di Nicola Gaiarin
Credere o fidarsi
Pensando al tema del Green Pass e del vaccino, mi pare sia in gioco una contrapposizione tra credenza e fiducia. Le due posizioni (pro e contro) rimandano a una strategia di sopravvivenza – perché in entrambi i casi, e questo ci accomuna, cerchiamo di darci dei punti di riferimento per combattere le nostre paure – diversa. Mi pare di poter dire che spesso le persone che, in un modo o nell’altro, appartengono alla variegata galassia no vax, siano mosse da un sistema di credenze molto solido. Le teorie del complotto, per prendere un estremo, si contraddistinguono, nella loro spinta paranoica, per essere in grado di dare una spiegazione a tutto. La paranoia genera mondi completi, senza buchi, in cui ogni evento ha una spiegazione ben precisa. Anche i ben più moderati sostenitori delle terapie alternative in opposizione a quelle “ufficiali” mi sembrano guidati da un’esigenza analoga. Ci si oppone alla medicina ufficiale non per aumentare, per così dire, il livello di variabilità e di incertezza della risposta (una risposta ufficiale potrebbe essere “integrata” da un punto di vista olistico, ad esempio, e questa mi sembrerebbe una posizione interessante), ma per cercare una riduzione della variabilità basata sul ricorso a certezze assolute. La medicina ufficiale è assolutamente sbagliata mentre la visione medica a cui aderisco mi offre una maggiore solidità e un maggior livello di certezza (vale anche il contrario, con chi si aggrappa a una visione miracolistica della scienza).
Cosa c’è di più rassicurante dell’andare alla ricerca di filosofie, scienze o saperi che offrono un significato complessivo agli accidenti della vita? Anche in questo caso si tratta di affidarsi e credere in visioni del mondo complete, in cui ogni eccezione viene riportata alla sua regola e la regola a un senso. E la completezza elimina i dubbi. Non voglio ridurre a macchietta le convinzioni personali, ma temo che per molte persone la scelta di non vaccinarsi (o di non “credere” nella medicina ufficiale) sia da riportare a brutte esperienze personali col sistema medico che portano a una situazione di paradosso. Invece di accettare, riconoscendo i difetti che stanno dietro all’idea di scientificità della medicina, che al mondo non esistono risposte certe, ci si rifugia in concezioni mediche o scientifiche alternative che garantiscono che ogni malanno, crisi, perdita, sia perfettamente spiegabile. Si rifiuta proprio il “non so” che ognuno di noi dovrebbe dire molte volte al giorno.
La mossa decisiva, in questo momento, mi sembra essere piuttosto quella che porta a spostarsi dalla credenza assoluta alla fiducia relativa. Alla domanda “tu credi nel Green Pass?” mi verrebbe da rispondere “no, ma mi fido”. È proprio perché non voglio affidarmi a un sistema di credenza che posso fare i conti con i buchi di senso dando fiducia a un provvedimento che presenta dei difetti e delle falle evidenti. Sapendo che i buchi non vengono mai riempiti del tutto, che continueranno a lavorarmi dentro, generando ansie e incertezze, ma dandomi, nell’incertezza, una strana voglia di andare avanti. Considero la fiducia come un credito limitato. Potrei addirittura dire che meno mi fido, più il mio investimento in fiducia deve essere alto. Mi devo fidare di più di chi ha un credito minimo in termini di fiducia. Se ho vissuto delle relazioni sentimentali tossiche, la strategia della credenza mi porta a essere convinto che al mondo non esistano persone che mi possano far stare bene, spingendomi a un ripiegamento e a una chiusura. La strategia della fiducia mi porta a dire che dovrei, invece, continuare a investire sulla possibilità di una relazione sana, fidandomi dell’altro anche se la garanzia del ritorno è ridotta. Il gesto etico radicale che ci viene chiesto di compiere è di identificare il discrimine tra l’assenza di fiducia e quel margine minimo, quella che forse Žižek chiamerebbe “differenza minima”, che mi permette di accendere il credito e iniziare a fidarmi.
