di Eleonora Zeper
Di cosa parla l’Amleto? Di un principe che non si decide a uccidere l’uccisore del proprio padre. Poi lo fa.
E il Macbeth? Un generale scozzese fa uccidere il suo re e un suo rivale alla corona. Diventa egli stesso sovrano e viene infine ucciso a sua volta.
Molto rumore per nulla? Qui il titolo è rivelatore. Questioni amorose di poco conto. Due giovani stanno per sposarsi, l’onore di lei viene calunniato, poi si scopre che era tutto falso e i due si sposano: nessuna idea drammatica originale, nessuna invenzione di genio in Shakespeare riguarda mai la trama.
E Misura per Misura? Vincenzo, Duca di Vienna, lascia il ducato nelle mani del vicario Angelo. Questi, inizialmente integerrimo, viene corrotto dal potere e arriva al punto di ricattare Isabella, una giovane novizia: se lei non gli si concederà, il vicario farà giustiziare suo fratello Claudio con l’accusa di aver attentato all’onore di una fanciulla. Il Duca, travestito da Frate Lodovico, risolve la questione con un ingegnoso stratagemma e, infine, rivelata la propria identità, smaschera l’ipocrisia di Angelo. Misura per misura: Angelo, che avrebbe voluto mandare a morte Claudio per aver macchiato l’onore di una fanciulla, si trova a commettere lo stesso crimine e a essere giudicato dal Duca di Vienna con lo stesso metro. Alla fine, però, anch’egli viene perdonato e tutto termina con un lieto fine. La trama è po’ più complessa, si tratta di uno dei cosiddetti problem plays shakespeariani, testo caratterizzato da una commistione fra elementi comici – tipici della commedia sono infatti i personaggi della mezzana e del ruffiano, l’intrigo amoroso con peripezie e il lieto fine – e elementi tragici – il tema del potere e delle sue lusinghe fra tutti. Anche in questo caso, però, non è certo il soggetto a far grande la commedia.
Il “cosa”, in Shakespeare, è infatti in genere di scarsa importanza: per delineare la trama dei suoi plays, il Bardo copia e incolla sfacciatamente da svariate fonti, lo sanno tutti. In Shakespeare importa il “come”, e anche questo dovrebbero saperlo tutti. Nelle mani dell’artista la storia di un oscuro e melanconico principe di Danimarca diviene l’Amleto, il dramma dell’impossibilità dell’azione e del disgusto nei confronti della vanità delle cose umane. La storia di uno scozzese sanguinario diviene il Macbeth, angosciante rappresentazione della forza distruttiva dell’ambizione. Molto rumore per nulla, da commediola un po’ stucchevole, si trasforma in un commovente inno alla vita e alle meraviglie dell’amore. Misura per Misura si presenta infine come un’opera mediante la quale Shakespeare ci regala pagine di indimenticata profondità sul significato della morte e sulla forza corruttrice del potere.
Il testo shakespeariano è andato in scena al Teatro Rossetti di Trieste dal 27 novembre al 2 dicembre 2018 per la regia di Paolo Valerio. Mancano le quinte e si fa grande uso di un videoproiettore, manovrato, ogniqualvolta questi non si trovi sulla scena, dallo stesso Duca di Vienna. Il ruolo del Duca viene dunque esplicitamente associato a quello dell’autore, che crea la vicenda, e a quello del regista, che la pone in scena. Se il ruolo metateatrale affidato al Duca è chiaro, e direi fin troppo chiaro e didascalico, mi sfugge tanto il significato della mancanza delle quinte, quanto l’insistenza sull’uso delle immagini proiettate. I costumi sono bizzarri capi futuristici con qualche vago accento nipponico. La messinscena non annoia: gli attori entrano in scena dalla platea e tutto è sempre molto movimentato. Lo spettacolo pare non trovare il tono giusto fra il concettuale e l’insensato – il Duca di Vienna, ad esempio, ritorna a palazzo cantando un’aria dalla platea e mettendo così gli amanti della lirica in serio imbarazzo. Il risultato è grottesco. Il finale – data la concitazione degli interpreti, che sembrano volersi rivolgere ad un pubblico cognitivamente smatrphone addicted e incapace di prestare attenzione per più di cinque minuti – è incomprensibile perché troppo frettoloso.
Alcuni attori paiono capaci, così la bella Camilla Diana nel ruolo di Isabella, ma mal diretti. Non c’è traccia della tragedia di una giovane donna divisa fra il proprio onore e l’amore per il fratello. Altri sono davvero bravi, come Roberto Petruzzelli (Escalo), Alessandro Baldinotti (Lucio), Marco Morellini (Bargello): si tratta però di ruoli minori.
Gli altri membri della compagnia, compreso Massimo Venturiello nel ruolo del Duca e Simone Toni in quello di Angelo, sembrano non comprendere appieno la portata delle battute che sono chiamati a recitare.
In questa nostra vita son nascoste
a migliaia le morti, e ciò malgrado,
noi abbiamo paura della Morte
che fa questi diversi tutti uguali.
La celebre riflessione sulle innumerevoli morti che precedono quella finale, battuta pronunciata dal Frate Lodovico dinnanzi a un impaurito Claudio, passa del tutto inosservata. Il “come”, il succo del testo shakespeariano, quello che rende Shakespeare “il più umano di tutti i grandi artisti” (Wilde) e che fa in modo che sia l’unico autore della fortunata stagione del teatro elisabettiano ad essere rappresentato tuttora, è elegantemente passato sotto silenzio a favore di una messinscena adrenalinica, a prova di cali d’attenzione, ma vuota vuota, povera povera: lo spettatore deve andarsi a cercare da solo battute che non vengono poste in giusto rilievo dagli attori come fossero, per usare l’espressione dei detrattori settecenteschi del nostro autore, gioielli in mezzo alla spazzatura.