di Andrea Muni
La notizia terribile quanto tristemente ricorrente di un giovane che si toglie la vita per non essere stato all’altezza delle aspettative sociali e genitoriali che si sentiva gravare sulla coscienza, fa ormai a malapena notizia nel mondo assuefatto all’orrore e alla violenza in cui siamo distrattamente scivolati. Non molto più di un attimo di commozione, un pensiero triste e solidale, prima di derubricare nel nostro sub-conscio l’accaduto a un problema privato, personale, meglio ancora a un “disturbo” clinicamente apprezzabile.
Si sa che il grande gioco di prestigio dell’ideologia in cui quotidianamente respiriamo è quello di spezzare in modo metodico il nesso logico tra le cause politico-sociali e gli effetti individuali delle nevrosi e delle sofferenze psichiche in generale. Il disagio è un problema, un mal funzionamento, una mancanza adattiva individuale (o al limite familiare). E come tale viene trattato, persino dai più illuminati specialisti. D’altronde, per quale altra perversa via saremmo potuti arrivare alla “brillante” conclusione che sedare qualcuno con gli psicofarmaci possa avere, a qualunque titolo, qualcosa a che fare con il provare a curare la “causa” della sua sofferenza? Viviamo in una società che rimuove le cause politico-sociali dei disturbi (che essa stessa genera); una società che poi – con l’altra mano – cerca maldestramente di risolvere a livello di clinica individuale del singolo, con farmaci e terapie, le devastazioni umane ed emotive che produce a livello strutturale. Una specie di grande, delirante Sindrome di Munchausen per procura.
Leggo su Huffington Post le parole della famiglia, del padre del ventiseienne, che non pare intuire l’ampiezza della violenza disciplinare e ideologica in gioco nella tragedia che ha colpito lui e la sua famiglia. Il genitore definisce “debolezza” quella che ha condotto Riccardo al probabile suicidio; sembra attribuire (pur senza rimproveri) al ragazzo la responsabilità di una mancata comunicazione alla famiglia e agli amici delle difficoltà che stava incontrando nell’ultimo segmento del percorso universitario in infermieristica.
L’intera notizia però a dire il vero – al di là delle parole un po’ confuse, sfregiate della brevità del report giornalistico e ovviamente tormentate dal senso di colpa del padre – sembra girare intorno a un vuoto. C’è una voragine che si apre al centro di questa notizia, al centro di noi che la leggiamo, al centro dei suoi tragici protagonisti. Il non detto, il censurato, il vuoto al centro di tutto questo scalpore, di tutto questo dolore rimane infatti “la causa”, il “perché”. Non tanto nel senso che non siano chiare, palmari, le ragioni di questo tragico evento, quanto perché la causa – la vera causa politica, sociale, ideologica di questo tipo di tragedie – è letteralmente il tabù fondamentale della nostra società neoliberale. La violenza disciplinare, fisica e psicologica, cui le persone sono sottoposte per mettere a frutto il proprio capitale umano non si deve vedere, non si deve dire, non si deve elaborare. Si tratta di una violenza disciplinare a cui i soggetti neoliberali sono spesso inconsciamente sottoposti persino dai propri affetti più cari, dalle figure più amiche; una violenza che noi stessi perpetriamo a volte senza nemmeno accorgercene.
Un osservatorio privilegiato, seppur con i suoi lati positivi, è senza dubbio il mondo della disabilità (in cui io stesso lavoro). Chi lavora in questo mondo sa bene che, in particolare per quel che riguarda i processi di inclusione e integrazione di persone con diagnosi di lievi disabilità mentali o puramente psichiatriche, le principali difficoltà che si incontrano riguardano proprio la loro adattabilità a standard disciplinari e produttivi che funzionano come tagliole. Standard disciplinari che, se non sono raggiunti, lasciano le loro vite amputate (del titolo di studio, di un minimo di autonomia decisionale, di un salario dignitoso). E tutto ciò accade persino quando, come nel caso di disabilità certificate dovute esclusivamente a problemi psicologico/psichiatrici, gli ostacoli scolastici o lavorativi più invalidanti sono indotti proprio dalla cura stessa (ossia dall’assunzione massiva di psicofarmaci). Sfido chiunque a fare alcunché, non ultimo ad allacciarsi le scarpe, mentre gli sale l’antipsicotico del mattino, figuriamoci a studiare o lavorare.
