di Andrea Muni
Premessa
In questo piccolo approfondimento ripercorrerò i momenti salienti del Simposio, cercando di attualizzarli attraverso il meticoloso commento che Lacan fa di questo celeberrimo testo nel suo Seminario VIII. Il transfert.
Prima di iniziare questo piccolo tuffo nel Simposio, credo sia importante ricordare la profonda differenza che separa i testi pervenutici di Platone (specialmente alcuni), e le filosofie variamente ispirate all’insegnamento dell’Accademia. Come è noto, infatti, la tradizione platonica si divide in scritta e orale, dottrina della idee e dottrina dei principi (L’Uno e la diade). A questo secondo filone – che affonda le proprie radici nei Misteri – si raccordano alcuni dei più tardi dialoghi platonici, i quali non sono però che la punta essoterica dell’enorme ice-berg esoterico dell’Accademia, un tesoro segreto le cui traccie possono essere oggi ricostruite storicamente solo a partire dall’analisi dei cosiddetti successivi “platonismi”: da Plotino ad Agostino, dallo gnosticismo al sufismo, risalendo fino alla filosofia rinascimentale e persino alla stessa alchimia. Non bisogna dimenticare infatti che gli insegnamenti esoterici dell’accademia sono stati la fonte di ispirazione per molte filosofie che appaiono sensibilmente distanti dai dialoghi platonici.
Cos’hanno davvero a che fare Agostino, Plotino o Cusano con la maieutica socratica (che, ricordiamolo, ci proviene pur sempre da uno scritto di Platone)? Veramente poco o nulla, eppure gnosticismo e sufismo, Agostino e i francescani, Cusano e Bruno erano “platonici”; così come erano platonici Paracelso, Campanella e tutta l’alchimia rinascimentale e buona parte della iatrochimica secentesca, nella loro reazione al tomismo, alla scolastica e alla medicina galenica.
La supposta maggiore idealità del platonismo rispetto all’aristotelismo si declina storicamente, a volte, in modi del tutto particolari e addirittura bizzarri: i “platonisti” del rinascimento si fanno infatti portabandiera di un rinnovato interesse per le proprietà qualitative della materia, di una sua quasi-venerazione, per tornare poi a dedicarsi – nel XVII secolo – a tutta una serie di teorie che riscontravano nell’idea la scintilla fondamentale della verità. Questa posizione è in fondo ancora anche quella di Descartes, gesuita di formazione aristotelica in cerca di fruttuose autocritiche; ma quel che stupisce davvero è che essa può ritrovarsi addirittura nel presunto iper-materialista Spinoza. Il filosofo ebreo infatti – dopo aver creato l’inedito ponte etico tra verità e felicità – non ha potuto fare a meno di collocare la felicità stessa a livello di quella che egli stesso definisce, in maniera inequivoca, l’”idea vera”. Per non parlare, infine, delle posizioni pienamente platoniche di Galileo riguardo alla consustanzialità di dio e delle verità metematiche, o del concetto di spazio-tempo newtoniano, ereditato – come ha provato Koyré nel suo bel libro Dal mondo chiuso all’universo infinito – dalle speculazioni filosofico-teologiche del platonico di Cambridge Henry More (1614-1687).
In questo breve approfondimento, saccheggiando l’inesauribile freschezza del testo platonico, vorrei azzardarmi a problematizzare, da un punto di vista contemporaneo, quelle che sarei tentato di definire “alcune delle dominanti banalizzazioni politiche dell’amore in cui sguazziamo quotidianamente”. Il mio intento è quindi doppio: da un lato, riflettere sull’eredità e sull’ambiguità politica del Simposio e dei dialoghi di Platone (al netto di ogni approccio storicistico/storiografico, nostalgico e moralizzante); dall’altro osservare come i cliché sull’amore di cui Platone si prende gioco nel Simposio siano non solo ancora attualissimi nella loro immortale (ed efficacissima) struttura di luoghi comuni, ma addirittura come essi siano a tutti oggi ancora i modi più gettonati e quotidiani di per definire l’amore.
La riflessione storico-filosofica sul pensiero di Platone ha tradizionalmente e sistematicamente sorvolato la portata ferocemente ironica di molti dei suoi dialoghi, una portata che potrebbe essere invece essenziale non misconoscere per provare a comprendere davvero storicamente quale potesse essere il reale valore sociale e politico svolto dai dialoghi platonici nel loro tempo. Platone è stato infatti da sempre – e in primo luogo – un filosofo politico, un uomo della polis, un nobile e un cittadino ambizioso che, come i suoi contemporanei, assisteva impotente alla decomposizione (e sottomissione) dell’impero ateniese. Come hanno sostenuto in molti, i dialoghi di Platone hanno una funzione puramente essoterica; essi sono probabilmente delle pillole ironiche e ultra-semplificatorie di una filosofia mistica che lo stesso Platone aveva innestato sul ceppo politicamente reciso della dialettica socratica. La dialettica di Socrate infatti, a sua volta, potrebbe essere concepita come il primo tentativo teorico-pratico, nella storia dell’occidente, di limitare la pretesa umana alla verità entro i limiti del discorso. Da questo punto di vista il misticismo di Platone e il realismo logico-dialettico del “suo” Socrate si compenetrano perfettamente. Con la diffusione dei suoi dialoghi Platone cercava di produrre, nell’Atene del suo tempo, una destabilizzazione logico-dialettico-politica che si proponeva contemporanemente di risolvere attraverso gli insegnamenti esoterici dell’Accademia. Non considerare la dimensione politica del pensiero di Platone significa infatti, a mio avviso, abdicare in partenza a una qualsiasi possibile comprensione storica e politica delle sue opere, per lasciarsi andare piuttosto a un’esegesi filosofeggiante delle sue opere la cui vena è ormai da tempo inaridita. Come non interpretare politicamente l’opera di un filosofo che, per due volte, si è fatto l’equivalente odierno di una traversata trans-oceanica, solo per poter provare l’ebbrezza di comandare per un po’ su di un tiranno?
