristianamente portato alla “vita attiva”.
Durante lo spettacolo, un operaio urla: “Non voglio più lavorare”. Non è una folgorazione, perché so che molte persone soprattutto dal 2020 in poi sono arrivate alla stessa conclusione, dopo aver capito che era più conveniente non lavorare piuttosto che impiegare buona parte della propria vita in attività non solo logoranti e frustranti, ma anche non equamente pagate.
Il tempo è uno dei motivi principali, penso, che potrebbero spingermi a non voler più lavorare. Non perché mi dia fastidio che il tempo che passo a lavoro rischi di non corrispondere a una paga, che sia tempo rubato, ma perché il tempo speso a contribuire, in maniera più o meno volontaria, all’accrescimento del capitale, è prima di tutto tempo sottratto a uno stare al mondo non produttivo. Sto parlando di tempi dalla densità diversa: il tempo scandito della produzione, un corpo sottile dentellato che occupa pervasivamente ogni settore della nostra giornata, e il tempo libero, corpo espanso e denso allo stesso tempo, ma che possiamo abitare solo in maniera tangente. Non pienamente, perché altrimenti rischieremmo di ricadere nella riprovazione sociale.
Siamo un gruppo di studenti a un laboratorio teatrale. Abbiamo tra i ventitré e i trentatré anni e il regista ci chiede che lavoro facciamo attualmente. Una di noi risponde che “non fa niente”, perché non lavora, ma che in realtà pensandoci bene ha il tempo di fare un sacco di cose. La nostra compagna ci dice che non prova alcun senso di colpa nel dire che è disoccupata e che non sta cercando lavoro. La ammiro. Ci vuole coraggio per abbracciare pienamente questo tempo fuori dal lavoro e rendersi conto di quante attività si possono fare, di quanti gesti perduti si possono recuperare senza il timore di essere visti da un fantomatico Altro giudicante con cui, chissà perché, si è sempre in debito.
“Quante pescate non fatte. Quante gite con i figli non fatte. Quanti ti amo non detti”: uno degli operai, camminando sul palco, dà voce a questo tempo denso, negato, che potrebbe prendere la forma del rimorso. Ma non lo è: è una vita parallela che non abbiamo potuto vivere, sono momenti persi che tuttavia potremmo recuperare, se solo ci liberassimo dal tempo della produzione.
Un licenziamento non può restituire questi momenti, ma può restituire il peso di quanto si è immolato sull’altare del capitale. Il regista Nicola Borghesi, sul palco, ci parla di come occupare la fabbrica non abbia solo come obiettivo quello di evitare la chiusura dello stabilimento e quindi, nel migliore degli scenari, il mantenimento del posto di lavoro, ma anche di ricomporre quella vita parallela facendo incontrare gioco e lavoro. È questo l’obiettivo della protesta: recuperare il lavoro e il gioco, il proprio posto da operaio, saldatore o addetto alle pulizie e le serate passate con gli altri lavoratori nel bar del presidio, le partite a calcio, e più in generale tutti i momenti di gioia che si condividono tra colleghi.
Perché “le macchine sono ferme, la vita è, imprevedutamente, viva”. La fabbrica è un immenso parco giochi dove si comincia solo ora a giocare, è uno spazio risemantizzato, di incontro libero e volontario tra persone. È, soprattutto, uno spazio liberato, perché l’occupazione è innanzitutto una liberazione.
All’interno del racconto dell’occupazione, si innesta sul palco un altro racconto: all’improvviso vediamo un lettino e una poltrona. Un paziente, che parla, e uno psicanalista che ascolta. Il paziente è un operaio, e afferma che da quando occupa la fabbrica è riuscito a superare il lutto della morte di un collega a cui era particolarmente legato. L’occupazione è terapeutica. L’analista gli fa notare che forse la versione dei fatti è stata un po’ romanzata, che insomma non può essere tutto merito dell’occupazione e del presidio, ma che sarà stata la terapia a portare a quel risultato.
Occupiamola. Occupiamola questa nostra psiche saturata, questa nostra psiche-palco dove tutto è già stato visto e nulla rimane nascosto. Occupiamo il nostro inconscio, parliamogli sopra, insorgiamo contro il discorso degli altri che ci vorrebbe corpi staccati e irrelati, pezzi come lo sono i pezzi in questo stabilimento abbandonato. Stiamo in relazione, siamo quei corpi gettati nella lotta di cui si parlava.
Lottiamo anche nell’avere il coraggio di stare con gli altri. Occupiamolo, questo spazio che resta tra i corpi, la differenza minima tra la mia mano e la tua, tra il tuo pugno e il mio.
