Il Papa, il Sacrario di Redipuglia e la retorica della pace

di  Davide Pittioni

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Non era passato neanche un mese dall’incontro voluto fortemente da Papa Francesco tra il leader palestinese Abu Mazen e il presidente israeliano Shimon Perez nei giardini di casa (I giardini Vaticani), quando cominciò la sciagurata operazione militare Margine di protezione da parte dell’esercito israeliano, accompagnata – come da copione – dall’escalation bellica nel territorio palestinese. Parole spese per i servizi dei telegiornali, per i commentatori che subito lo definirono “storico”, senza nemmeno aspettare i suoi risultati – sarebbe bastata qualche timida iniziativa di riavvicinamento reale, non solo simbolico, delle parti, in fondo – in quella che sembrava essere diventata una nuova Oslo. Aperitivo, strette di mano, magari un Nobel e poi tutti di nuovo a contare i morti, a piangere lacrime sulle foto di bambini e famiglie, a seguire le panoramiche di una Gaza macellata sotto razzi e carroarmati. Non che il Papa ne fosse colpevole, ma non si può dire che a molto servì quel suo sforzo “storico”. Annunci, si direbbe in politica. Preghiere, si dice invece dall’altra parte e qui, oggi. Ancora altre preghiere, altri raccoglimenti, questa volta per l’inutile strage di Benedettoquindicesima memoria. Morì di crepacuore, quel Papa.

Pensi questo, o forse no, anche se poi lo scrivi, quando parti da Trieste per tornartene a Udine, in un venerdì pomeriggio umidiccio. Fervono i preparativi per la visita lampo del Papa, di questo Papa così amato, che ha una preghiera sulle labbra per tutti e dispensa lezioni morali al mondo intero, ma con umiltà, con i sandali ai piedi. Ci vuole riverenza con un Santo Padre, è vero, ma non puoi fare a meno di considerarlo un fratello pellegrino, con quel suo sorriso solare, quelle sue trovate struggenti e cattura-simpatia, prima Lampedusa, poi Gaza, adesso Redipuglia. Chi non gli vuole bene? Chi potrebbe criticarlo? La rockstar in tunica, che gira in Panda e telefona agli sconosciuti (un tempo si chiamavano scherzi telefonici). È bastato qualche anno: una ritoccatina all’immagine, qualche aggiustamento degli ingranaggi più rumorosi e svariati Angelus indignati, e i margini di crescita per il brand cattolico sono di nuovo in positivo. Bello e pronto per essere lanciato sul mercato della speranza.

Accosto la macchina alla transenna che sbarra la strada verso il Sacrario e mi rivolgo ad un agente. “Si può accedere a piedi?”, chiedo rimestando le ultime dosi di simpatia destinate alle forze dell’ordine che mi rimangono. Lui sorride gentile, “certamente” mi dice, e con la paletta interrompe addirittura il traffico per farmi ripartire. Come? Neanche un “circolare, grazie”? Simpatico ed educato: che cazzo sta succedendo, mi chiedo, stuzzicato dall’idea di un’infrazione qualunque per risollevare lo spirito dell’Arma. Abbandono il capriccio e parcheggio. Passeggiando, percepisco in effetti un’aria troppo rilassata. È la vigilia della visita, seppur breve, dell’uomo più acclamato del nuovo millennio – forse il secondo, dai – e il laborioso Friuli è all’opera con spirito calmo e fraterno. Strane cose, sarà lo Spirito Santo. Per fortuna una bestemmia mi raggiunge dal bar e riprendo colore. Vedo quattro agenti antisommossa in mezzo alla strada, un po’ prima della rotonda, messi lì a mo’ di spartitraffico. Con un “boh” sulle labbra non posso che chiedermi il loro significato, e pensare alla guardie svizzere, e poi al nulla. Ma in questo venerdì di preparativi sono loro i protagonisti.

