di Francesca Ruina
C’erano una volta un prima, un poi e un dopo. Tutte le favole si articolano in questo modo: una premessa, uno sviluppo lineare e un evento catastrofico che trasforma i rapporti di forza (o il carattere dei protagonisti), instaurando un nuovo stauts quo che generalmente prelude al più classico dei “lieto fine”. Anche la favola filosofica funziona più o meno così, in particolare quella raccontata in grande stile dal più raffinato e acuto di tutti i cantastorie del grande gioco della filosofia: Hegel. Il ritmo ipnotico di questa favola consiste nella celebre triangolazione tesi-antitesi-sintesi, attraverso cui l’indiscusso maestro del genere ha scandito nella Fenomenologia la finalistica e portentosa progressione della Storia Universale.
Molto più spesso di quanto non sia possibile rendercene conto, capita a tutti noi di considerare il presente e l’attualità assumendo proprio il punto di vista di questa classica (e tutt’altro che banale o insensata) triangolazione hegeliana. In questo articolo vorrei provare ad indagare quella strana malattia “del ritorno” che molti intellettuali (e non) traducono sempre più frequentemente in una sorta di ambigua nostalgia per un mondo idilliaco e perduto, a cui non solo non sono mai appartenuti, ma che forse addirittura non è mai esistito. I due principali sospetti che mi ispira questa nuova forma di “nostalgia” sono in primo luogo quello connesso ad una certa evidente stanchezza che sempre trapela da ogni posizione cosiddetta “nostalgica”, e in secondo luogo l’implicito edipismo che trasuda da ogni rimpianto dei bei valori perduti.
Ricostruiamo dunque brevemente, e ironicamente, la storiella dialettico-filosofica attraverso cui generalmente giustifichiamo a noi stessi lo sfacelo della nostra attualità socio-politica. Il “prima” è la legge di Edipo, l’ordine, i sacri valori. Il “prima” è quel potere assoluto e totalitario rappresentato dal fascismo, coi suoi diktat e la sua virile morale di facciata ben inquadrata in un ferreo sistema di valori (pur continuamente e allegramente trasgredito). Alla caduta del fascismo segue poi la rapida americanizzazione della società italiana, che coincide storicamente con la lunga e “fortunata” stagione politica della Democrazia Cristiana. Durante questo lungo periodo di transizione – che ha condotto da quello che Pasolini chiamava il vecchio fascismo, al nuovo fascismo consumistico-capitalista – i ferrei valori cristiani (che avevano rimpiazzato quelli macho-nazionalistici, tipici dell’epoca fascista), entrano sempre più in rotta di collisione con quelli contrabbandati dalla contestuale e irresistibile ascesa del consumismo capitalista.
In questa nuova paradossale situazione (siamo a cavallo tra gli anni Sessanta e i Settanta) comincia il “poi” che ci interessa; quel “poi” che si chiama Sessantotto.
Il Sessantotto, nella storiella, rappresenta infatti la catastrofe, il tentativo di distruggere quel padre-padrone assoggettante (incarnato a turno dal fascismo, dal cristianesimo e dal consumismo americano). Ed eccoci così arrivati al gesto-Pasolini, quello che molti intellettuali di sinistra ancora oggi non gli perdonano, ma anche quello da cui altrettanti intellettuali di sinistra resteranno per sempre catturati e affascinanti. Il gesto-Pasolini è per sempre legato al celebre episodio della Battaglia di Valle Giulia, il grave e cruento scontro tra sessantottini e forze dell’ordine – consumatosi nella Capitale il primo marzo 1968 – a cui Pasolini dedicherà i celebri versi de “Il PCI ai giovani”, schierandosi sorprendentemente dalla parte dei poliziotti; definendo questi ultimi come i veri “figli dei poveri” e dipingendo invece gli studenti come dei “figli di papà arroganti e viziati”. Ma qual è stato davvero il senso di questa “sparata” pasoliniana?