Come state? I registi Nicola Borghesi e Enrico Baraldi della compagnia teatrale bolognese Kepler-452 hanno posto questa domanda agli operai quando sono entrati nella fabbrica occupata nel 2021. Come state? Non è una domanda scontata, potrebbe essere vista come un’intrusione interessata, tanto che all’inizio i lavoratori della Gkn danno un soprannome a Borghesi e compagni, li chiamano “quelli della Digos”. Potrebbe sembrare retorica come quella dei giornalisti, che anzi chiedono “Come stanno le vostre famiglie?”, e vanno ad intervistare le mogli e i mariti, addirittura i figli, come se il presidio fosse un amalgama di storie individuali e distinte, e non esso stesso una nuova famiglia.
Come sta il capitale? È malato, come il fantasma che sostiene il nostro desiderio. È l’appestato ed è la peste, è la cura e la pandemia.
Il capitale risponderebbe che sta bene come noi. E in effetti stiamo bene: come un padre amorevole, ma terminale fin dall’inizio, lui ci ha chiesto tanto è vero, ma si è dato da fare per farci avere il benessere e i servizi a cui non possiamo più rinunciare. È immortale, ma sempre in punto di morte.
Nella dialettica servo-padrone di Hegel, è il servo ad avere paura della morte. Il padrone ha quel “corpo sublime” di cui parla anche Sade che si trova nello spazio tra le due morti, quella naturale e quella simbolica. Il padrone non si vede, è un fantasma, un morto vivente, il corpo-reliquia di un santo.
I nostri corpi da insorti si rifiutano di riconoscerlo. Sono corpi che si liberano di questo benessere omeostatico, che si sbilanciano, si raccolgono, cercano lo scontro. Il desiderio non è più una macchina: in questa fabbrica non si producono più pezzi.
Potrei continuare con Hegel e la dialettica servo-padrone. C’è una bella citazione sul valore che l’oggetto assume per il servo attraverso il lavoro:
Il rapporto negativo verso l’oggetto diviene adesso forma dell’oggetto stesso, e diviene qualcosa di permanente, proprio perché l’oggetto ha autonomia agli occhi di chi lo elabora.
(Hegel, Fenomenologia dello spirito, p. 289)
Il desiderio nel lavoro viene trattenuto nella forma. La permanenza dell’oggetto, permanenza innaturale e fantasmatica, fa sì che esso incarni un “di più” che lo rende quasi magico agli occhi del lavoratore. La merce è feticcio anche quando viene prodotta, non solo quando viene acquistata. Possiamo vederlo anche nel terziario, dove la merce in questione sei tu, con la tua umanità, la tua creatività e il tuo rapporto con gli altri.
E quindi sbilanciamo questa dialettica, questa scena, e introduciamo un terzo: il pezzo. Borghesi ci mostra questa scelta: sopra il palco c’è un grande specchio parabolico, il punto panottico, l’enorme occhio del padre-padrone castrato in cui si riflette l’intera fabbrica e gli operai possono controllarsi mentre fanno manovra con i muletti. Ecco, penso, dove sta il padrone che non posso vedere ma in cui la mia autocoscienza si riconosce. E poi c’è il singolo operaio, in scena, il “servo” che teme la morte. Di fronte a lui, abbandonato lì il giorno prima di quella mail, c’è il pezzo non finito. Un semiasse, che è fallo e feticcio abbandonato del lavoro a cui il desiderio degli operai si attorce, attraverso l’orgoglio di averlo fatto bene perché funzionerà correttamente e sarà sicuro per i futuri acquirenti dell’auto in cui finirà.
Ora che è abbandonato e inutile diventa, ai miei occhi di spettatrice e studentessa che non ha mai fatto pezzi in fabbrica, l’emblema di quello che vorrei fosse il mio posto nella società. Di pezzo non finito, di feticcio senza feticista e senza referente, di oggetto rimosso in cui il “di più” di cui è stato investito lo consegna sì a una persistenza, ma anche a una resistenza.
Propongo una terza autocoscienza, per smembrare la dialettica: l’autocoscienza di questo pezzo non finito, di questa specie di figlio voluto dal capitale ma che adesso è di troppo.
Essere un semiasse accessorio, un semiasse che non collega nulla, che non potrà mai funzionare bene né rompersi.
Il Capitale: Un libro che non abbiamo ancora letto, di Kepler-452. Le prossime repliche si terranno il 5 marzo al Teatro Foce di Lugano e il 9 marzo al Teatro degli Animosi di Carrara.