di Giovanni Tomasin*
«Se non faremo l’impossibile ci troveremo di fronte l’impensabile». Murray Bookchin
Alla fine dell’agosto scorso il generale in pensione ed ex direttore della Cia David Petraeus ha suggerito di armare alcune componenti di al-Nusra, il ramo siriano di al-Qaida, per combattere il sedicente Stato islamico. Di primo acchito potrebbe sembrare l’ennesimo riflesso pavloviano del Pentagono: armare gli islamisti ha funzionato contro i sovietici negli anni ’80, funzionerà contro l’Isis, poco importa che il califfato sia l’esito finale di quella stessa operazione afghana. Si tratta invece di una predisposizione al patto con il diavolo che pare affliggere buona parte degli analisti occidentali orientati a una soluzione “realista” della crisi. Una pulsione che, considerato il numero di diavoli in azione nel conflitto siriano, potrebbe costare caro.
Il monumentale Diplomacy di Henry Kissinger dipinge con efficacia l’alternarsi, nella storia della politica estera americana, di due correnti di pensiero: l’eccezionalismo messianico, volto a perseguire la missione storica degli Usa come faro della libertà nel mondo, e un realismo d’impronta più europea. Il primo è storicamente associato ai presidenti democratici, il secondo a quelli repubblicani. L’equazione è rimasta pressoché valida fino alla presidenza Clinton. George W. Bush e i circoli neoconservatori hanno rovesciato i termini della questione in otto anni di amministrazione radicalmente interventista e unilaterale. I risultati sono noti. Dopo la sbornia neocon, il realismo è tornato di moda: alla fine del suo mandato il presidente Barack Obama, in patria accusato spesso di avere un atteggiamento naïve, ha dimostrato invece di aver appreso discretamente le lezioni della scuola di Kissinger. Le operazioni di avvicinamento a Cuba e all’Iran che la Casa Bianca ha portato a compimento sono improntate a uno schietto realismo. Molto meno l’atteggiamento tenuto nei confronti della Russia nella crisi ucraina, su cui sono pesati da un lato l’insofferenza personale del presidente americano verso l’omologo russo, dall’altro i forti legami che i vertici della Nato e della diplomazia Usa in Europa orientale ancora mantengono con l’approccio dell’era Bush. Ma la Siria, come vedremo, si è rivelata un rompicapo del quale Washington non riesce a venire a capo.
Anche in Europa il richiamo a un approccio realista risuona sempre più frequente sui media e nelle cancellerie. L’arrivo di decine di migliaia di rifugiati alle porte dell’Unione ha aggravato la percezione europea del conflitto, mettendo in difficoltà tanto i governi nazionali quanto i vertici di Bruxelles. In questi giorni non è difficile trovare negli editoriali dei media europei una proposta che fino a un anno e mezzo fa era considerata impraticabile negli ambiti mainstream: elevare al rango di interlocutore il regime di Damasco pur di combattere l’Isis, visto ormai come la minaccia principale agli equilibri regionali. Spagna e Austria sono arrivate a rompere il tabù proponendo ufficialmente un cessate il fuoco con il regime.
Purtroppo «il nemico del mio nemico è mio amico» è una carta ormai difficile da giocare nello scenario siriano. Ogni mossa in un senso o nell’altro porta con sé risvolti imprevedibili. La norma realista richiede una pragmatica tolleranza delle bizzarrie in politica interna di un interlocutore, fino a quando questo può essere utile nel raggiungimento del fine perseguito. I potenziali referenti siriani, però, finiscono inevitabilmente per interferire con questo o quell’attore regionale.
Una collaborazione delle potenze occidentali con Damasco sarebbe quantomeno problematica. Abbandonare il mantra del regime change (scelta che almeno per il momento Washington non pare intenzionata a prendere) guadagnerebbe il plauso della Russia – che sta alzando visibilmente il proprio grado di coinvolgimento nel conflitto – e dell’Iran – con cui la collaborazione è già avviata sull’altro fronte della guerra all’Isis, quello iracheno. Si scontenterebbero però il governo turco le petromonarchie della Penisola arabica: il primo è un fiero nemico di Assad, le seconde sono ossessionate dall’ombra del grande avversario sciita, Teheran. Non va dimenticato lo stato di Israele, che non vedrebbe di buon occhio il dialogo con un governo legato a doppio filo con l’Iran e l’odiato Hezbollah. Inoltre la situazione sul campo non disegna uno dei momenti più felici per le forze governative, demoralizzate ed erose dai troppi fronti aperti.
L’altra opzione, quella vagheggiata da Petraeus, è un’estensione della via seguita finora, e consiste nell’estendere il sostegno militare anche ai gruppi ribelli meno “presentabili”. Armare gli integralisti in funzione anti-Isis susciterebbe una tacita soddisfazione ad Ankara, Riyad e negli emirati, ma la scelta risulterebbe alquanto sgradita a Teheran e alla Russia, che vedrebbe minacciata la sua base militare in Siria. Non ultimo, ammesso che sia possibile abbattere il regime e sconfiggere l’Isis in questo modo, i precedenti in questo senso non hanno avuto esiti felicissimi.