La filosofia è una forma politica di produzione di verità: verità sulla conoscenza, verità sul bene, verità sull’uomo, verità sulla verità, verità sulla filosofia. Far filosofia è sempre un tentativo di influenzare e affascinare gli altri (da cui io stesso non mi estraggo, sia ben chiaro). La storia della filosofia dovrebbe forse, infatti, essere considerata come nient’altro che una grande isterica lotta politica per la strumentalizzazione della filosofia stessa, della conoscenza, dell’uomo e della verità. Non si può pensare di volgere lo sguardo alla storia della filosofia liberandosi dal proprio desiderio e dalla propria personale politica della filosofia. Louis Althusser, aforisticamente, aveva centrato meglio di chi scrive il segreto politico della filosofia, affermando che “in ultima istanza, la filosofia è lotta di classe nella teoria”.
Conosci te stesso (ovvero quel che ti manca)
Il Simposio non è un dialogo giovanile di Platone, bensì un dialogo maturo in cui il tradizionale precetto socratico-platonico “conosci te stesso” subisce una radicale e inedita trasformazione. Se infatti è vero che l’eros in Platone rappresenta una delle forme privilegiate di accesso alla conoscenza di sé, è vero anche al contempo che esso conduce ad una forma di riconoscimento quantomeno paradossale. L’eros conduce infatti, per Platone, a riconoscersi in una mancanza, in un’assenza. Il soggetto in stato di eros, ci dice Platone per bocca di Socrate nel Simposio, fa esperienza di sé come mancanza.
Socrate: Dunque il nostro uomo, può essere chiunque, che brucia di eros, brucia per qualcosa che non ha in pugno, che non è attuale; o meglio, brucia per ciò che non possiede, brucia per ciò che lui non è, per ciò di cui sente il vuoto: tutto questo è oggetto del caldo desiderio suo, del suo eros?
Agatone: Per forza.
(Platone, Simposio)
Socrate definisce così l’oggetto erotico: il rovescio – nel senso in cui si dice il rovescio di una fodera – della mancanza che noi stessi siamo. Lo stato erotico – che lo si traduca in termini di amore o di desiderio è per ora indifferente – conduce inevitabilmente a un’esperienza di sé come mancanza (e non come “mancante”). Il riconoscimento di una mancanza che ci abita è precisamente l’effetto di eros, e non la sua causa; ma al contempo eros è – paradossalmente – anche la forza stessa che ci obbliga a cercare di inglobare, a portare dentro di noi, e financo a diventarlo, l’oggetto del nostro desiderio.
Prima di iniziare la nostra rilettura del Simposio proporrei schematicamente due piccole essenziali precisazione storico-culturali, senza le quali sarebbe difficile entrare almeno un minimo nel mood erotico-sentimentale della Grecia classica.
1) Eros, per i greci e per Platone, è altra cosa dalla filia; eros è l’amore in quanto desiderio, in quanto grande passione, in quanto pulsione passivo-aggressiva a con-fondersi con l’oggetto. Inoltre, per Platone, il rapporto amoroso più perfetto e virtuoso, quello a cui ci si riferisce principalmente nel Simposio, è il rapporto tra un amante, maschio, di età superiore ai trenta, e un amato, altrettanto maschio, preferibilmente intorno ai dodici anni di età. Nel Simposio possiamo osservare inoltre come Agatone e Socrate, pur sembrandoci bisticciare, si trovino di fatto al banchetto in qualità di amanti, un particolare non può non trasformare ai nostri occhi il senso e la natura stessi del loro dialogo.
2) Il concetto di reciprocità amorosa era escluso dalla cultura greca. Nella coppia greca, in particolare in quella che oggi definiremmo pederastica, le posizioni erano essenzialmente due e molto ben definite: l’eromenos e l’erastes. L’oggetto amato e il soggetto amante. Un particolare da non sottovalutare in questa dinamica è che il ruolo attivo sessualmente era interpretato dall’erastes, cioè dal mancante, dal desiderante, mentre il ruolo passivo era sostenuto dall’eromenos, dall’oggetto amato. Tutto questo quasi a conferma del fatto che il desiderante doveva letteralmente, e senza metafore, “possedere” l’oggetto amato per soddisfarsi, per colmare la propria mancanza attraverso il proprio eccesso. Al nostro concetto di reciprocità i greci opponevano un concetto che a noi oggi suonerebbe assai curioso, un concetto che attraversa tutto il Simposio, che vedremo inizialmente messo in luce allegoricamente da Fedro attraverso il mito di Achille, e che sarà di nuovo inscenato alla fine (durante il racconto di Alcibiade del suo imbarazzante “momento” con Socrate).
Per i Greci non esisteva reciprocità di eros, esisteva piuttosto una forma di rovesciamento ben più sconvolgente: l’apice di eros si produceva – per i greci – quando l’oggetto amato/desiderato si trasformava in soggetto amante/desiderante, cioè quando l’oggetto desiderato – scavato e animato dal desiderio dell’altro – iniziava ad invidiare/desiderare la mancanza/godimento vissuta da colui che mostra di desiderarlo. L’arte di chi desidera infatti, era per i greci quella di saper scatenare nell’altro il desiderio di una mancanza: questo è il tema cruciale del Simposio, nonché la vera questione che lo percorre dal discorso iniziale di Fedro alla scenata finale del perverso triangolo tra Socrate, Agatone e Alcibiade.
Fedro e l’amore-dio
Entriamo dunque nel testo, saltando purtroppo – per brevità – tutte le gustose facezie che precedono l’inizio dei vari discorsi sull’amore.
Quando, dopo cena, giunge il momento di discorrere, Erissimmaco, autorizzato da Agatone che è il padrone di casa, nomina Fedro simposiarca suggerendogli di proseguire il discorso sull’amore che il giovane gli ha poc’anzi abbozzato in privato. Il discorso di Fedro è una vera e propria apologia dello stato amoroso. Il giovane si rifà in primo luogo alle autorità di Parmenide ed Esiodo, arrivando infine a sostenere che chi si trova in stato di eros è davvero capace delle cose più grandi e nobili. Per corroborare questa tesi Fedro adduce tre esempi: il primo è quello negativo di Orfeo, mentre gli altri due sono esempi positivi, dotati però di un differente grado di perfezione: Alcesti e Achille.