Sappiamo tutti, certo, che suicidio e depressione sono fenomeni personalissimi e insondabili, ma in fondo sappiamo anche che si tratta di fenomeni tutt’altro che privi di macro-cause sociali e politiche. Eppure facciamo fatica a mettere in ordine le cause e gli effetti di eventi così dolorosi e devastanti. La risposta più semplice e ovvia, quella che cerco di elaborare in questa riflessione (pur senza misconoscere l’imponderabilità dell’elemento individuale), è infatti letteralmente censurata – in senso psicoanalitico. Perché in realtà sappiamo tutti che questa tragedia si spiegherebbe facilmente dicendo che l’ideologia tossica del merito, dell’autoimprenditorialità e del successo, i discorsi sempre alla moda sui giovani fannulloni, un certo perverso “lavorismo” (che, soprattutto al nord, ricopre spesso vite inaridite e deprivate di genuine passioni e/o rapporti umani soddisfacenti), sono tutti fenomeni sociali che concorrono nel generare orrendi mostri.
Sì, mostri. Mostri dentro alle persone più fragili, che per i più svariati motivi (magari una dolorosa separazione sentimentale, un momento di caduta in qualche dipendenza o semplicemente per stanchezza) non riescono a stare al tempo, al passo. Mostri fuori, in tutti coloro che al passo sono riusciti a starci e ora riversano con orgoglio sugli altri il loro risentimento e la loro cattiva coscienza – maturati durante le loro fantastiche “gavette” e le loro preziose “umiliazioni” (cit. Ministro dell’istruzione e del merito); come dei bulli che non vedono l’ora di far meschinamente patire a chi viene dopo quello che loro hanno dovuto reggere e subire.
Meritavi molto di più
Tornava a casa Riccardo, per una festa che credeva di non meritarsi, per una festa che, pure, si meritava – anche se non era riuscito a fare tutto in tempo. Te la saresti meritata per quello che comunque eri riuscito a fare, te la meritavi tutta. Come te Riccardo tanti altri giovani devono imparare rapidamente a non permettere che il loro valore umano, e la qualità del loro rapporto con se stessi, siano decisi a priori dal conseguimento di una laurea, dall’ottenimento di un lavoro né, tanto meno, dal giudizio positivo o negativo sul loro operato delle persone che amano (e che li amano). Sulla tua tomba, Riccardo, scriverei solo “Meritavi molto di più”.
Questo senso di colpa asfissiante è il trauma di una generazione intera, della nostra generazione; un trauma silenzioso, ormai quasi non più elaborabile a parole. Un trauma che sempre più spesso esplode e si scarica muto in gesti sempre più inconsulti, sempre più “terminali”. Un trauma che, come tutti i traumi sociali e collettivi, dovremmo trovare il coraggio, la forza, di affrontare insieme. Solo un’elaborazione collettiva di questa violenza subita potrà un giorno consentirci di trasformarla nel più prezioso collante sociale della nostra generazione, di vederla come il cruciale invisibile nemico interno/esterno contro cui rigenerare la lotta e i valori di una nuova Resistenza (ancora tutta da costruire e inventare).
Il primo passo verso tutto questo è sempre il più difficile, e consiste nello sputare sul senso di colpa; sputare persino sulla soggezione che proviamo nei confronti degli affetti e delle persone di valore che, spesso in piena buona fede, concorrono a generare in noi questo senso di colpa. Ma se vogliamo onorare in modo pratico e sincero la memoria di chi non c’è l’ha fatta, questo è davvero l’unico compito, individuale e collettivo, da cui non possiamo proprio più sottrarci.
Solo il ritorno alla consapevolezza di essere animali , porterà equilibrio a questa inadeguatezza .Nel mondo animale nessuno ostenta o ricerca la perfezione, nessuno è il Popolo Eletto.Nessuno lavora 10 ore al giorno per mangiare o avere una casa .Nessuno mette in carcere nessuno . Nessuno è un malato mentale .Nessuno tortura o uccide , stupra ,migliaia o milioni di persone.Nessuno si serve di un apparato di sicurezza e di leggi per difendere esclusivamente i propri interessi.Quando comprenderemo che la “vita da cani” , è quella che avremo tutti diritto di vivere , capiremo di essere schiavi , capiremo la libertà.
Essere animali? essere umani? restare umano? diventare umano? che cosa significa tutto questo? il ritorno alla consapevoleZZA di essere animali? e chi ti dice che gli animali abbiano consapevolezza? come fai a voler arrivare a raggiungere qualcosa, quando lo strumento che utilizzi per raggiungerla, è lo stesso che vuoi eliminare alla fine del raggiungimento stesso? mi segui? l’animale uccide eccome per vivere. non so dove tu viva o se abbia mai visto un animale. cane? ma che cani hai visto nella tua vita? mi sembra di vivere in un mondo diverso dal tuo… nel mondo animale non si ostenta? hai mai sentito parlare del pavone? è un animale… ma di cosa stai parlando?