di Alessandro Di Grazia
Molto difficile fare qualche considerazione sulla crisi attuale. Per fare qualche riflessione cerco di restare ancorato, quanto più possibile, ad una visuale “privata” sulla questione. Vorrei negarmi il piacere, anzi il godimento, di dire la verità su quello che succede e soprattutto su quello che ci fanno, stando a determinate linee interpretative del presente. Ecco allora vorrei dire che provo una certa stanchezza rispetto all’enorme sovraesposizione del tema virologico rispetto ad altre questioni che ora, pur continuando ad esserci, sembrano scomparse come un fiume carsico: scorrono, ma inavvertite. La crisi non è una crisi, ma molte crisi sovrapposte l’una all’altra: di alcune si parla di altre no, o se ne parla solo per accenni. Devo dire che per il nemico invisibile provo anche una certa simpatia.
Il nostro è un film catastrofico rovesciato: il film infatti ci piace perché godiamo della rappresentazione del pericolo dell’estinzione. Che il pericolo derivi dal terrorismo islamico, quello russo, da un complotto interno all’amministrazione americana, da un virus incontrollabile o da parte degli zombi, poco importa. Si tratta sempre di Warworldzero, cioè dell’ultima e definitiva catastrofe. L’angoscia ci viene sublimata, così che possiamo tirare avanti ancora un po’. Già, ma dove e per dove? Ecco che la realtà si fa rovescio della rappresentazione filmica e mediatica: sembra di vivere in un film! È una delle frasi più importanti del momento. Personalmente i film catastrofici mi annoiano abbastanza, a parte alcuni che si presentano come veri e propri sintomi del reale.
Se al film crediamo ciecamente, paradossalmente di fronte allo svolgimento reale dell’emergenza siamo attoniti e, forse, una parte abbastanza nascosta di noi, ma nemmeno tanto nascosta, non ci crede e ricopre di fantastiche interpretazioni lo smarrimento che pervade tutti. Ecco quello che vorrei dire è che in questo smarrimento io non mi trovo poi tanto male. Mi fa piacere vedere messo alla prova un nihilismo non più da filmetto ma quello vero fatto dello smagliante turbinio dei PIL, delle contrattazioni finanziarie, degli obiettivi da raggiungere. Forse sarà una posizione qualunquista, ma la débâcle mi fa star bene. In altri tempi lo spregio dei beni materiali a beneficio di una più ricca vita interiore e sociale era una discorsività possibile. Farlo oggi, anzi ieri prima dell’infezione, equivaleva all’essere tacciati di pauperismo, una cosa se non brutta, senz’altro considerata appartenente ad un’Utopia per natura del tutto irrealizzabile, a cui, per altro, ogni pensiero che si discosti da ciò che sembra ammissibile per un principio di realtà, viene malevolmente relegato. Il regime discorsivo bellico è senza dubbio un aspetto veramente importante. La guerra è il significante che ci fa piombare addosso la l’immagine dal giusto combattimento e la convinzione di poter, forse, vincere. Ma cosa combattiamo? Dove si svolge la guerra?
Prendo a occasione di discussione due articoli che sono girati: quello di Zižek e quello di Grossman. Sono entrambi, a mio parere, fantasiosi in modi diversi e con diversi effetti. Voglio sbilanciarmi: vince Grossman alla grande perché è consapevole di fare un esercizio di immaginazione; è quello che fa uno scrittore ed è per questo che la letteratura è così importante. Mi vengono in mente le immagini che sono circolate nel 1992 dentro una Sarajevo distrutta e accerchiata dal grande complotto internazionale che ha trasformato una piccola regione balcanica in un grande inferno. Sotto i bombardamenti di quelli che creano i discorsi che, come diceva Goebbels, diventano veri solo perché ripetuti incessantemente, centinaia di cittadini si erano raccolti tra le macerie di un capannone industriale a cantare nostalgici motivi balcanici accompagnati dalla chitarra di un giovane. Ecco erano immagini di una gioia umana e delicata, pervasa dalla gentilezza di cui parla Grossman. Certo, si dirà, non è che con la letteratura si vincono le guerre, ma di certo si vincono anche con la letteratura, il pensiero, gli atteggiamenti, soprattutto quelli meno vistosi.