Il discorso di Fedro è a tutti gli effetti un discorso teologico, Amore per i greci era infatti un dio, il tono del giovane deve essere quindi immaginato solenne e sacerdotale.
Fedro: Eros è dio possente, miracolo nel mondo e in cielo […], è fra gli dei più millenari, e ciò lo fa prezioso. Esiste la prova. Eros non ha genitori. Nessuno ne parla, né poeta né scrittore comune. Esiodo giura che per primo apparve Caos, e subito dopo Terra ampio petto, base d’universo adamantina, ed Eros.
(Platone, Simposio)
Questa premessa teologica è essenziale per cogliere il senso del primo dei discorsi del Simposio: per Fedro parlare d’amore è parlare di teologia. Non a caso il suo discorso si concluderà indicando il tipo di manifestazione d’amore che risulta più gradita agli dei.
È molto importante considerare che il suo discorso comincia con un’introduzione di questo genere, perché ancora adesso, per molta gente, come ad esempio nella tradizione cristiana, parlare d’amore significa parlare di teologia.
(J. Lacan, Seminario VIII)
Il discorso di Fedro tocca uno dei grandi topoi trans-storici dell’amore, uno di quei luoghi comuni che, a tutt’oggi, sono ancora ben presenti nel nostro immaginario collettivo. Fedro ci dice infatti che l’amore è un legame contro il quale ogni antagonismo finisce per infrangersi. L’amore vince su tutto, su tutte le avversità, contro ogni sventura, e rende migliori umanamente, fisicamente e moralmente.
Se si inventasse un modo per far sì che uno stato, o un campo militare, fossero fatti tutti d’innamorati con i rispettivi belli, non si potrebbe pensare un modello più alto di governo, cioè quello costituito da gente che – rinunciando a ogni impudicizia – duellerebbe in ambizioni oneste e scenderebbe in campo aperto, spalla a spalla, con una forza tale che saprebbe battere – lo dico forte – tutto il mondo.
(Platone, Simposio)
Per Fedro l’amante e l’amato sono la coppia morale per definizione, ma ciò non toglie – racconta il giovane – che esistano differenti gradi di purezza. A questo proposito Fedro offre in primo luogo l’esempio negativo di Orfeo – deprecandolo come nulla più che un pavido inventore di stratagemmi che ha fatto la fine che si meritava, per poi passare all’esempio positivo di Alcesti, applaudendolo come una rara dimostrazione di virtù, e giungendo infine ad indicare nel sacrificio di Achille la manifestazione d’amore più gradita agli dei.
Ad una prima lettura non è facile cogliere bene quale sia la radicale differenza tra il gesto compiuto da Alcesti e quello compiuto da Achille. In entrambi gli esempi infatti i protagonisti appaiono ugualmente disposti a morire per amore: ma la differenza sostanziale tra i due sacrifici amorosi è da ricercare in un punto in cui Fedro precisa, in maniera apparentemente inutile e ridondante, che Achille era l’amato di Patroclo, non l’amante, implicando con ciò che la differenza tra Achille e Alcesti riguardava una loro differente posizione rispetto al desiderio.
Alcesti ha infatti sacrificato la propria vita – per Admeto, suo marito – trovandosi già in posizione amante. Questa sfumatura è forse difficile da cogliere per noi oggi, ma, come premesso poc’anzi, essa era decisiva per i Greci (e per Platone), lo era perché in essa sono racchiusi tutto il segreto, e lo stupore, provati dai Greci per quello che essi ritenevano essere il vero miracolo dell’amore: l’oggetto desiderato che si trasforma, che diventa, che si identifica col soggetto desiderante. Un fenomeno che noi oggi, con un gergo psicanalitico, chiameremmo identificazione (di cui Freud non ha mancato di evidenziare i rapporti con lo stato di innamoramento e addirittura con gli stati di ipnosi). È per questi motivi che Fedro può concludere dicendo che ciò che causa sommamente ammirazione negli dei è il momento in cui il desiderio dell’amante produce, nell’oggetto amato (l’eromenon), l’esperienza di una mancanza – cioè il desiderio stesso. L’oggetto degno di venerazione si trasforma vertiginosamente in – in soggetto amante/desiderante (erastes) – per opera di un desiderio che lo sfida, lo sconvolge, lo intacca. Questo è ciò che in effetti accadde ad Achille, il quale uccise Ettore per vendicare il suo amante (erastes) Patroclo, pur sapendo che questa azione – oltre a non poter ovviamente riportarlo in vita – lo avrebbe addirittura condannato ad una morte prematura.
La frase finale di Fedro infatti recita “Achille fu più nobile perché non sostituì Patroclo, ma lo seguì nella morte”. Parafrasando, Achille fu più nobile di Alcesti perché prese il posto di Patroclo in un modo diverso da quello in cui Alcesti prese il posto di Admeto. Achille prese il posto di Patroclo perché, seguendolo nella morte, diventò egli stesso il suo amante (eromenos), abbandonando il privilegio di essere un amato (erastes): un amato, infatti, non è nella posizione “erotica” di seguire il proprio amante nella morte, non è il suo ruolo, non lo sarebbe, se la fa significa che “qualcosa” è cambiato.
La forma più alta della manifestazione d’amore si produce dunque per Fedro – che qui ci offre una prospettiva prettamente religiosa – quando l’oggetto desiderato si trasforma in soggetto desiderante. Questo rovesciamento, immortalato nel sacrificio di Achille, sarà non a caso lo stesso inscenato dall’ubriaco e (non poi così) delirante Alcibiade quando, nella scena chiave di tutto il Simposio, racconterà in prima persona di come egli stesso sia stato vittima di questa scioccante trasformazione per opera del desiderio di Socrate.