Non posso davvero fidarmi di quello in cui credo in termini assoluti. Se si crede assolutamente non c’è bisogno della fiducia. Di un genitore, al limite, non ci si fida. Si crede nel suo sostegno incondizionato. Salvo poi scoprire che anche la figura genitoriale è “bucata” e che diventare adulti ci costringe a negoziare la relazione a partire dal riconoscimento della natura imperfetta dell’altro. Il beneficio del credere consiste in una visione completa del mondo, in cui a ogni dubbio corrisponde una risposta. E nel momento in cui ci si trova di fronte al trauma radicale della delusione, che manda in pezzi la credenza, si cercano posizioni ancora più assolute. Pensate a quelle considerazioni del tipo “Non mi fido degli uomini o delle donne, ma credo nell’amore”. Oppure “Ho avuto un sacco di esperienze lavorative pessime, ma credo che in questo modo l’universo mi stia mandando dei segnali per capire chi sono davvero”. Sono queste le formule che dominano buona parte del dibattito sul benessere personale e sulla libertà di trovare una visione del mondo che “fa per noi”. La scorciatoia della credenza contro la paziente e incerta costrizione della fiducia. È chiaro poi che se consideriamo come nostro diritto incondizionato quello di scegliere il sistema di credenze su misura per noi – come se fossimo in una situazione di medicina (o di spiritualità) on demand – il rischio è quello di passare in modo compulsivo da una visione del mondo all’altra, sempre alla ricerca di quella che “funziona” meglio, che ci può dare il massimo di sicurezza e di soddisfazione.
La crisi ci ha messo di fronte a una riduzione radicale delle possibilità di scelta. Mentre ci chiediamo a chi o in cosa credere, lo scenario pandemico ci costringe ad assumere il punto di vista opposto: ci dobbiamo fidare riconoscendo l’ineliminabilità del dubbio e dell’ansia. E la fiducia, secondo me, è una posizione positivamente debole. Immaginiamo un proclama in cui, anziché “credere”, si dicesse “fidarsi, obbedire, combattere”. Suonerebbe immediatamente ridicolo, ed è proprio la dissonanza cognitiva introdotta dal “fidarsi” il buon antidoto (stavo per dire vaccino) alla retorica del “combattente” che rappresenta uno dei dispositivi retorici odierni (retorica che è stata purtroppo cavalcata anche dai media, penso al tema dell’eroismo degli infermieri). La fiducia non mobilita e non ci rende più forti, costringe ad accordi locali e a fare comunità a partire dal rischio di avere, tutti assieme, riposto la fiducia nella causa sbagliata.
Per questo non credo assolutamente nella bontà del Green Pass, ma, in modo necessariamente non assoluto, mi fido del provvedimento.
Dispositivi (di protezione)
Questo sgombra il campo dalle specifiche considerazioni politiche o sanitarie? Certo che no. Il mio gesto di fiducia fa i conti in modo costante con le contraddizioni che ci vengono messe di fronte. Che il vaccino abbia avuto un corretto tempo di sperimentazione. Che i media siano allineati in modo preoccupante in chiave governativa. Che il Green Pass sia uno strumento di controllo sociale. Che la comunicazione istituzionale faccia aumentare la paura e i sospetti.
La comunità della fiducia è una comunità della minoranza e del dubbio, in cui le valutazioni caso per caso sono fondamentali, e ci spingono a negoziare quella linea minima di distinzione che porta dalla coppia ci credo/non ci credo a quella mi fido/non mi fido. Naturalmente, queste considerazioni lasciano aperta una serie di questioni. Non ultima quella della legittimità di una replica del tipo: “Capisco quello che dici, ma se alla fine del ragionamento dico di non fidarmi, allora giustifichi la mia non adesione?”. Sarei ipocrita se dicessi di avere delle risposte o delle ricette. Invito solo chi la vede diversamente da me a fare i conti con il proprio bilanciamento tra certezza e incertezza. Solo il fatto di assumere la propria condizione di dubbio, mettendo per un attimo fuori gioco le certezze che da qualche parte ci sia una spiegazione completa di quello che accade, ci può mettere sulla strada di un senso di responsabilità che ha senso solo se viene condivisa.
E il tema del lavoro e dei diritti? Io credo che il Green Pass, se si parte da una posizione di fiducia come quella che ho provato a spiegare, sia assimilabile a molti altri vincoli che, in modo molto più accettato, legano l’accesso lavorativo a determinate condizioni. Penso alla vaccinazione per certe categorie professionali (ai tempi del mio servizio civile in casa di riposo ricordo parecchi giri di vaccinazione obbligatori per il “mestiere” che stavo facendo). O penso anche al tema dei DPI, i dispositivi di protezione individuali (casco, scarpe, guanti, protezioni degli occhi e delle orecchie), che rappresentano delle condizioni non negoziabili per entrare in un reparto produttivo. Mi si dirà che è un esempio fuori luogo, perché in questo caso l’utilità è indiscutibile. Non è così, perché chiunque abbia provato a indossare delle protezioni per alcune ore sa benissimo che il disagio generato è spesso molto forte, che i movimenti vengono resi più difficoltosi e che, a volte, la protezione stessa, riducendo certi rischi ne aumenta altri (lavorare con i guanti riduce il rischio dei tagli ma aumenta in alcuni casi quelli legati al maneggiare attrezzi e componenti con minor sensibilità tattile). Quindi la vecchia storia del phármakon, il rimedio che è allo stesso tempo un veleno, ritorna fuori anche in questo caso.