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Mentre scorrono le transenne, mi avvio verso il Sacrario. La Protezione Civile è all’opera, e questa non è una notizia. Smontano transenne da un camion, ridenti e a centinaia. Proseguo mentre passo i primi baracchini dove le casse di Lasko sono già preparate. Anche se il Papa ha rivolto l’invito perché sia un’occasione raccolta e non troppo festosa, mi stupirei se il giorno seguente trovassi facce torve e in lutto. Lui, almeno, ha annullato la sfilata sulla Papamobile, quelle dei saluti e delle fermate per le benedizioni di neonati in braccio a neomadri in lacrime. Sarà invece una frugale traversata a bordo di un auto coperta. E le bandierine ci saranno? La risposta arriva dal negozietto sistemato alla stazione dei treni da cui sbuca un alberello di bandierine giallo-bianche e altri souvenir, come tazze, libretti, magliette. Il marketing che si mette in moto, ma più timidamente di quanto mi aspettassi. È la distanza che inizia a scavarsi tra le parole e i fatti, come se una patina di calorosa benevolenza si depositasse sui futuri discorsi dal Papa, e una pacca simbolica sulla spalla venisse fraternamente data al sant’uomo: “Ma si, goditela, anzi no, godiamo noi, tu prega e accollati i mali del mondo”.

Intanto sbuca da dietro una siepe un “ristorante” argentino:

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Delle foto di Che Guevara – non una, ma diverse – ricoprono il bancone. Il Papa è ormai pronto per la triade che balla il tango: il Che, Maradona e lui. È questo il marketing, il consumo bulimico di icone e immagini di cui si nutre il nostro tempo. E allora qualunque cosa, anche la più sovversiva, la più esplosiva, finisce nel tritacarne mediatico, in una spirale che espelle la carica trasformativa di ogni messaggio e centrifuga tutto il resto, lo snatura omogenizzandolo, e poi te lo rivende in un barattolo con etichetta ammiccante. La famosa opera d’arte era in fondo più che profetica: dentro quel barattolo troverai solo merda. Alla fine, abbandonando con lo sguardo quello squarcio postmoderno, penso che si tratti semplicemente di un monito che recita pressapoco: “Che Guevara, almeno, la rivoluzione l’ha fatta veramente”.

È così che inizio a chiedermi il significato della preghiera, non in senso teologico, ma comunicativo. Senza tirare in ballo l’oppio dei popoli e la vita eterna, si pensa che la preghiera (per i credenti) o la riflessione (per i non-credenti) possono essere l’anticamera dell’azione, la presa di coscienza di un mondo da trasformare attraverso la propria vita. E se invece questo semplice assunto fosse ribaltato? Se quel momento di preghiera fosse l’azione stessa, che rincuora e consola dai mali del mondo per lasciarli intatti e inalterati? Un bel modo di mettersi il cuore in pace, salvo poi scatenarsi in sofferenti filippiche sull’indifferenza. Papa Francesco, che è un accorto comunicatore, aveva coniato la felice e famosa espressione “globalizzazione dell’indifferenza” , invitando poi tutti a pregare perché le cose, religiosamente, cambiassero. Come dire indifferenza o preghiera. E durante l’omelia del sabato il tutto sarà plasticamente confermato nella contrapposizione tra “a me che importa” (che all’ombra del Sacrario suona come un fascistissimo “me ne frego”) e “il momento del pianto”.

In questo luogo che abbandona l’indifferenza, che sbatte perfino il muso sull’emblema della morte in guerra, sul monumento di Redipuglia, la macchina organizzativa lavora alacremente. I tombini vengono sigillati, le unità cinofile portano a spasso i cani, le pattuglie pattugliano: è probabilmente il vero evento. Quando si parla di indotto, di ritorno economico, mediatico, ecc. si parla di questo: dell’evento preparatorio che si muove dentro l’evento innalzato a immagine, ovvero l’arrivo del Papa. E quando arrivi al Sacrario ti trova di fronte all’attesa catturata nelle divise militari che si aggirano nel piazzale. In un evento pubblicizzato come inno alla pace sono loro i primi attori: militari, che solo nelle nostre democrazie malate possono passare per emissari di pace. Ma in missione per conto di Dio, evidentemente.