Pausania ed Erissimaco: politica e clinica dell’amore
Dopo Fedro viene il turno di Pausania ed Erissimaco. I due ci vengono presentati da Platone come una coppia che compie sull’amore discorsi tutt’altro che romantici. Erissimaco, da buon medico, tratta infatti dell’amore in termini clinici e fisiologici – potremmo quasi dire “scientifici”, mentre il discorso di Pausania – che si rivelerà essere totalmente derisorio nelle intenzioni di Platone – consiste in un predicozzo politico-moralistico che gli si ritorcerà contro in maniera clamorosa e ridicola.
Pausania prosegue infatti l’epainos, l’elogio, dell’amore, curvando pesantemente dalla questione per come l’aveva articolata Fedro. Il secondo personaggio del Simposio inizia così il suo discorso affermando che nonesiste una sola forma di amore, bensì due, con le rispettive teogonie: Afrodite Urania e Afrodite Pandemia. Tutte le cose dell’amore sono biforcate moralmente dalla differenza radicale che separa queste due qualità d’amore (erotismo compreso).
Dopo tali premesse, quantomeno “moralistiche” nel senso peggiorativo del termine, il discorso di Pausania si fa più specifico, giungendo ad auspicare che ad Atene si possa presto pervenire ad una legislazione capace di interdire in maniera categorica i rapporti sessuali con bambini prepuberi, e che sia in grado, in generale, di interdire la frequentazione dei ragazzini a coloro che non ne sono moralmente degni (favorendo ovviamente quelli che, secondo Pausania, lo sono). Pausania si dilunga poi sulle varie legislazioni in materia presenti al tempo in Grecia, elogiando quella spartana, per infine tornare a bomba sulla fondamentale questione dell’amore, abbordandola in un modo completamente differente da quello di Fedro.
Per Pausania infatti la virtù (ciò che è desiderabile) è presente anche nell’amante (erastes); l’amante ha il diritto-dovere di ponderare e soppesare la scelta del proprio oggetto (dell’amato, eromenos), ed ha addirittura il diritto-dovere di dirigere l’amato (l’oggetto) stesso verso la virtù.
Ciò che [l’amante] va a cercare nell’amato è qualcosa da dargli. I due si incontreranno in questo punto, che Pausania chiama da qualche parte il punto di incontro del discorso, un punto in cui avrà luogo la congiunzione, la coincidenza. Di che cosa si tratta?
(J. Lacan, Seminario VII)
Il discorso “contrattualistico” di Pausania sull’amore ci richiama alla mente un altro classico luogo comune contemporaneo: quello secondo cui, in certo modo, due persone possono incontrarsi a mezza via traendo reciproco vantaggio da ciò che rispettivamente hanno da darsi. Non si tratta, a ben guardare, dei contrari che si attraggono, ma piuttosto dell’utile netto che si può ottenere da uno scambio: bellezza per saggezza e vice versa, ricchezza per tenerezza, e vice versa, ecc ecc (cioè, non a caso, proprio il tipo di scambio che Socrate si rifiuterà di fare al termine della storia con Alcibiade).
Si tratta di uno scambio. Il primo [l’amante più anziano] si mostra capace di dare un contributo a livello dell’intelligenza[…] il secondo [l’amato] ha bisogno di acquisire, in termini di sapere e di educazione, la paideia e la sophia. I due si incontreranno qui, e a dire di Pausania, costituiranno una coppia al livello più alto di associazione. Proprio sul piano del chitaomai, di un’acquisizione, di un profitto, di un acquistare, di un possesso, si produrrà l’incontro di questa coppia e si articolerà per sempre quest’amore detto superiore, questo amore che quand’anche ne avremo cambiati i partner, si chiamerà da ora in poi, attraverso i secoli, amore platonico”
(Lacan, Seminario VIII)
Questo tema – apparentemente un classico dell’erotologia platonica – viene demolito con feroce ironia proprio dall’autore del Simposio (oltre che dallo stesso Lacan nel suo Seminario), che lo ripresenterà – esattamente rovesciato e parodiato – nel discorso finale tra Alcibiade e Socrate. Vediamo ancora come Lacan rilegge la chiusa del discorso di Pausania, il quale, subito dopo questo punto culminante di squisita moralità, incappa in una caduta di stile quantomeno imbarazzante. Dopo aver discorso sulla necessità di una salda moralità in amore, il ricco ateniese cala le braghe ammettendo che però – tutto sommato – anche se ci sbagliasse nel valutare le intenzioni (morali o meno) del proprio partner, il gioco erotico varrebbe comunque la pena di essere giocato.
Se qualcuno, secondo lo stesso discorso, dopo essersi concesso all’amante, credendo nel suo valore, e con la convinzione di diventare egli stesso migliore attraverso l’amicizia dell’amante, risulta ingannato, una volta che l’altro si rivela dappoco e privo di eccellenza, bello tuttavia è l’inganno […]
(Platone, Simposio)
A leggerlo con occhi smaliziati, Platone sembra effettivamente prendersi retroattivamente gioco nel Simposio di tutto il decantato pedagogismo che, nei secoli, è stato ascritto alla sua filosofia.
Una conclusione di questo tenore, da parte di Pausania, risulta talmente ridicola agli altri convitati da scatenare una risata generale, e contestualmente le risate dello stesso narratore dell’intera vicenda, Apollodoro, che – una volta ripreso in prima persona il filo del discorso – fa il verso a Pausania allitterando una trentina di volte il suono “paus”, già volutamente e ridicolmente ridondante nel discorso tenuto da Pausania in prima persona.
Lacan, su consiglio di Kojéve, riconduce proprio a questa ilare circostanza lo strano caso del singhiozzo di Aristofane, a cui spetterebbe la parola dopo Pausania, e che invece proprio per tale ragione cede il proprio turno ad Erissimaco. Interviene allora Erissimaco, il medico, che indirizza il proprio elogio dell’amore verso il campo “scientifico”, indicando nell’armonia il segreto fondamentale dell’amore e definendo la medicina come la scienza delle erotiche del corpo. Anche qui riconosciamo un altro luogo comune molto comune e quotato riguardo all’amore: quello delle ricerche pseudo-scientifiche che ci dicono se, come e quanto amare faccia bene, rilassi nervi, ringiovanisca la pelle, ecc. ecc.