Al contrario Zižek ai miei occhi perde. Anche per una questione di stile di scrittura: brillante, efficace, appunto: sa come raggiungere l’obiettivo.
Dati interessanti e inoppugnabili precedono, canonicamente, come nelle migliori tradizioni retoriche, la sua tesi e la sua convinzione di fondo, cosicché, anche se strampalata, beneficia del carburante raccolto con il discorso che precede. Si possono usare le parole in tutti i modi che si vuole, basta mettersi d’accordo. Ma di certo il comunismo di cui parla Zižek esiste solo nella sua testa e per almeno tre motivi.
Il primo è che la comunità scientifica per sua natura e scopo tende già sempre a condividere i dati. Il fatto che ciò non avvenga liberamente è determinato da un problema politico. Tra i moltissimi esempi, l’ultimo è stata l’idea di Trump di offrire diversi miliardi di dollari alla Germania per produrre un vaccino da consegnare esclusivamente agli USA. Altri esempi si moltiplicano nella gestione della crisi all’interno dell’UE. Questo ci porta al secondo motivo.
Quel comunismo di cui parla Zižek dovrebbe essere già realizzato dall’UE appunto. Ma si dimentica di citarla. Non si possono fare dei discorsi progressivi e augurali facendo finta che una serie clamorosa di fallimenti non sia già avvenuta e che abbia decretato la fine, di fatto, del progetto europeo. È il solito discorso pontificale dell’intellettuale, sinceramente poco opportuno in questo momento.
Il terzo motivo è che, veramente, la parola comunismo ha senso solo in un’immaginazione personale, a meno di non slegarla dal marxismo e tentando di ricostruirne le coordinate semantiche, insomma facendo un tentativo serio per rifondarne il senso. Operazione praticamente impossibile: sarebbe come ricostruire una discorsività che legittimi la possibilità di parlare di Dio dando per scontato che, in fondo in fondo, esista. Di fatto noi non sappiamo se il comunismo sia possibile e in che termini. Si tratterebbe di ridare senso alla parola fraternità o di costruirne per la prima volta uno. Il che ci rimanda a Grossman. Ecco allora sono contento, e provo un certo, forse un po’ perverso, godimento per il fallimento di quei discorsi che si stagliano, con il loro buon senso, sull’orizzonte delle nostre teste.
È una forma di nihilismo attivo il mio, forse quello auspicato da Nietzsche in contrapposizione a quello passivo che ha l’aspetto del successo e in cui forza e debolezza si scambiano di posto. La guerra, allora, il discorso bellico insito, sotto sotto, anche nell’articolo di Zižek, si svolge tra questi due nihilismi, una contesa in cui la partita è la rappresentazione del volto dell’insuccesso e l’idea di una normalità da ritrovare.
L’insuccesso non è non riuscire ad arginare il contagio, l’insuccesso è il prima e, forse, il dopo.
Un ascoltatore di Prima pagina di Radio3, ha fatto questa battuta ironica e fulminante: in virus veritas!
Già, proprio come nell’emergenza di una guerra, nell’imminenza di una possibile catastrofe, i nodi vengono al pettine. Non si diventa peggiori o migliori di quanto già eravamo prima dell’emergenza, ma si diventa più grandi. Ogni cosa si amplifica, tanto le fragilità quanto i punti di forza reali e, così anche la violenza. La guerra, le dimostrazioni sono infinite, non ci rende migliori, ma nemmeno peggiori: essa rappresenta il luogo della tenuta della nostra esistenza nei confronti della morte o del pericolo e della minaccia che essa si realizzi effettivamente.
La guerra è il banco di prova dell’intensità e dell’ambito di legittimità del travaso tra immaginazione e realtà.
Nella misura in cui con essa abbiamo esagerato, altrettanto ci troveremo a mal partito alla prova del reale.
Navigando il mare della rete, ho visto che diversi interventi ricorrono ai film per costruire un discorso sulla crisi che stiamo vivendo e mi pare che due, a cui per altro io stesso avevo pensato, dominano questo sguardo: Contagion di Soderbergh e Melancholia di Von Triers, il caso vuole, entrambi del 2011. Il primo, molto preciso e ben fatto, è un classico esorcismo catastrofista. La ricostruzione è incredibilmente aderente a quanto ci sta succedendo al punto che un’inquadratura mostra una carta del mondo con i punti di maggior diffusione praticamente identica a quella reale che ci viene elaborata sotto gli occhi quotidianamente.