Riallacciare il dialogo con Assad, puntando magari a un suo ritiro volontario al termine del conflitto, o appoggiarsi anche ai ribelli più estremisti pur di battere lo Stato islamico. Si tratta di un bivio in cui ambo i rami sono giustificabili secondo i principi della scuola realista. Colpisce però come entrambe le opzioni releghino in secondo piano l’unica formazione che sul terreno siriano è riuscita a infliggere sonore sconfitte all’Isis: i guerriglieri di Ypg e Ypj, le braccia militari del Pyd, il partito dei curdi siriani gemellato con il Pkk del Kurdistan turco. Ovvero l’altra grande forza laica rimasta nel paese oltre al regime.
Non si vuole qui fare l’apologia del Pkk. Il passato dell’organizzazione è ambiguo e spesso sanguinoso: ancora oggi è pervaso dal culto della personalità del suo fondatore, Abdullah Öcalan. Ciononostante dal 2005 a oggi il movimento curdo ha subito una radicale trasformazione politica, abbandonando l’ideologia al contempo leninista e nazionalista che l’aveva caratterizzato fino a quel momento. Rinchiuso in un carcere di massima sicurezza nel mezzo del mar di Marmara, Öcalan ha scoperto i testi del teorico americano del municipalismo libertario, Murray Bookchin: l’incontro intellettuale fra il filosofo del Vermont e il guerrigliero curdo ha generato il confederalismo democratico, attuale programma politico del Pkk e dei movimenti ad esso affiliati.
I guerriglieri hanno dato prova di notevole duttilità ideologica, interiorizzando la svolta dettata dal leader nel giro di qualche anno in modo quasi unanime. Oggi le organizzazioni legate al Pkk perseguono una politica libertaria, ecologista, socialista e femminista. Al di là dei proclami formali, tutti gli osservatori sul campo confermano che le aree della Siria controllate dal Pyd sono gestite in base a un sistema democratico assembleare, volto in modo esplicito a tutelare il mosaico etnico-religioso di quelle terre. Se a questo si somma l’efficacia ineguagliata dimostrata nella lotta contro l’Isis, i curdi dovrebbero essere l’interlocutore ideale per le diplomazie occidentali, realista o meno sia la loro linea. In fondo, un rapporto simile è già stato stabilito con la regione autonoma del Kurdistan iracheno (il cui governo è un antagonista politico del Pkk). Per la Siria ciò non avviene e le ragioni stanno a nord, oltreconfine. In Turchia.
La marea con cui l’Isis ha inondato la Mesopotamia ha trovato da subito nel Pkk e nei gruppi ad esso affiliati una spina nel fianco. L’anno scorso i guerriglieri provenienti dalla Turchia hanno avuto un ruolo di primo piano nella battaglia contro l’Isis in Iraq, schierandosi a fianco dei peshmerga del Kurdistan iracheno per arginare l’offensiva islamista. Subito dopo i curdi di Ypg sono intervenuti nelle montagne dello Sinjar, sconfinando dalla Siria, per prestare soccorso agli yezidi assediati. Nel luglio del 2014 il califfato ha tentato una rappresaglia, attaccando in forze la cittadina di Kobane, capitale di uno dei tre cantoni controllati da Ypg in Siria. Se l’Isis fosse riuscito a prendere il controllo della città, avrebbe diviso i due cantoni rimanenti, ponendo le basi per la distruzione del movimento curdo nel paese. Com’è noto, il tentativo è fallito e all’inizio del 2015 gli islamisti hanno dovuto ritirarsi lasciando sul campo una schiera di cadaveri.
L’atteggiamento della coalizione anti-Isis in questo frangente è sintomatico. Dopo un’esitazione iniziale gli Usa hanno accordato a Ypg e Ypj una copertura aerea che ha avuto un ruolo rilevante nella vittoria. Non hanno però acconsentito alla richiesta principale dei guerriglieri: la fornitura di armamenti. L’Isis dispone infatti di un arsenale avanzato, frutto di saccheggi ai danni dell’esercito e dei ribelli siriani, nonché delle forze armate irachene. I curdi possono avvalersi quasi esclusivamente di armi leggere. La ragione di tanta cautela da parte di Washington nell’armare la fanteria più efficace nella lotta all’Isis si spiega con i malumori di un altro membro della Nato: la Turchia.
