di Francesco Bercic
Dopo il curioso epilogo dell’iter parlamentare del DDL Zan, con gli applausi scroscianti a Palazzo Madama di buona parte del centrodestra all’esito del voto segreto, sembra essersi rafforzata nel nostro Paese la convinzione secondo cui fra la rappresentanza partitica e il cosiddetto “Paese reale” – l’amalgama non ben definito che dovrebbe sintetizzarsi nella collettività tutta – fra la politica e la società dunque, esista una profonda discrasia, una lacerazione irrimediabile e preoccupante. Tesi rafforzata dai dati di astensionismo alle recenti votazioni comunali, che certificherebbero un disinteresse capillare, se non una vera e propria delegittimazione dei partiti stessi. La sicumera e la iattanza con cui tale idea viene suggerita – non solo nelle stories Instagram dei più svariati influencer (penso al coinvolgimento di Fedez nella vicenda Zan), ma anche fra gli opinionisti della primissima ora (e penso a Tomaso Montanari, che l’ha replicata poche settimane fa a “Otto e Mezzo”) – non sembra lasciar spazio a equivoci. Questi personaggi, di ogni colore e parte politica, paiono tutti dire qualcosa del tipo: “guardate cos’è la politica! cos’è diventata, quanto si allontana dalla (nostra) idea di giustizia…”. Ma è davvero così?
E se non fosse “la politica” a essere cattiva… ?
La vicenda Zan ha riproposto nella forma del dibattito pubblico (non è mia intenzione entrare qui nel merito della sostanza del disegno legge) uno schema già visto più e più volte: la netta divisione fra “giusti” e “reprobi”, fra chi, in questo caso, sosteneva a ferro e fuoco la proposta e chi, con ugual vigore, avrebbe voluto affossarla. Non c’è stato spazio per dialogare, tantomeno per scendere a compromessi; poiché dall’inizio ciò che contava non sembrava essere il merito della legge in sé, ma il sentirsi migliori, il piacere di stare dalla parte giusta, piacere che sussiste fintantoché c’è una scissione marcata con l’altro, con il reprobo appunto.
Ma questo tipo di polarizzazione moralistica è davvero circoscritto al sistema politico, o si tratta piuttosto di un fenomeno di proporzioni ben più ampie?
Tornando con la memoria ai primi mesi di pandemia, prima dei canti dai balconi e del “popolo che ne uscirà migliore”, quando la paura non veniva ancora mascherata dietro facili cliché, già questo crampo moralista covava nelle sensibilità degli italiani, come un primitivo senso d’odio che si incarnava in un’avversione spietata, e poco razionalmente giustificabile, verso particolari elementi sociali. All’inizio nei confronti dei runners, poi contro quelli che uscivano con il cane, insomma a turno specifiche categorie venivano additate come “untori”, rei dell’aumento dei casi e delle morti giornaliere. Oppure, si pensi al più ostico esempio dei No-Vax o dei No-Green Pass. Anche qui, indipendentemente da come la si pensi nel merito, nella stragrande maggioranza dei casi ad avere la meglio non è stata una critica razionale e pragmatica, ma il più bieco moralismo. Ancora una volta la sensazione di stare dalla parte giusta, contro quella sbagliata. Non serve accendere una tivù o seguire i talk show. Basta aprire un qualsiasi social network, leggere i più vari tweet: quasi sempre nascondono la stessa presunzione, la stessa logica.
Quindi, sarà proprio vero che è “la politica” a essere lontana (“anni luce”, dice sempre Montanari) dalla società? Sono proprio loro i cattivi, e noi i buoni? Forse no. Forse i partiti, nella loro indiscussa crisi strutturale, non fanno che replicare, spesso inconsapevolmente, dinamiche che c’appartengono molto più di quanto non vorremmo credere. Con conseguenze molto gravi che vanno approfondite.
È la moda che decide ciò che è giusto
Va intanto ribadito un punto importante: spesso, la moralistica divisone fra “giusti” e “reprobi” non ha a che fare con il merito delle questioni. Dunque, di per sé, all’interno del malato dibattito pubblico italiano, potrebbe aver ragione tanto il giusto quanto il reprobo. Il giusto ha sicuramente ragione nell’attraversare la strada sulle strisce, ma c’è un problema se, trovandosi a spiegare le proprie motivazioni, spesse volte egli non riesce a darne una spiegazione razionale, che non faccia semplicemente appello a una moralistica esaltazione. Il giusto si compiace a volte un po’ troppo della sua bravura, può capitargli di relegare un po’ frettolosamente gli altri non solo nella sfera dell’errore, ma addirittura in quella della stupidità e persino dell’intima inferiorità; porta antipatia e disgusto a fior di labbra, e ne ha in abbondanza per tutti i reprobi che se lo meritano. Come si diceva, l’errore è nella forma. Ma allora, cos’è che determina la sostanza? Cos’è che ha reso “giusta” la strenua difesa del DDL Zan, e “reprobi” coloro che – in certi casi persino dall’estrema sinistra – l’hanno criticata?
