di Jacopo Barusso
(Foto di Bianca Nicolescu)
Tra offensive e controffensive, a oriente il conflitto incalza imperterrito, al modico prezzo di qualche migliaio di vite umane – come sempre carne da macello da commemorare, ma anche utile pretesto per radicalizzare lo scontro. Nel suo lungo sonno, placida e docile, Europa ne ode ancora, solamente, gli echi lontani. In gioco non è solo – non che se ne neghi la rilevanza – la sopravvivenza dell’una o l’indipendenza dell’altra parte. Nemmeno sono in gioco solo le vittime, per l’ennesima volta ridotte a meri dati statistici, a sacrificabili pedoni nelle scacchiere di pluridecorati generali che – bontà loro – dovranno pur guadagnarsi da vivere. Assumendo quell’arrogante impostazione eurocentrica, quella che ci ha fatto a lungo pensare che la Storia fosse solo quella euroccidentale, scopriamo che in gioco è anche il mantenimento di quel torpore, quello stato semicomatoso nel quale il Vecchio Continente è costretto da più di settant’anni, in seguito quei tentativi di suicidio che sono stati le due grandi guerre del XX secolo.
Narcosi e mercati
Può suonare strano, ma quella che è stata definita Guerra Fredda, per l’Europa è stato un lungo periodo di pace. A rigore, forse il più lungo periodo di pace da quando la modernità e i suoi ideali di Stato-nazione si sono manifestati. Una pace del resto imposta dagli Stati Uniti d’America che, proiettati nella nuova veste egemonica sul Vecchio Continente, capirono perfettamente quanto pericoloso potesse essere lo stato di veglia europeo, che dopo due guerre mondiali e milioni di morti aveva mostrato la sua radicale, e forse insanabile, condizione psicopatologica. Il torpore in cui Europa giace, la condizione di pace cui è stata costretta, altri non è che il postoricismo. A Europa fu detto – o meglio, ordinato – che la storia era finita, e a queste parole si dovette credere. L’apostolo posticcio di questa novella fu Francis Fukuyama, che all’indomani del crollo del blocco sovietico ebbe l’“ardore” di annunciare l’avvento finale dell’ultima forma di stato e governo possibile: la democrazia liberale, “la migliore soluzione del problema umano”:
[S]e è vero che il processo storico poggia sui due pilastri gemelli del desiderio razionale e del riconoscimento razionale […] la moderna democrazia liberale è il sistema politico che meglio soddisfa i due equilibrandoli in qualche modo
(Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo)
Sarebbe quindi il compimento di un lungo processo di costituzione del regime politico il più perfetto possibile, tenendo conto della (presunta) natura umana, a portare alla fine della storia. L’annuncio “tardo” di Fukuyama non deve trarre in inganno: il quasi cinquantennio che va dalla fine del secondo conflitto mondiale al crollo sovietico presenta già, per il Vecchio Continente, tutti i tratti fondamentali della trasformazione in atto. La lucida riflessione di un Pasolini, con la sua angosciata eppur feroce denuncia di un radicale mutamento antropologico del popolo italiano già a partire già dagli ultimi anni Cinquanta, può valere come preziosa e rara testimonianza analitica di un processo ormai in essere da più di settant’anni. La traduzione quotidianamente percepibile del postoricismo sta nel fatto che il mondo in cui Europa vive è un mondo squisitamente economicistico. Fukuyama talvolta dimostra una capacità di sintesi invero raramente apprezzabile: “All’interno del mondo post-storico, l’asse principale dell’interazione tra gli stati sarà economico, e le vecchie regole della potenza politica avranno un’importanza sempre minore. Possiamo cioè immaginarci un’Europa […] in cui la competizione economica sarebbe rilevante e quella militare trascurabile”. Fukuyama parla al futuro, ma oggi possiamo con buone ragioni ipotizzare che le basi di questo mondo economicistico fossero state ampiamente gettate e rinforzate sin dal dopoguerra: dagli anni Novanta, si iniziò a raccogliere quanto precedentemente seminato.