Dopo aver sostenuto nei primi anni di governo una politica di apertura verso i curdi, avviando uno storico processo di pace, negli ultimi tempi il presidente turco Recep Tayyip Erdogan sta invertendo la direzione di marcia. Durante la battaglia di Kobane l’esercito turco, schierato sul confine, ha boicottato sistematicamente la resistenza curda. Al contempo manteneva quella che, nel migliore dei casi, appare come un’indulgente indifferenza nei confronti dello Stato islamico. L’atteggiamento del governo si è inasprito ancora dopo il voto del giugno scorso, quando il partito di Erdogan, l’Akp, ha perso la maggioranza assoluta alle elezioni; per la prima volta il partito curdo Hdp, vicino al Pkk, ha oltrepassato la soglia di sbarramento del 10% conquistando 79 deputati.
In luglio un attentato kamikaze ha ucciso una trentina di giovani in procinto di partire per una missione di solidarietà a Kobane nella città di Suruç, nel Kurdistan turco. Secondo il Pkk i servizi segreti di Ankara avrebbero lasciato fare, se non addirittura aiutato, gli attentatori. Nei giorni successivi due agenti di polizia turchi sono stati uccisi in un attacco di cui il movimento curdo si è assunto la responsabilità. Alla fine del mese l’esercito turco ha avviato una vasta operazione militare, salutata dai media internazionali come l’inizio della guerra di Ankara contro l’Isis. A qualche mese di distanza la realtà dei fatti è che, dopo qualche attacco cosmetico ai danni dello Stato islamico, le forze armate turche restano interessate più che altro alla distruzione del Pkk. L’impresa si sta dimostrando più ardua del previsto, la parte sudorientale del paese sta precipitando nella guerra civile. Nel frattempo Erdogan si accinge a chiamare gli elettori a elezioni anticipate sulla cui trasparenza, in pieno conflitto, è difficile non covare dei dubbi.
Mentre tutto ciò avveniva in Turchia, i curdi siriani estendevano i territori sotto il loro controllo sottraendo ulteriore terreno all’Isis e unendo i due cantoni orientali. L’offensiva turca contro il Pkk, però, ha privato il Pyd di un vitale retroterra logistico. I guerriglieri temono ora una possibile invasione da parte dell’esercito turco, giustificata dalla pretesa di combattere il califfato.
In tutto questo gli Stati uniti, e l’Europa al loro traino, mantengono un ruolo paradossale. Dopo l’inizio del conflitto con il Pkk la Turchia ha concesso a Washington l’uso della base Nato di Incirlik per i raid della coalizione anti-Isis (singolare che un paese che formalmente faceva parte di quella coalizione non l’avesse fatto fino a quel momento). Nel frattempo gli Usa continuano a fornire il supporto aereo alla guerra che il braccio siriano del Pkk conduce contro il califfato, proprio mentre a pochi chilometri Ankara, stato membro della Nato, mette in atto una repressione sanguinosa contro il ramo turco di quello stesso movimento.
Sul campo il Pkk-Pyd ricopre un ruolo di primo piano. Esso scompare, però, nelle proposte improntate a un presunto realismo: sia Petraeus che scommette su al-Qaida, siano gli analisti europei che sperano in un accordo con Assad. Al massimo ci si chiede come risolvere “la questione curda” in Turchia ma, fatta eccezione per gli ambiti della sinistra radicale intenti a lucidare l’icona di Ypg, il destino dei territori autogovernati dai curdi siriani non sembra interessare nessuno.
Come tutte le scelte in questo conflitto, dare un peso al Pyd nella futura Siria post-bellica non è un’opzione a costo zero: susciterebbe l’ira della Turchia e porrebbe il problema dei rapporti con il governo di Damasco, qualunque forma esso debba prendere. Eppure manterrebbe in vita la più avanzata proposta democratica e laica emersa in Medio oriente dal ribollire delle Primavere arabe. È un dato evidente eppure ignorato: ciò si deve a una forma di miope pragmatismo e alla cautela nei confronti di un’Ankara sempre più brutale e spericolata, ma anche a ragioni di ordine ideologico.
Dal punto di vista militare i curdi non hanno una potenza alle loro spalle, ciò li rende poco interessanti per le analisi geopolitiche sempre attente alle aree di influenza. Dal punto di vista politico il confederalismo democratico stona con il malcelato orientalismo con cui l’Europa guarda al «mondo islamico»: l’esistenza di un movimento post-nazionale, laico e libertario in Medio oriente risulta del tutto inconcepibile. Infine la collocazione nella sinistra radicale del Pkk lo rende vittima di una cecità selettiva che costituisce un fenomeno di carattere generale del nostro tempo.
Sparito il Pkk da tutti i radar, gli analisti occidentali continuano a proporre soluzioni ottocentesche a un problema quanto mai attuale e a un nemico, lo Stato islamico, inserito a pieno nel nostro tempo. Come i «sonnambuli» che nel libro di Cristopher Clark portarono all’esplodere della Grande guerra, rispondiamo secondo abitudine a sfide nuove, potenzialmente distruttive. Proprio nel momento in cui bisognerebbe pensare alla futura stabilità del Mediterraneo con autentico, spregiudicato realismo.
* Articolo pubblicato su mimesis-scenari, lo riproponiamo qui con il consenso della testata