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L’impressione non tarda a confermarsi. L’organizzazione è infatti curata dall’Ordinariato militare e dallo Stato Maggiore dell’esercito e per tutta la giornata di sabato assisterò a una lunga sfilata di ex-alpini, militari di alto rango, carabinieri con le famiglie, finanzieri in uniforme tirata.

Quando arrivo, la mattina prestissimo, le cose potrebbe apparire diversamente. Siamo ancora lontani dalla solennità della Messa in Sacrario e non mi resta che incolonnarmi insieme a questi pellegrini con ombrello e zainetto per cercarmi un posto dove osservare il Papa scendere dalla sua auto. Prima tappa, il Cimitero austro-ungarico. Vengo superato da una suora, cosa che non dovrebbe apparire stravagante, se solo non abbassassi lo sguardo per cogliere ai piedi di questo esserino un paio di Hogan. Una suora con le Hogan: neanche Lapo Elkann è così incredibilmente controcorrente. Questa scena mi richiama alla mente un’altra immagine, registrata poco prima quando ero in coda con l’auto. Un vecchietto in pantaloni di tuta bianchissimi che faceva jogging con il cappello da bersagliere in testa. Abbinamenti improbabili che iniziano a disegnare nella mia mente la silhouette di questo popolo papalino, che alla domanda di perché abbiano fede in un’epoca così smaliziata, materialista e incredula ti risponde, gonfiandosi di orgoglio: “è la cosa più rivoluzionaria che ci sia; e il Papa ne è l’esempio”. Glielo concedi e ti piazzi dietro le transenne a fianco del cimitero austro-ungarico a pochi passi da un gruppo di bambini delle scuole elementari di Fogliano, eletto all’incontro con Papa Francesco.

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Nell’attesa osservo la situazione. L’apparato di sicurezza è vastissimo, me ne rendo conto quando mi passa davanti un uomo alto in abito gessato grigio che nel sistemarsi la giacca scopre la pistola. Sembra uno 007, chissà se ha licenza di uccidere, mi chiedo. Arriva un agente dell’unità cinofila, c’è uno zaino appoggiato ad un albero, e senza pensarci qualche secondo urla preoccupato: “di chi è questo zaino?”. Un uomo della protezione civile alza la mano, “ah ok” e si scambiano qualche battuta divertentissima. “Ho due panini nello zaino”, “Perfetto, uno per me e uno per il cane”. E poi le solite magagne per la prima fila. Quando l’ora si avvicina l’eccitazione sale, si cerca lo scorcio giusto, si fanno le prove tecniche per la foto e sorge il problema degli ombrelli. La gocce di pioggia cadono come avvisi di garanzia sulla Milano da bere, ma questo popolo non demorde, sorride, è gentile e ogni tanto si incazza.

Finalmente, dopo tanta attesa – c’è gente che è qui dalle sei del mattino – arriva. Scende da una golf – su twitter si leggerà “che pubblicità per la Wolkswagen!” o “è stato Ratzinger a consigliargliela” – e dopo un cenno con la mano si avvia dentro il cimitero. Ha la faccia scura, sembra respingere il boato accompagnato dall’applauso che il pubblico gli riserva.