Aristofane e Agatone. La tragicommedia dell’amore
Dopo Erissimmaco (il quale conclude il proprio discorso su armonie empedoclee) è la volta di Aristofane (al quale nel frattempo è passato il singhiozzo). Il grande commediografo, dopo essere stato pregato da Erissimaco di non fare il buffone, “almeno per questa volta”, sconvolge tutti raccontando con apparente gravità l’antico e celeberrimo mito degli androgini. Un mito talmente toccante, tragicomico e moderno che continua senza sosta a stupire e commuovere i lettori attraverso i secoli.
Gli umani, racconta Aristofane, sarebbero stati un tempo uniti a due a due, saldati l’uno all’altro, letteralmente, attraverso l’unione dei loro sessi, tutto ciò fino al triste giorno in cui l’invidia fulminea di Zeus non li ha separati per sempre disperdendoli per il mondo e obbligandoli a vagare disperatamente in cerca della loro altra metà perduta. Ma non solo, accentuando il carattere tragicomico del mito, Aristofane ci racconta che, quand’anche le due metà riuscissero ritrovarsi, esse morirebbero nel vano sforzo di ricongiungersi in quella perfetta simbiotica unità di cui un tempo avevano compartecipato.
Il poeta comico, nemico giurato di Socrate e odiato profondamente da Platone, ci offre nel Simposio l’immagine tragica, nostalgica e perfetta dell’impossibile miraggio in cui eros ci illude. L’immagine tragica e al contempo derisoria che ci veicola questo mito immortale, costituisce uno dei più grandi misteri dell’opera Platonica (uguagliato forse solo dal celeberrimo e grottesco gallo del Fedone). Un mistero che, proprio come quello del celebre gallo, è impossibile azzardarsi a interpretare senza dotarsi di una buona dose di ironia. Qui infatti l’arte seduttiva di Platone raggiunge senza dubbio un culmine, mostrandoci anche forse il vero nerbo della sua “pedagogia”; in una sola pennellata il grande filosofo dipinge infatti sia la potenza unificante dell’amore, sia – al contempo – la sua dimensione profondamente ridicola, goffa, tragica, ebete e fallimentare.
Eccoci dunque giunti al terzo grande topos contemporaneo dell’amore che possiamo rintracciare nel Simposio. Dopo l’amore capace di tirare fuori il meglio da noi stessi e dall’altro (Fedro), dopo l’amore che si fonda su un reciproco scambio (economico-morale) di virtù complementari (Pausania), e dopo l’amore inteso come elemento irrinunciabile per una vita sana (Erissimmaco), incontriamo nel Simposio la figura dell’amore come la intenderanno, per lunghissimo tempo, il medioevo (amor cortese), il mondo moderno (romanticismo) e addirittura – come abbiamo visto – lo stesso Freud nell’Al di là del principio di piacere: la tragicomica pulsione a fare Uno, il desiderio struggente di comporsi e superarsi in un’unica entità che assorba le rispettive singolarità dei due amanti. Freud resterà così sconvolto da questo mito – il quale ha a sua volta delle risonanze nel precedente discorso di Erissimaco (e trova in Empedocle il proprio riferimento originario) – da ricorrervi quando dovrà affrontare una questione cruciale per tutto il suo pensiero, cioè quella torsione apparentemente insensata – e appunto tragicomica – che vede la pulsione di vita (sessuale) virare,confondersi, defluire, in un desiderio di distruzione, la pulsione di morte (questo è il infatti il nerbo dell’Al di là del principio di piacere).
È in questa situazione paradossale, che vede un comico portare avanti con fermezza una visione profondamente tragica, nonché allucinata, dell’amore, che invece il poeta (supposto) tragico, Agatone, viene gettato da Platone sulla scena come il rovescio speculare di Aristofane e del suo discorso. Se Aristofane infatti non può che apparirci come un comico che riflette maldestramente sul tragico, Agatone ci si fa innanzi come un tragico che ha voglia di scherzare.
Diversamente dal discorso di Pausania, che è derisorio suo malgrado, il discorso di Agatone è forse da considerarsi volutamente derisorio, comico, retorico. Il poeta tragico – che durante il Simposio è l’amato di Socrate, è bene non dimenticarlo – lamenta infatti che fino a quel momento nessuno ha ancora realmente tributato alcun effettivo onore al dio, e che tutti si sono finor piuttosto limitati ad elogiarne gli effetti benefici e positivi sui mortali. Così, per prima cosa, il poeta tragico si dilunga in un vero e proprio panegirirco, non tanto dello stato amoroso quanto piuttosto del dio Eros stesso, trattando diffusamente della sua pienezza, bellezza e splendore. Il discorso di Agatone è un vero e proprio fiore di retorica, in cui allitterazioni, analogie e metafore si sprecano con un’insistenza tale da metterci sull’attenti. Esso è inoltre, come quello di Pausania, uno dei discorsi del Simposio il cui senso effettivo ci rimane più enigmatico: entrambi sono infatti talmente retoricizzati e sovraccarichi di pesanti allitterazioni da suggerirci – e da suggerire specialmente al lettore dell’epoca – un esorbitante valore comico e farsesco che probabilmente non potremo mai più misurare nella sua reale portata e ampiezza.
Secondo le interpretazioni classiche Platone, nell’introdurre il discorso di Socrate come una confutazione della retorica di Agatone, avrebbe inteso far assaporare al pubblico la diversa statura morale e intellettuale dei due personaggi. Questa interpretazione non però è molto forte. Come anticipato, infatti, Socrate è in quel momento l’amante di Agatone; inoltre è proprio lui. Socrate, ad affermare, senza mezzi termini, che quello di Agatone è stato davvero un bel discorso. Il fatto che Socrate confuti poi crudamente Agatone sulla sostanza logico-dialettica del suo discorso non deve trarci in inganno. Socrate e Agatone parlano infatti su due registri diversi. Agatone ha fatto della poesia, ispirata (e ubriaca) per di più, mentre Socrate farà della filosofia, cioè condurrà il proprio discorso (l’unico vero discorso che tiene in prima persona prima di introdurre il racconto di Diotima) avendo l’episteme – e non l’enthusiasmo – come proprio orizzonte.