In fondo lo sentiamo da decenni: pare sia solo ed esclusivamente l’interesse economico a muovere non solo le nostre vite quotidiane – ridotti come siamo a consumatori senza volto – ma anche gli stessi governi, chiamati a prendere decisioni a partire da un approccio esclusivamente economico/finanziario, al punto da intendere, per fare degli esempi forse banali ma calzanti, persino scuola e sanità sul modello economico (diciture quali “dirigente scolastico”, “azienda sanitaria” e simili lasciano ben poco spazio all’immaginazione).
Ad ogni ambito della nostra vita è chiesto di sottostare all’equazione costi-benefici. La ratio economica finisce così per dominare il mondo abitato dall’europeo, che può permettersi il lusso di pensare solo in questi termini, proprio perché le preoccupazioni della storia non gli dovrebbero interessare più.
L’ultimo uomo, ovvero l’homo oeconomicus
Ad abitare questo mondo che pretende che la storia sia finita, secondo Fukuyama, ci sarebbe quell’ultimo uomo introdotto per la prima volta nello Zarathustra nietzschiano. L’ultimo uomo è quell’imborghesito – pur non essendo propriamente borghese – che il consumismo ha via via plasmato poiché “l’esperienza della storia [lo] ha fiaccato”: “Alla fine della storia l’ultimo uomo ha abbastanza buon senso da non rischiare la vita per una causa, perché egli sa che la storia è piena di battaglie inutili” (Fukuyama). Vi è un’orgogliosa rivendicazione della propria condizione e della rinuncia a ogni tensione verso qualcosa che sia altro da sé. Nietzsche, si può immaginare, aveva ben altre parole per descriverlo: “l’uomo […] mediocre e fastidioso ha imparato a sentire se stesso come meta e culmine, come senso della storia” (Nietzsche, Genealogia della morale).
È vero che Fukuyama e Nietzsche hanno posizioni opposte non solo nel giudizio su questa figura, ma anche in merito al ruolo della storia rispetto all’ultimo uomo: per il primo questi ne è nauseato, il secondo ritiene che l’ultimo uomo si sia fatto senso della storia stessa; ma, genealogicamente (e quindi, provocatoriamente), forse è proprio perché l’ultimo uomo è finito per essere il soggetto principe della storia, che questa è diventata “piena di battaglie inutili”.
Ad ogni modo, l’ultimo uomo altri non è che rovescio “ideologico” dell’homo oeconomicus, quella figura del sapere che dalla fine del XIX secolo è finita per diventare un ideale normativo, in una delle più stupefacenti torsioni all’interno della recente storia dei sistemi di pensiero. Questione amplissima e complessa, che meriterebbe di essere approfondita in un articolo dedicato).
Esattamente come ognuno di noi è costretto a essere homo oeconomicus per poter vivere bene in una società radicalmente economicista, allo stesso modo ci è stata impiantata (e accuratamente coltivata) una soggettività etica da ultimo uomo. È una sorta di paradosso a metà tra il normativo e il descrittivo, un tratto distintivo dell’ideologia, che suona più o meno “dovete tendere a ciò che già siete per natura”. Solo che quel che “già siete” è in realtà continuamente plasmato e affermato dalle strutture che formano la nostra società neoliberale. Il “per natura” tradisce l’elemento strettamente ideologico: nessuna ideologia si è mai presentata come tale; al contrario, si è sempre spacciata come espressione naturale su (presunte) basi scientifiche. È solo così che, ad esempio, possiamo giustificare a noi stessi uno stile di vita come quello consumistico, così palesemente pieno di contraddizioni e ipocrisie. Posto che si abbia l’onestà intellettuale di riconoscerlo, chi più chi meno siamo tutti costretti a questo gioco nel nostro quotidiano.
Tornare nella storia
Ma come si è giunti fin qui, a questa narcosi indotta, a questo coma artificiale? In fondo questa è la parabola di Europa, nella sua storia recente e “moderna”: da una violenta bestia dai molteplici volti e profondamente scissa nelle sue volontà a cavallo tra il XIX e il primo XX secolo, alla pigra e belante moltitudine pacificata nell’obbedienza all’unitario ordine statunitense. Dal tracotante imperialismo su gran parte della superficie terrestre, a stanco e anziano museo a cielo aperto: un cimitero – da rispettare come passato, ma del resto insignificante per il presente. Questo è l’impensato che Europa è stata educata a rimuovere. Testimoni delle sue stragi autolesionistiche, gli americani fecero quel che sembrava ormai ovvio e necessario fare, e non si può dubitare del benestare sovietico nell’ottica del “male minore”. “L’Europa non può più avere storia”, questa dovette essere la conclusione forse amara eppure necessaria. Non intervenire in modo così azzerante, avrebbe rischiato di produrre ben altro che quel lungo periodo di pace chiamato (almeno per Europa), che in maniera altisonante chiamiamo Guerra Fredda.
