Il pieno e il vuoto. Il corpo nel sistema

di Sara Nocent

Il sistema. Il sistema è colpevole di tutto. Sempre. Contro il sistema si punta il dito, si dice che dovrebbe essere smontato pezzo per pezzo, distrutto o, nella migliore delle ipotesi, cambiato. Ma che cos’è il sistema? Esiste veramente quell’entità sovrannaturale invocata e stigmatizzata da tanti indignati sui social, che scoraggia gli elettori panchinari dal provare a cambiare davvero, nel micro delle loro vite quotidiane, una politica che ormai sembra essere marcia dalle radici? Sì, esiste, ma non è né sopra né sotto, non schiaccia, non spinge: il sistema è dentro. Il sistema siamo noi. L’urgenza di riflettere su cosa sia davvero questo famigerato “sistema” sorge – ora più che mai – dalla tragica consapevolezza che, nell’attuale bellum omnium contra omnes e nella società scistosa e priva di solidarietà che siamo diventati, la vecchia logica binaria del “pro” o del “contro” è ormai un’arma sempre meno efficace. Così, se non riusciamo più a capire chi sono i buoni e i cattivi, non ci resta che ingaggiare una furiosa quanto inutile lotta passiva contro la famigerata struttura e ripetere, come cantava Gaber in Chissà nel socialismo: “È colpa del sistema la mia immobilità”.

Possiamo scagliarci contro quelle che per noi sono regole ingiuste, ma in realtà, finché non abbiamo messo a fuoco il vero nemico, la nostra rabbia ci renderà solo più funzionali alla macchina della produzione costante: la rabbia è il miglior lubrificante che esista, ci permette di non pensare ed è esattamente di questo, di assenza di pensiero, che il regime ha bisogno per continuare a esistere. Il sistema è anaerobico. Il sistema ha già vinto. Tentare di combatterlo come se fosse un nemico esterno è inutile, non solo perché esso è radicato in ognuno di noi, ma anche perché – finché non ci adattiamo alla sua strana logica – ogni lotta presuppone una biunivocità, un “noi” contro “loro”, una netta separazione, una diversità. Anche se, a ben a vedere, questa supposta diversità, che ci piacerebbe poter sempre stabilire tra il “noi” e il “loro”, spesso non c’è affatto. Infatti, quando inveiamo contro quello che ci sembra essere l’ordine immutabile delle cose, costituito da regole che seguono sempre logiche insensibili e i bisogni di qualcun altro (a seconda delle nostre convinzioni diciamo che il sistema favorisce i potenti, i maschi, gli stranieri, etc), dobbiamo renderci conto che quel regime che in tutti i modi cerchiamo di additare e di porre il più possibile lontano da noi è in realtà radicato nella nostra esistenza. Per capire meglio questo punto potrebbe essere utile avvicinarsi al pensiero di Foucault, espresso in Sorvegliare e punire, secondo cui il potere è pervasivo, capillare e produce una realtà in cui l’individuo stesso è “principio del proprio assoggettamento”.

È inaccettabile, lo so. Vedo già molte persone contorcersi e aggrapparsi alle proprie convinzioni per evitare il rischio di dubitare, di pensare, di scivolare nella verità. Al sistema non interessano le ideologie, o meglio, queste gli danno solo una mano per continuare a riprodursi. Per questo motivo il sistema non può essere giudicato né giusto né sbagliato, né amico né nemico. Una visione morale, umanizzante, del sistema è sufficiente a farci perdere del tutto contatto con ciò che esso è realmente. L’essenza del sistema, infatti, è il vuoto. Il vuoto è la vera sostanza che permette all’attuale regime delle cose di esistere. Per usare un’espressione filosofica si potrebbe dire che il non-essere, questo vuoto, la non-verità, è ciò che costituisce l’essere. Il sistema è l’al di qua a partire da cui si creano le “verità” morali e binarie che ci orientano nella vita. Il vuoto, ovvero la non-pienezza, il non-pensiero. Tutto si può negare nel vuoto tranne la vita, la quale è la sua prima necessità, il suo unico obiettivo: il sistema ci permettere di continuare ad esistere in un certo modo e, allo stesso tempo, ha bisogno della nostra vita, del nostro corpo per riprodursi. Dentro ognuno di noi vi è una forza di svuotamento, che ci rende dei contenitori sempre pronti ad essere attraversati dal flusso delle cose. Sì, la realtà è liquida, come direbbe Bauman, ma noi siamo resistenze alienate, depositi provvisori di merci inutili, mode di pensiero, personalità diverse, tanto che oggi sono questo, ma domani posso essere qualcos’altro, posso avere qualcos’altro e così via. Al punto tale che oggi un novello Kierkegaard si troverebbe del tutto a suo agio nello scoprire fino a che punto il centro dell’individuo e la sua essenza siano costituiti esattamente dall’instabilità e dall’indecisione derivanti da queste possibilità incombenti.