Considerare come ironico, comico e insieme poetico, il discorso di Agatone ci permetterebbe di intendere diversamente la frase con cui quest’ultimo si arrende alle incalzanti domande maieutiche di Socrate: “Va bene Socrate, come vuoi, io ho parlato in forma di poesia, tu vuoi buttarla sulla dialettica e sulla logica, fai pure, ti ascolto”.
Lacan avanza l’ipotesi per cui, nel discorso di Agatone, sia incarnata quella forma ebete e inconsapevole di verità che Platone riservava (ad esempio nel Fedro e nello Ione) ai poeti in stato enthusiasmo e ai partecipanti dei Misteri. Questo spiegherebbe la rapida resa di Agatone alla dialettica socratica: semplicemente, non è lo stesso registro, e Agatone concede volentieri a Socrate, suo amante, di virare verso un registro differente dal suo (facendogli incidentalmente notare anche una sua certa pedanteria).
Socrate allora confuta il discorso di Agatone mostrandogli che eros non solo non è bello, perfetto e dotato dei migliori valori, ma che esso è piuttosto il demone stesso della mancanza, che esso è la presenza stessa di un’assenza (e dell’espendiente attraverso cui ci si illude di colmarla). Questo è tutto ciò che Socrate ci dice, a suo nome, della verità di Eros, nel Simposio. Dopodiché Socrate parlerà dell’amore riferendo le parole di Diotima, la sacerdotessa di Mantinea.
Socrate e Alcibiade
Si suppone solitamente che Socrate destini la sua vera concezione dell’amore al discorso di Diotima per non umiliare troppo Agatone. Secondo Lacan, invece, lo stratagemma dell’attribuzione del discorso sull’amore a Diotima sarebbe una necessità tutta interna al personaggio socratico. Socrate ha bisogno di conservare se stesso nella posizione dell’insciente, di colui che sa di non sapere un bel niente. Ma è proprio questa la posizione che, riguardo alle cose dell’amore, Socrate non può sostenere, ed è proprio qui che in effetti Alcibiade lo smaschererà. Socrate, infatti, diversamente dagli altri, sa davvero il segreto dell’amore, conosce il suo vuoto brillìo, ed è per questo che dissimula, spostando l’attenzione dalla questione che egli stesso ha introdotto in prima persona (“l’amore è mancanza”) verso il discorso religioso di Diotima, che ha una pura funzione di specchietto per le allodole. Questo discorso infatti, dopo aver dato rapidamente forma di mito alla stringente considerazione logico-razionale di Socrate, vira bruscamente verso il tema fondamentale del bello.
L’inizio del discorso di Diotima non è altro che un’allegoria del breve scambio dialettico tra Socrate e Agatone (il cui succo è: eros è mancanza), e in fondo non fa che ripetere, seppur con differenti sfumature, molte delle cose già dette nei discorsi precedenti. L’unica cosa che il discorso di Diotima introduce di veramente nuovo nel dialogo è la funzione del bello come strada maestra verso la perfezione, verso la verità e verso il bene. Il bello, racconta Diotima per bocca di Socrate, sarebbe ciò che conduce al bene, sarebbe una guida, un mezzo, un medium per raggiungere il bene. Ma a questo punto dobbiamo fermarci e chiederci che cosa fosse il bene per i greci. Il bene del soggetto greco, o per lo meno del soggetto platonico, è in effetti la ricerca di un’armonia, una tendenza alla perfezione e al perfezionamento umano, fisico e spirituale. Il suo culmine è senz’altro l’etica aristotelica, un culmine di cui intravvediamo un antenato nel discorso di Diotima, e che è una delle poche testimonianze del fatto che – malgrado tutto – Aristotele era pur sempre un allievo dell’Accademia.
Ancora una volta, però questo discorso, quello di Diotima sul valore psicagogico del bello, non è che il rovescio speculare, grottesco e parodistico dell’esempio vivente dell’amore che Platone ci farà gustare con l’entrata in scena di Alcibiade. Alcibiade ci restituisce infatti l’amore come qualcosa che è al contempo devastante e insensato, ma anche strategico; l’amore delirante di Alcibiade per un personaggio anziano e semi-folle che assomiglia a un satiro peloso, Socrate, non ha infatti nulla a che fare con le tante virtù che i convitati hanno fino a questo momento attribuito al grande dio.
Tutta la critica che non ricollega la dottrina platonica dell’amore al mito di Aristofane, la ricollega generalmente al discorso di Diotima, attribuendo al filosofo una posizione pedagogica che vede il bello strettamente legato alla funzione del bene. Ma se l’intreccio narrativo del Simposio ha un minimo di senso, dobbiamo forse allontanarci anche da questa seconda, classica e tradizionale interpretazione, per andare piuttosto a cercare lo scandalo dell’amore lì dove si produce, cioè in quello che Platone – attraverso la violenta precipitazione che si produce nel dialogo-racconto con l’entrata in scena di Alcibiade – ci presenta come il culmine del dialogo.
Da numerosi indizi si potrebbe credere che questa [la funzione psicagogica del bello] sia la realtà ultima del discorso del Simposio. Essa è addirittura quella che siamo abituati a considerare, da sempre, come la vera prospettiva dell’Eros nella dottrina platonica. […] Ma c’è di più in Platone. A condizione di voler vedere oltre, di chiedersi in primo luogo che cosa voglia dire che Socrate abbia fatto parlare Diotima al suo posto, per chiedersi poi che cosa avviene a partire dal sopraggiungere di Alcibiade nella faccenda.