Patologia e burocrazia
Chiudo con una presa di posizione più netta. Siamo anche e soprattutto “costretti” a fidarci in assenza di posizioni alternative (ma ci si può fidare essendo costretti? Non ce la faccio a non vedere i buchi in quello che dico, ma lo dico lo stesso…). Non vedo all’orizzonte proposte che possano essere più ragionevoli o praticabili di quelle attuali. A meno che non si voglia negare completamente la realtà del virus (ma di solito, come dicevo, lo si fa a partire da posizioni di certezza soggettiva che non mi sembrano sostenibili). Se accettiamo la condizione di crisi, mi pare che, nei suoi mille difetti, la strada del Green Pass sia una delle poche che, in modo concreto, sia praticabile in modo positivo.
Alla fine, il richiamo alla libertà individuale che si trova in molte posizioni “no vax” e “no green pass” assomiglia molto a quella forma di ragionamento che nei suoi romanzi JG Ballard ha formulato con precisione da chirurgo: nello scenario post capitalista, la forma di sopravvivenza mentale, perfettamente integrata nelle scelte forzate imposte dall’ideologia contemporanea, coincide con una strana ingiunzione a “scegliere la propria patologia” (James Ballard, Super-Cannes (2000), Feltrinelli, Milano 2002. L’opera di Ballard mostra benissimo l’alleanza tra il capitalismo e l’interiorizzazione del controllo sotto forma di libera scelta della propria perversione, della propria malattia, del proprio culto).
Non è solo la possibilità di aderire a una forma di terapia a essere rivendicata da molte persone, ma, con un rovesciamento di prospettiva ben più inquietante, l’affermazione della propria libertà passa attraverso la scelta di un’idea di malattia su misura. Esito estremo di una forma di individualismo che anche se non viene rivendicato a parole diventa un orientamento pratico, il richiamo alla libertà di interpretazione di quello che sta accadendo si riduce a formulazioni del “se anche il virus esiste è solo un’influenza” oppure “so bene che esiste già una cura che non vogliono utilizzare” o, ancora, “si tratta della reazione organica allo sfruttamento ambientale”. Ancora una volta, adesioni a visioni del mondo “complete” che nel concreto portano a legittimare il proprio “non ci sto”.
Paradossalmente, e qui voglio essere volutamente provocatorio, è l’atmosfera burocraticamente surreale evocata dagli ultimi provvedimenti, con l’inconfondibile puzza di soluzione “all’italiana”, a poterci davvero salvare. È il suo paternalismo di fondo, il suo essere un concretissimo fantasma di controllo, a rendere il Green Pass un modo per suturare il campo sociale polverizzato nel quale, da ben prima del virus, ci troviamo a vivere. È proprio la natura “idiota” del vaccino e del Pass, provvedimenti pieni di difetti, a renderli efficaci, indipendentemente dall’effettiva valenza terapeutica: operano come effetto placebo ideologico (non sto parlando, lo ribadisco, di un’efficacia pratica di cui, come detto, posso solo fidarmi) rispetto all’eccesso di interpretazione di chi nega la crisi creando complicate narrazioni su misura per tentare di dare significato a quello che accade.
E se fosse il fantasma burocratico a poter curare la paranoia da complotto e l’ideologia della terapia e della patologia on demand? In fondo potremmo dire che lo scopo finale del Green Pass potrebbe essere realmente quello di farci smettere di pensare. Solo che questo può voler dire almeno due cose diverse: ridurci tutti a una massa di pecoroni allineati al sistema, oppure rimetterci nelle condizioni di agire, in una nuova normalità, smettendola di inseguire forme paranoiche di libertà che coincidono nello scegliere la propria visione del mondo “patologica”. La mia ipotesi finale è allora questa: e se il vaccino fosse proprio il rimedio che, operando come una specie di elemento minimo del legame sociale, ci portasse a sgombrare il campo dalla medicalizzazione e dalla patologizzazione su misura che rappresenta il nostro sfondo ideologico?
Se fosse la burocrazia fantasmatica del Green Pass, nella sua stessa natura di controllo idiota, a consentirci di fare di nuovo comunità? La scelta del vaccino e del Green Pass potrebbe essere un modo per smontare il nostro schermo ideologico e ritrovare una verità difficile da sopportare: noi non siamo le nostre patologie personali. Al limite, siamo i nostri fantasmi sociali.