Si scava nella zucca e come la polpa è l’umanità. Smettiamo di essere umani per continuare a vivere, se per vivere si intende essere accettati dagli altri e interagire con loro per perseguire il fine comune (non umano, ma del sistema) della produzione, della continuazione del flusso. In passato questa forza di svuotamento ci veniva imposta esclusivamente dall’esterno, attraverso, per esempio, il controllo e la disciplina delle istituzioni totali descritte da Goffman o da Foucault stesso. Ma già con l’avvento dei media di massa, del neoliberalismo e in particolare nel fenomeno del consumismo, all’uomo è stata proposta una falsa libertà di scelta che ha in realtà scavato passo dopo passo il suo vuoto attuale. Questa finta libertà, di scelta e di espressione, in fondo, non è mai stata altro che la costituzione del vuoto stesso: la modalità politica fondamentale attraverso cui si sono scavate e impresse nell’uomo, facendogliele apparire come sue libere scelte, le scelte obbligate, sempre già prese, del mercato. Ma il fatto più inquietante è che questo meccanismo, un tempo limitato all’economia, si è ormai esteso a tutti gli ambiti della nostra vita: dobbiamo essere vuoti che amano, lavorano e consumano in un certo modo. Io dico di no. Dico di no alla negazione del soggetto e sottolineo la necessità di opporre a questa serie di vite vuote che costituisce il sistema un corpo pieno, un corpo “consapevole”. Questo pensiero mi è stato suggerito dalla lettura de L’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari, in cui si parla del “corpo pieno senza organi”, senza “desideri”, ovvero pura “anti-produzione”. Non dovrebbe essere difficile, quindi, una volta entrati in quest’ottica, immaginare una pienezza concreta, determinata dalla consapevolezza radicale, quasi schizofrenica del proprio corpo, di quella cosa che siamo e che il potere attraversa, asservisce, ma che non può mai governare completamente. Lacan, negli anni Cinquanta cercava di spiegare tutto questo attraverso la sua celebre e metaforica distinzione tra quelle che definiva “parole piene” e quelle che chiamava “parole vuote”. In questa metafora il “pieno” rappresenta il “vero” come un qualsiasi atteggiamento – anche involontario – che sia capace di rivelare al soggetto stesso che ne è l’autore qualcosa del proprio inconscio. La parola piena schiude un orizzonte che non è dell’ordine della descrizione, del vero contro il falso, ma piuttosto quello di una strana “verità” che il soggetto/il paziente/il sistema non voleva dire a se stesso.

Dobbiamo recuperare la nostra soggettività, percorrendo al contrario quel processo di oggettivazione, insito anche in certa psicoanalisi, che tende a trasformare – fin dalla nascita – il nostro corpo parlante, patente e in relazione in un Ego controllato e controllabile, permeato e permeabile, dal sistema. Che conseguenze potrebbe avere a livello psichico, sociale e politico un tale rifiuto, un simile percorso “a ritroso”? La prima immagine che verrebbe in mente è quella di un corpo svuotato, che non può fare altro che opporre al sistema un atteggiamento passivo, ma una tale concezione è errata. Il corpo, infatti, in realtà, è pieno. Il corpo non si astiene, è sempre pieno, anche quando non lo sa: il corpo pieno agisce e lo fa prima di tutto su se stesso, attraverso un’implacabile autocritica e una misteriosa forma di riflessività (che non ha nulla a che fare con l’autocoscienza). È necessario guardarsi, uscire di testa, se volete, per riuscire a riconoscere e intaccare le strutture del sistema che ci abitano, che stanno dentro noi. Mi rendo conto della difficoltà di questo cammino, ma voglio pensare che si possa partire da piccoli passi, per esempio dal cercare sempre di approfondire criticamente le informazioni e le competenze che troppo spesso acquisiamo passivamente; dal coraggio di rimettere gioiosamente in discussione, senza paura, le nostre convinzioni e i nostri presupposti. Riuscire ad essere “umani” è già un modo per uscire dal sistema.

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here

Ti potrebbe interessare