La moda, nient’altro che la moda, sembra imprimere nella collettività convinzioni e idee che poi ci vivono, ci abitano nella loro semplicità. Certo tutto questo può avere anche un aspetto positivo, ma solo nella misura in cui il loro abitarci si limita a una consapevolezza criticamente sostenuta. Ancora una volta l’esempio del DDL Zan risulta perfetto.
La moda, per esempio attraverso le dirette Instagram di Fedez, ha impresso – soprattutto tra una certa categoria di persone – la convinzione che il DDL fosse giusto a priori, ha convinto milioni di giovani della sua assoluta correttezza, e allo stesso tempo della malvagità e dell’ignoranza di chiunque osasse sollevare – anche da sinistra – critiche costruttive sul suo contento e sul suo senso. Ma quante delle persone scese in piazza a Milano per protestare contro la mancata approvazione del DDL, ne hanno effettivamente letto il testo? E’ legittimo domandarlo. E quante, invece, sono state convinte semplicemente dalla peer pressure del gruppo, dall’apologia mediatica dei più variopinti influencer, ossia dal flusso mediatico e sociale che le ha investite?
Ancora una volta: questa riflessione si svolge a monte di una valutazione sulla “bontà” del DDL Zan. Non si vuole discutere qui se sia giusto o meno attraversare sulle strisce. Il problema è piuttosto quello di evidenziare come ormai su ogni questione ci si allontani sempre più – e in partenza – da un dibattito critico, preferendo riproporre ossessivamente la vecchia, solita, trita polarizzazione moralistica tra “buoni” e “cattivi”.
Bisogna però prestare attenzione a questa deriva: perché, essendo da questo punto di vista cieca, la moda potrebbe un giorno finire per favorire moralisticamente, in maniera del tutto analoga, tendenze gravemente anti-democratiche, ambigue e dal retrogusto totalitario (come per certi versi sta già succedendo). È un crinale molto sottile. L’America da questo punto di vista è un laboratorio in cui possiamo specchiarci per provare a indovinare il nostro prossimo futuro: l’ideologia woke, l’estremismo della cancel culture, sono tutte parossistiche manifestazioni di una drammatica acriticità dei “giusti” (che spesso, appunto, tali sono, ma è proprio questo il problema).
Riconoscersi parte del problema
Il superamento del cosiddetto populismo, l’utopia di una sostenuta partecipazione elettorale, qualsiasi obiettivo che si proponga di rivoluzionare, reinventare o restaurare l’ambiente politico deve passare attraverso un profondo esame di coscienza individuale. Urge la presa d’atto di un fallimento ben più che partitico, il riconoscimento di una piaga moralistica collettiva, di cui inevitabilmente si risentono le conseguenze. Da dove nasce il Movimento 5 Stelle, se non da un’infantile sete di revanscismo sistemico, dalla comprensibile insofferenza verso una classe politica che si ritiene corrotta e impura? Da dove nascono il tema dell’onestà, e la celebre “questione morale”, come elemento costitutivo della Sinistra? E l’odio verso i migranti, su cui s’è costruita la campagna elettorale di quasi tutte le Destre, da dove trae la sua linfa apparentemente inesauribile, se non proprio da quella forma rovesciata di moralismo che è il vittimismo?
Se da un lato questa polarizzazione (vedi appunto la questione morale) ha viziato il dibattito pubblico in Italia almeno dagli ultimi decenni della Prima Repubblica, allo stesso tempo non possiamo non rilevare criticamente come questa sciagura sia stata perfettamente digerita dai social network e, più in generale, dall’evoluzione dei mezzi di comunicazione.
Siamo di fronte a un’incontrollata manipolazione di sentimenti che andrebbero piuttosto filtrati dalla (buona) politica, da un dialogo serio e capace di superare la logica binaria del “noi” e del “loro”, e che sono invece sempre più spudoratamente strumentalizzati, cavalcati dai media e dalla politica.
Ma la piaga siamo (anche) noi. Curare la responsabilità individuale è un atto d’amore verso sé stessi e verso quel poco che rimane del sentimento democratico. E come ogni atto d’amore, è innanzitutto un atto d’umiltà che chiama in primo luogo a riconoscere un rispetto, al limite beffardo e venato di ironia, ma pur sempre sincero, a tutti coloro che sono diversi da noi per opinioni, inclinazioni e scelte esistenziali.