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Le persone attorno a me hanno gli occhi lucidi. Scattano le foto alzando cellulari e macchinette oltre il muro del cimitero. Una signora di bassa statura mi chiede di scattare una foto per lei, perché oltre l’ostacolo non ci arriva. Lo faccio, e lei si illumina come una bambina, non smette di ringraziarmi, neanche le avessi salvato la vita. Il Papa nel frattempo esce lentamente e si intrattiene con i bambini che dal mattino erano stati preparati a dovere: “mi raccomando eh”, un agente in borghese con solennità aveva detto loro. Da ogni direzione è una pioggia di “grazie Francesco”, di lacrime, di frasi in spagnolo incomprensibili, di estasi. Lui, però, sembra rapito da altri pensieri, schiacciato da un peso gravoso; è invecchiato e ha la faccia gonfia. Stanco, direi, se l’occasione non suggerisse che sia semplicemente in uno stato di costernazione, di dolore.

In effetti, quando aprirà la Messa la sua voce sarà affaticata, rotta. Solo nell’omelia il suo tono acquista vigore: “Trovandomi qui, in questo luogo, vicino a questo cimitero, trovo da dire soltanto: la guerra è una follia”. Ribadisce poi il concetto della terza guerra mondiale combattuta a pezzi e ammonisce gli “affaristi della guerra, questi pianificatori del terrore”. Nel caso specifico sembra prenderci, abbracciato com’è da divise e vessilli militari. A fianco me un uomo con un binocolo prova a inquadrare la sua figura, ma gli ombrelli gli coprono la visuale. Una signora è al telefono, dice che lei è lì, della sua emozione, mentre un concilio di vere cristiane si indigna: “poteva andare al bar a telefonare”. Io cerco di appuntarmi le frasi del Papa, il “a me che importa, bisogna sostituire il pianto”, ma la mia attenzione viene catturata da una bandiera che inizia a sventolare nel piazzale antistante il Sacrario. Guardo bene e, sì, la bandiera è italiana, ma monarchica, con lo stemma dei Savoia.

Sento come una stonatura, non di una nota, ma dell’intera sinfonia. Perché si celebra la pace e il messaggio del Papa è chiaro, inequivocabile, ma sembra calato in tutt’altro contesto, in mezzo a una parata militare, alle sue rigidità gerarchiche che segnano gli spazi, alla disposizione da caserma che circoscrive il momento alla recita di un copione falso e dove la pace, questo oggetto buono per ogni stagione, è il surrogato facoltativo della necessità di un bene superiore. Per farla breve, basta un elenco di elementi: i saluti militari, le musiche che accompagnano la Messa, la presenza del ministro della difesa che ha appena consegnato delle armi ai curdi, il Silenzio, suonato in ricordo dei caduti, prima eroi e poi vittime, prima di guerra e poi della pace. E il Sacrario: questa maestosa montagna di pietra di epoca fascista, costruito con la chiara intenzione di glorificare il primo conflitto e di manipolarne la simbolica nella costruzione accurata dell’immaginario fascista. E anche se la sua lunga conversione in epoca repubblicana lo fa apparire ora come monito e ricordo dell’inutile sacrificio di migliaia di soldati, resiste sottinteso anche il suo significato recondito, patriottico, monumentale. Su una roccia si legge: “O viventi che uscite, se per voi non duri, e non cresca la gloria della patria, noi saremo morti invano”.

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Lo sforzo complessivo di far passare un’immagine di pace – patriottica, ma tollerante, militare, ma filantropa – sembra più che altro la contorsione di un vecchio con l’artrosi. Scricchiola e poi si spezza. È un’ipocrisia che il Papa è costretto a subire, facendo buon viso a cattivo gioco. Decide, a differenza di Giovanni Paolo II, di visitare anche il cimitero austro-ungarico, nel tentativo di universalizzare il momento della memoria, ma poi si trova impastoiato nella ragnatela furbesca di una cerimonia italianissima. Glielo suggeriscono gentilmente quando il capo di stato maggiore gli consegna il foglio matricolare del nonno, bersagliere nel primo conflitto mondiale, poi emigrato in Argentina.

Mentre mi avvio verso casa, continuo a ripensare a quello che ho visto. Mi viene in mente che Renzi ha dato forfait la sera prima e una domanda mi vortica in testa senza trovare risposta: dove erano gli scout?

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