(J. Lacan, Seminario VIII)
L’arrivo di Alcibiade sulla scena stravolge, come è noto, l’intero dialogo. Platone ce lo mostra prima di tutto vergognosamente ubriaco, molto più degli altri, seguito da uno stuolo di lacché e prostitute, e tutto desideroso di movimentare una serata che fino a quel momento aveva languito tra i morbidi guanciali di sterili discorsi filsofico-religiosi. Da sempre l’apparizione di Alcibiade turba studiosi ed esegeti, al punto tale che spesso nei secoli passati l’intera parte del dialogo che segue l’entrata in scena di Alcibiade è stata censurata (o addirittura considerata apocrifa). Platone, con questo vero e proprio colpo di teatro, crea per il lettore – con l’irruzione di Alcibiade – lo strabiliante effetto scenico di un “ritorno alla realtà”. Dopo esserci persi per molte pagine nei bei discorsi dei convitati – che hanno profuso le loro chiacchierare sull’amore comodamente rilassati su eleganti divani e sorseggiano ottimo vino in un atmosfera erotica, serena e giocosa – l’entrata in scena di Alcibiade ci risveglia, ci colpisce e sconvolge l’intero quadro narrativo (prima ancora che il tenore stesso dei discorsi che si svolgeranno nel prosieguo del Simposio).
Dopo il gioco degli elogi, regolato fino a quel momento dal tema dell’amore, entra in scena un attore, Alcibiade, che farà cambiare tutto. Prova ne è il fatto che gli stesso cambia le regole del gioco, attribuendosi d’autorità la presidenza. A partire da ora – ci dice – non si farà più l’elogio dell’amore bensì dell’altro, e per la precisione ognuno farà l’elogio del suo vicino di destra. È già dir molto. Se si tratterà di amore, sarà amore in atto, e sarà la relazione dell’uno con l’altro che dovrà manifestarsi.
(J. Lacan, Seminario VIII)
Alcibiade, inteso come figura storica e politica concreta, non era affatto un uomo disprezzato da Platone, anzi, egli incarnava il meglio dell’aristocrazia ateniese, quell’aristocrazia da cui Platone proveniva e a cui si indirizzava: l’uomo eccezionale, intelligente, forte, un uomo che con la sua sola presenza era stato capace di decidere le sorti della guerra del Peloponneso (proprio quella guerra che aveva tragicamente condannato Atene al ruolo di ancella della nuova egemonia – prima spartana, e poi tebana – a cui i contemporanei di Platone dovevano sottostare). Alcibiade era una figura certamente gradita all’aristocrazia ateniese, a cui erano principalmente indirizzati gli scritti essoterici (quale è il Simposio) dell’Accademia.
Platone a questo punto della storia ci mette al corrente di un dettaglio da non trascurare, ci racconta infatti precisamente la posizione che Alcibiade assume tra i convitati; egli si posiziona esattamente trai i due amanti, cioè tra Socrate e Agatone. Una volta presa questa posizione che, come vedremo è tutt’altro che casuale, Alcibiade annuncia imperiosamente che si farà l’elogio appassionato del compagno alla propria destra, autorizzandosi così a cominciare un veramente strano e ridicolo elogio di Socrate. Prima di cominciare, inoltre, Alcibiade aggiunge che Socrate è come un sileno, una statuetta votiva che contiene gioielli (agalmata), e che lui se ne è innamorato perché li ha intravisti. Alcibiade non ha però esattamente conosciuto questi agalmata, dice piuttosto di averli intuiti nel fascino che sprigionava dalle parole di Socrate, parole che – come Marsia con la sua cetra – incantano, ipnotizzano e affascinano gli uomini.
La funzione scenico-narrativa di Alcibiade è dunque quella di risvegliare tutti dal torpore, portando l’amore sulla scena nella sua realtà feroce, sgradevole, folle, pratica, non teorica né religiosa né tanto meno filosofica in senso tradizionale. Quest’uomo bellissimo, sotto i fumi dell’alcol, brucia ancora di passione e di dolore per Socrate – apparentemente. Alcibiade – dopo essersi assicurato che tocchi a lui tesserne l’elogio – si confessa ancora sconvolto e distrutto dalla ferita narcisistica che Socrate gli ha inferto nella lontana gioventù quando, dopo avergli manifestato in maniera inequivocabile la propria “disponibillità”, cioè il proprio desiderio, il vecchio ateniese gli ha gelato il cuore affibbiandogli il più umiliante dei due di picche. Il sileno Socrate infatti, pur desiderandolo notoriamente e pubblicamente, la sera in cui Alcibiade aveva deciso di cedere alla sue avances, non gli si è concesso (o meglio, per la precisione, in quanto erastes, si è rifiutato di possederlo), sconvolgendo così il povero giovane (che ormai aveva deciso di acconsentire al suo desiderio) e ferendo terribilmente il suo fragile ego.
Alcibiade ritorna poi, in maniera del tutto scandalosa, anche per quei tempi, sui particolari del corteggiamento di Socrate e sui propri pudici e giovanili tentennamenti, protrattisi fino alla maggiore età, quando, un bel giorno, egli decide di corrispondere al desiderio di Socrate. A questo punto il giovane organizza per Socrate una specie di trappola seduttiva (di cui noi oggi non comprendiamo forse più granché bene la necessità), invitandolo a fare con lui gli esercizi in palestra, la lotta, preparandogli la cena e invitandolo in ultima istanza a restare a dormire da lui dopo aver addirittura mandato a casa la servitù. Socrate accetta, accetta tutto, si corica persino con Alcibiade, nudo, nello stesso letto, e si mette a dormire. Socrate però è impassibile. Alcibiade allora, non capendo più nulla – e dopo avergli chiesto “Socrate, dormi?” ed essersi sentito rispondere, seccamente, “No” – gli dice che ha deciso di corrispondere al suo desiderio. Ma Socrate lo gela rispondendogli “non penserai che io voglia scambiare alla pari la mia saggezza con la tua bellezza, armi d’oro per armi di bronzo”.
È la funzione di agalma ad essere essenziale nelle cose di eros, solo agalma ci svela il vero messaggio platonico sull’amore. Alcibiade dice infatti che lui ha intravisto gli agalmata di Socrate, e che da quel momento egli è caduto in suo potere; al punto tale che quando decide di corrispondergli, Alcibiade gli dice proprio che lo desidera a sua volta perché egli ha riconosciuto i suoi agalmata. Ed è proprio a questo punto che Socrate gli risponde, testualmente, “ma io non sono niente”, rovesciando così la dinamica amorosa e facendo di Alcibiade il nuovo amante e di se stesso il nuovo amato.