Il comunismo di Pasolini non è mai stato partitico o ideologico (anche se, a dire il vero, militò nel PCI friulano finché non fu espulso nel ’49 per “oscenità”). Il “comunismo” di Pasolini è stato sempre qualcosa di viscerale, come il suo amore, disperatamente erotico, per il sottoproletariato e la sua presunta purezza incontaminata. C’era in lui una sorta di bruciante scissione tra pancia e cuore, una scissione che lo stesso autore indicava frequentemente come il vero motore della sua vena artistica. La scissione tra mente e corpo, angelo e demone, intellettuale borghese e sottoproletario immaginario, brilla selvaggiamente (ed esplode folgorante) in ogni sua opera, come ad esempio nell’indimenticabile poesia Le ceneri di Gramsci – dall’omonima raccolta del 1957 – dove Pasolini scrive: “lo scandalo del contraddirmi, dell’essere con te e contro te; con te nel cuore, in luce, contro te nelle buie viscere”. Sono proprio quelle “buie viscere”, forse, ad aver sempre condotto Pasolini al di là di un discorso politico tradizionalmente inteso, lontano cioè sia dalla sinistra tradizionale sia dalle lotte sessantottine. La vera angoscia di Pasolini era forse, piuttosto, la trasformazione in atto – a cui assisteva impotente – di un intero popolo in massa; una trasformazione che – seppur in maniere differenti e contrapposte – era supportata sia dalla capitalistica DC, sia dall’ormai ultra-isituzionlizzato Pci, sia addirittura – anche se in maniera rovesciata – dalle sfumature maoiste e leniniste di cui andavano colorandosi la protesta studentesca e quella operaista.
Il “dopo” della nostra storiella, la sintesi hegeliana, il tragico lieto fine, è proprio ciò che Pasolini chiamerà la “mutazione antropologica”: il passaggio dal vecchio fascismo a quel “Potere senza volto” che lo scrittore friulano descrive senza sosta negli interventi giornalisitci che andranno a costituire il corpo degli “Scritti corsari”. Un “Potere senza volto” di cui la Dc non era altro – secondo Pasolini – che un docile e imbarazzato burattino semi-inconsapevole. La mutazione antropologica, per Pasolini, non era altro che l’omologazione e l’universalizzazione di un nuovo spaesante imperativo morale: godi! Il nuovo-fascismo capitalista stava producendo sotto i suoi occhi il livellamento di tutte quelle variegate (e spesso perverse) forme di soddisfazione individuale che le sottoculture regionali e proletarie si erano inventate nel corso delle loro secolari (e particolarisitche) storie.
È forse per questa ragione che Pasolini si è lasciato andare ad una critica così feroce dei sessantottini, bollandoli al contempo come la perfetta emanazione dei loro genitori, e come dei trasgressivi capricciosi che non facevano altro che lasciare inalterata la sostanza di quella legge morale che pretendevano di distruggere portando l’immaginazione al potere.
Per rovesciare il piano della critica rivolta da Pasolini agli studenti di Valle Giulia, ci si potrebbe chiedere però, malignamente, se non persistesse invece – proprio nell’uomo Pasolini – una qualche forma irrisolta di conflittualità edipica. La figura del padre infatti, sociale e biologico, ha insistito in maniera soffocante nella sua opera come nella sua vita, imbrigliandolo in mille “devi!” che si trasformavano automaticamente in golosi assist per altrettante trasgressioni “viscerali” (si vedano le poesie dialettali dedicate all’odiato genitore, o anche opere come Affabulazione o Edipo re, dove il tema del padre è dilagante).
La verità potrebbe essere che una parte di Pasolini non aveva proprio voglia – non in senso razionale, ma proprio a livello di quelle buie viscere citate poc’anzi – di vedere sfumare i confini tra le classi sociali, né di sentirsi egoisticamente privato di quella cultura popolare, da lui così visceralmente amata, e che certamente un’eventuale rivoluzione comunista avrebbe cancellato allo stesso modo di quella capitalista (si ricordi la fine fatta dai Kulaki durante la nascita dell’Unione Sovietica).
Forse Pasolini non aveva proprio voglia di uscire dall’Edipo, proprio come capita spesso a tutti noi – nelle nostre più banali quotidianità – di non aver voglia di uscire da quel ben oliato circolo legge/trasgressione attraverso cui ci garantiamo uno straccio di soddisfazione. Questo circolo, curiosamente, riproduce proprio la ricorsività della favola filosofica hegeliana da cui siamo partiti: l’astuzia della ragione ci porta a desiderare sempre (e profondamente) che la legge che ci opprime continui a esistere, perché questa legge è proprio ciò che scandisce il ritmo delle nostre trasgressioni, e quindi delle nostre soddisfazioni. Si ricordi il geniale documentario pasoliniano Comizi d’amore, dove il regista mostrava fino a che punto i giovani (meridionali) intervistati fossero ben poco inclini a trattare esplicitamente argomenti riguardanti la loro vita sessuale, lasciando sibillinamente intendere che la cosiddetta “liberazione sessuale” non gli interessava poi molto, e che per loro il sesso poteva continuare ad essere (solo) una trasgressione meravigliosa intrisa di fascino e segreti.