Rientrare nella Storia, per Europa, si tradurrebbe in un traumatico risveglio. Ci sarebbe l’irruzione del reale. Molto, forse persino tutto, delle vite di quei milioni di cittadini che la abitano, sarebbe messo in discussione. Si tratterebbe in fondo di uscire da una prigione dorata. Chi scrive non dice questo nell’intento di auspicare un rientro nella Storia, come certi neoconservatori e rossobruni in fondo bramano per poter risollevare lo spirito della tradizione; vuole essere piuttosto un monito che questo momento accadrà – è inevitabile che accada – che sia in questi anni o nel giro di qualche decennio. Ora possiamo dirlo perché, pur nella nostra bambagia, pur facendo finta che niente possa accadere da e per noi – tanto che ne facciamo l’ennesima, scadente, telenovela (l’ottimismo tipicamente piccolo-borghese del quale la nostra società è impregnata fa rima con l’altrettante caratteristiche codardia e avidità) – gli echi li sentiamo, e le nubi da Oriente si avvicinano sempre più.
Il mondo cui siamo stati abituati, l’Europa che conosciamo da tre quarti di secolo, è stato un paradiso artificiale indotto, e svegliarsi significherà innanzitutto capire quanto di quello che per tre generazioni abbiamo vissuto – e quindi dato per scontato nelle nostre vite – possa permanere in un’Europa nuovamente abitata dalla storia. In secondo luogo, posto che ogni ideologia al contempo presupponga e postuli un tipo ideale di uomo – si è già fatto cenno all’homo oeconomicus come ideale antropologico del neoliberalismo – è lecito ipotizzare la possibilità che si dischiuda uno spazio di messa in discussione di simili modelli. Senza lanciarci in voli pindarici di stampo rivoluzionario, perlomeno potremmo essere chiamati a chiederci che cosa meriti e che cosa possa essere concretamente salvato delle nostre vite attuali – aprendo quindi uno spiraglio per un’assunzione consapevole di valori, almeno parziale, che richiederebbe però la manifestazione di una coscienza collettiva di qualche tipo. In questo senso, varrebbe la pena perlomeno di augurarsi che le inutili stragi del secolo scorso, e il ruolo da comprimario degli ultimi decenni, abbiano creato una coscienza meno belligerante, più tollerante e rispettosa – non solo a parole! – delle differenze delle altre civiltà e degli altri popoli. Forse pecco di ottimismo della volontà, dell’ennesimo ideale “poetico” in questi tempi altrimenti così tristemente prosaici, per i quali però il pessimismo della ragione potrà e dovrà presto trovare delle contromisure.
In conclusione, negare il carattere di necessità del rientro dell’Europa nella storia, significherebbe pensare che l’impero (non di nome forse, certamente di fatto) americano sia destinato a durare per l’eternità, o anche che gli Stati Uniti siano disposti a tenere l’Europa sedata ad libitum. A tutti coloro che dicono, spesso trionfalmente perché convinti di vivere nel migliore dei mondi possibili, “there is no alternative”, andrebbe spiegato che in fondo un pensiero simile dovette passare anche per la mente di molti romani sin dai tempi di Mario e Silla, e perlomeno fino a quelli Adriano ed Antonino Pio: eppure oggi, di quell’epoca che per alcuni dovette sembrare destinata a durare fino alla fine dei tempi, non restano che le rovine. In fondo, non dovremmo sorprenderci: se è vero, come ebbe a dire un distopico visionario, al secolo Aldous Huxley, che “il fatto che gli uomini non imparino molto dalla storia è la lezione più importante che la storia ci insegna”, allora la storia è il sapere dell’invano per antonomasia.