Socrate, desiderandolo, ha causato, ha generato, ha inventato il desiderio di Alcibiade,… e poi gli si è negato. In questa dinamica Platone ci lascia intravvedere un piccolo lembo di quel vuoto contenuto nel sileno-Socrate, un vuoto essenziale a chiunque pretenda – come dice Socrate stesso nel Simposio – di non avere altra scienza che quella del desiderio (eros). Ma sopratutto, nel finale del Simposio, Platone ci lascia intravvedere quel che ne è della sua stessa filosofia, la quale nasce e muore radicalmente politica, costruendosi e seducendo precisamente a partire da questo vuoto e da questa arte del desiderio, da questo “sapere”, da questo segreto di Pulcinella attorno a cui gravita la funzione politica di eros.
La scienza del desiderio infatti, da sempre, non è altro che un gioco di potere; un gioco in cui vincere significa sempre anche un po’ perdere, e perdere significa sempre anche un po’ vincere. Alcibiade infatti – per essersi inscenato come desiderante proprio grazie alla ferita che Socrate gli ha inflitto – guadagnerà i favori di colui che , in quel momento, è il suo vero obiettivo, Agatone, rubandolo a Socrate – il quale tornerà a casa da solo; o, per lo meno, questo è ciò che Socrate stesso denuncia apertamente (e ciò che dichiara di temere) nelle ultime battute del Simposio.
Socrate infatti è il signore del desiderio, è colui che sa farsi desiderare attraverso il proprio desiderio, è colui che “sa”, colui che nel rapporto di potere e di desiderio può solo vincere, ma è al contempo anche colui che – proprio perché vincente – rimane sempre solo con un pugno di mosche nella mano, fino al giorno in cui – bevendo la cicuta – non riterrà di dover sacrificare gioiosamente un gallo al dio della medicina per star cessando di vivere (mostrando quale fosse in fondo, da sempre, il suo unico vero desiderio). Socrate è il desiderante puro, il padrone del desiderio: una figura destinata a pietrificarsi lentamente nella propria perfezione, nell’incapacità mostruosa – e inaridente – di perdere e di perdersi. Platone ce lo mostra vincere e trionfare persino nella morte, ci mostra – nel Fedone – come in fondo Socrate la desideri, quasi la esiga.
Per comprendere davvero storicamente il pensiero di Platone è necessario considerare che il suo mondo delle idee non è mai stato altro che il mondo delle sue idee: della sua idea di stato, di legge, di filosofo re. La teoria delle idee è stata infatti l’arma propagandistica più formidabile che sia mai stata creata nell’antichità, al punto tale che essa ha attraversato due millenni e mezzo della nostra cultura, giungendo intatta – nella sua funzione erotopolitica – addirittura fino ai giorni nostri.
La vera intuizione erotopolitica di Platone – un’intuizione che ancora oggi lavora benissimo, e mette molta gente al lavoro – è stata quella di capire che, per piegare gli altri alla propria idea, egli doveva riuscire a far passare come vero ed esistente un mondo delle idee di cui nessuno – prima che lui ne parlasse – sentiva il bisogno. Ecco l’importanza politica dell’erotica platonica: inventare un mondo delle idee, mostrarsene mancanti e desiderosi, per poi far desiderare agli altri – senza crederci – che esso esista, prendendoli così nella propria rete.
Ci immaginiamo l’Accademia come un luogo di disinteressati studi filosofici, ci immaginiamo la filosofia greca come una celia inutile di perdigiorno e figli cadetti della piccola borghesia ateniese. Ma le cose non stanno affatto così: i grandi uomini, i nobili, gli aristocratici, i politici, nella Grecia antica, si occupavano filosofia – Anassagora era il migliore amico di Pericle, Archimede uno stratega, Talete un ingegnere. Il modo in cui Platone ridicolizza nel Simposio i grandi uomini del proprio tempo (tranne Alcibiade) mostra bene fino a che punto il suo intento fosse quello di una grande rivoluzione politico-culturale ateniese; mostra bene fino a che punto egli perseguisse – con la pubblicazione di quegli scritti essoterici, che noi oggi chiamiamo dialoghi platonici – una strategia di pura propaganda politica. Un simile contesto e una simile strategia politici possono restare ai nostri occhi così inosservati, e quasi invisibili, per il semplice fatto che – anche se con alcuni secoli di ritardo, e per vie che Platone non si sarebbe mai immaginato – essi sono divenuti, oggi, per noi, effettivamente un’opinione dominante. Una di quelle cose che, come diceva Nietzsche, “non abbiamo più sotto gli occhi per il semplice fatto che sono state vittoriose”.
L’idea del bene in sé non vuol dire nulla se non c’è qualcuno, un capo, che – fingendo di conoscerla – la impone; ma soprattutto, l’idea del bene esiste come l’invenzione di qualcuno che è stato capace di scatenare il desiderio dei padroni. Il platonismo è una dottrina mistica del comando e della seduzione politici, non ha mai avuto nessun altro reale valore. Il filosofo re vede il bene, sa farlo, sa dirlo, lo consiglia ai cittadini e al sovrano, ma soprattutto – da vero isterico – il filosofo re sa far loro assaggiare quel che gli manca, e che in realtà – inizialmente – manca a entrambi, per il semplice fatto che non è nulla di spontaneo né di naturale: il desiderio della Verità, del Bene, l’idea stessa che possa esistere qualcosa di questo genere, il desiderio stesso che il Bene e la Verità esistano come un’idea. È questo il gioco erotico-politico entro cui ogni odierno filosofo “platonico” si gioca le proprie carte, e la propria intera partita. È questo oggetto, l’idea, ciò che Platone – per mezzo dell’isteria socratica – ha creato ex-nihlo attraverso il proprio discorso: l’idea vera, l’idea buona, l’idea che da quel giorno – dimenticandosi di non poter essere mai nient’altro altro che una parola – vaga per il mondo producendo i suoi peculiari effetti politici di desiderio, di potere e di dominio immaginandosi di essere la Verità.