Ecco che allora emerge forse il rovescio inquietante della pur geniale intuizione pasoliniana riguardante la “mutazione antropologica”. Ritenere ogni possibile cambiamento, marxista-leninista o capitalista che fosse, un attentato alla specificità dei valori particolaristici del popolo, non potrebbe essere stato forse proprio il desiderio, a sua volta omologante, dello stesso Pasolini? Questa difesa del “prima” non potrebbe essere stata paradossalmente – proprio nelle buie viscere del poeta – la manifestazione di un suo desiderio di omologare quel popolo che tanto amava in quella pietrificante immagine idilliaca e nostalgica che proprio lui – da borghese – se ne era fatto? Non potrebbe essere stato proprio questo desiderio “egoistico” di non veder svanire sotto i propri occhi l’oggetto del suo amore, ad aver spinto Pasolini a quella forzata apologia dei valori perduti, dei padri smarriti, dei soggetti omologati, alienati e disumanizzati?
Se tutto questo si è svolto nel poeta ad un livello massimo di tensione emotiva e di coraggiosa auto-esposizione pubblica, il vero pericolo odierno mi sembra essere quello che il gesto-pasolini dilaghi come nuova moda del mondo intellettuale (e non solo). Sempre più spesso, infatti, veniamo tentati dal pur tacito rimpianto dell’ordine dei Padri, sempre più spesso ci assale la nausea prodotta dal disordine godereccio della società dei consumi, e allora ci lasciamo andare al rimpianto, alla nostalgia di un sistema di valori tradizionale che – per altro – non abbiamo mai condiviso. Abbiamo forse dimenticato che al di là del rimpallo tra narcisismo consumistico-capitalista e nostalgia/senso di colpa per i valori perduti, esiste in realtà – da sempre – una terza via? Questa terza via, alternativa sia al narcisismo immaginario sia al mea culpa simbolico, e che pure si produce come un isterico rovesciamento al loro incrocio, è quella che Lacan chiamava il Reale.
Quello che resta quasi sempre escluso dai nostri discorsi è proprio il Reale, quel reale che ognuno di noi è, e che forse sarebbe capace di spezzare (se solo fosse preso un po’ più in considerazione) quel vano e autocommiserante lamento che ci sospende tra una tacita nostalgia del passato e una nauseata constatazione della vacuità del presente. Invece di affannarci a diagnosticare e dimostrare la realtà, non sarebbe forse piuttosto il caso di cominciare a costringerci a vivere il reale del mondo contemporaneo, immergenodoci e lasciandoci sommergere, invece che cercare di difendercene pavidamente attraverso la continua “ricreazione” di sempre nuovi post o neo -ismi? I post e i neo -ismi servono soltanto a placare il grido di orrore che ci assale provenendo dal non-senso quotidiano, trasformandolo in una lamentosa ma più pacata litania.
Non si fa alcun passo nel reale finché ci si abbandona a rimpianti e vecchie/nuove categorizzazioni identitarie; piuttosto si entra nel reale spingendo il capitalismo verso il suo punctum di extitmité, verso il suo limite, cogliendolo nella sua “evenemenzialità”, cioè nel suo proprio accadere in noi stessi, qui e ora. Questa torsione vertiginosa è quella indicata da Lacan nella sua personalissima rivisitazione della celebre sentenza freudiana “Wo Es war, soll Ich werden” (“dov’era l’Es, deve avvenire l’Io”), che l’analista francese traduceva in “Là dov’ero, io devo avvenire”. Essere nel reale vuol dire fare l’esperienza, hic et nunc, di una bruciante impossibilità, della propria indefinibilità, del nostro essere sempre una soglia che non solo non vuole, ma che ormai ha la certezza di non poter più rincasare ogni sera nella comoda circolarità legge/trasgressione scandita dall’Edipo.
“Del padre si può fare a meno a condizione di servirsene”, scriveva Lacan. E questo è forse proprio quello che dovremmo imparare a fare oggi: ricavare dalla mancanza di soddisfazione (e di valori) un nuovo inedito collante socio-simbolico, senza rimpiangere più niente di tutto quello che abbiamo perduto, ma cercando piuttosto, con gioia, di costruire insieme qualcosa di nuovo a partire dal niente, dall’impossibile, cioè dal reale che ci accomuna. Come scrive Rocco Ronchi in un suo bellissimo saggio, “se non sarà finalmente posta la domanda sul reale del capitalismo, il fascismo sarà sempre trionfante”. Almeno finché non porremo a noi stessi la domanda sul reale del capitalismo che ci abita, fino a quel momento – insieme allo strisciante nuovo-fascismo del consumo – continueranno a trionfare sempre anche tutti gli “-anti”, e tutti gli “-ismi”, che da sempre sono eretti come muri del pianto personalizzati, e che da sempre ci servono per autorizzarci a piangere – al sicuro e al riparo da noi stessi – le nostre reali lacrime di coccodrillo.