Il secondo invece per molti è un film strano, inquietante e a tratti cupo. È la storia di un matrimonio che ha tutte le premesse per essere un fallimento. L’apatia e la depressione della protagonista sono il cuore di quasi tutta la narrazione. Ma, ad un certo punto incombe la fine, quella vera e totale: un enorme meteorite sta per distruggere la terra. È qui che avviene un capovolgimento: lo svolgimento della festa di matrimonio, artificiale e ipocrita, si trasforma per gli invitati in un incubo di disperazione. Per tutti, eccetto che per la sposa che rientra in contatto, all’approssimarsi della morte, con il proprio desiderio e con una rinnovata capacità di ascolto e di aiuto nei confronti della sofferenza delle persone. Chi accede a questa rinascita sono pochissimi rispetto al numero degli invitati e temo che quella proporzione sia realistica anche per le nostre esperienze.
Una cosa mi ha particolarmente colpito, e qui arrivo alla conclusione, le bandiere italiane sui balconi e l’esaltazione del popolo unito, in una sorta di revival nazionalistico da italietta fascista. Dal mio punto di vista, questa è una cosa abbastanza mostruosa, che passa sotto traccia e che, messa in discussione, genererebbe la più ampia e feroce avversità. Niente di diverso di quando discorsi antimilitaristi vengono messi in campo a fronte dell’estendersi di una psicosi pubblica che inneggia alla guerra: si diviene immediatamente traditori e punibili penalmente. Ecco, per concludere, il regime di verità che domina la scena non consiste in ciò che, anche grossolanamente si manifesta e che prende l’aspetto ora delle retoriche nazionalistiche dal volto umano, o quelle allarmistiche sul pericolo dell’estinzione o generalmente autoimmunitarie, ma riguarda ciò che non è rappresentato, ciò di cui farebbe problema parlare. È la parte maledetta della società, la spina nel fianco dell’ingranaggio, ciò che riporta grandissima parte del clamore mediatico alla sua spettralità: Spettrale è il discorso del Papa in una piazza S. Pietro deserta, come spettrali sono le pretese finanziarie del mercato difese dal nord Europa. Conierei il neologismo spettracolarità per denotare questi fenomeni.
Penso ai poveri cristi che ancora oggi, nonostante il virus, scappano da un male peggiore del rischio di contagio e che è rappresentato dai bombardamenti e dalle violenze in casa propria e subite, nell’indifferenza generale, ai confini meridionali dell’UE, in Croazia e in Grecia, dove non solo soprusi e torture sono ampiamente praticati, ma anche, come nel caso dei respingimenti della Grecia, sostenuti sottobanco e finanziariamente dalla Comunità Europea. Sarebbe un artificio retorico rimettere in gioco criticamente il termine di Comunità appiccicato come una chimera ad un territorio che non è mai stato tanto disunito al suo interno e tanto unito nella pratica della violenza? Penso a chi è uscito di scena completamente e che già prima ci stava a stento. Gli esempi si moltiplicano e investono tutte le categorie della sofferenza, esistenziale, fisica o psichiatrica che sia. Tra tutte queste scelgo quella che più appare in questo momento estranea e distante, ma intorno alla quale si gioca la partita della nostra esistenza politica e soggettiva: i giocatori della rotta balcanica che il nostro vicesindaco ha insultato e fatto trasferire dietro ai silos della stazione, in modo da sparire dalla vista dei passanti che, tra l’altro, non ci sono nemmeno più. Penso al fatto che a quelle persone è stato vietato l’uso dell’acqua corrente che sgorga tranquillamente dalla fontana di piazza Libertà. Gente maledetta e sommersa. Anche questi sono fenomeni di spettracolarità.
Ecco, penso che il regime di verità è tale proprio perché ad esso ci si inchina, come osserva Foucault, senza potere sapere di farlo, per lo più, a meno di un piccolo scarto. Ed è proprio della dimensione fantasmatica, come quella di un meteorite che sta per abbattersi sul suolo delle nostre certezze, di non poter essere detta, se non a costo di un surplus di forza.