di Andrea Muni
Oggi ricorre l’anniversario del colpo di stato attraverso cui il generale Augusto Pinochet – assistito dalla Cia capeggiata dal premio Nobel per la pace 1973 (sic!), Henry Kissinger – rovesciava il democraticamente eletto presidente del Cile, Salvador Allende.Ventimila morti, centinaia di migliaia di esiliati, torture, desaparecidos, lo stesso Allende “suicidato” nel palazzo presidenziale de “La Moneda”. Questi sono i grossolani fatti storici, che fa comunque bene rammentare, considerata la scarsa propensione dei nostri media a coltivare un simile tipo di ricordo.
Vorrei ricostruire brevemente ciò che accadde in Cile tra il 1970 e il 1973, questa volta sì davvero per informare e per ricordare, nella speranza (probabilmente vana) che ciò possa servire a qualcosa nel nostro presente. È accaduta la stessa cosa due estati fa, in Egitto (tanto per fare l’esempio più vicino): col colpo di stato militare che ha rovesciato il governo democraticamente eletto di Hamed Morsi. Qualcosa di non molto diverso è accaduto addirittura in Italia, quando in molti, durante gli anni settanta, avevano l’impressione che Berliguer temesse per le conseguenze golpiste che un eventuale successo elettorale del Pci avrebbe potuto innescare. Giova forse ricordare infatti che, nelle elezioni che precedettero il tentativo di “compromesso storico”, il Pci aveva raggiunto qualcosa come il 34% dei suffragi. Dallo pseudo-golpe Borghese nel ’70, fino alla stazione di Bologna, passando per il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro, le avvisaglie dello scarso gradimento che l’Occidente nutriva all’idea di un partito comunista al governo entro i suoi confini, non sono state poche né impercettibili (di solito la storia ci insegna a chiamarle sbrigativamente col nome di “strategia della tensione”).
Sarebbe troppo facile, e francamente per certi versi ridondante, ritessere la lunga tela degli “aiutini” offerti dai servizi segreti americani, e occidentali in generale, alla cause anticomunuiste e antisocialiste di tutto il mondo. D’altronde, come si dice spesso, si era in guerra, e dall’altra parte della cortina la stessa scena si ripeteva identica, semplicemente a parti invertite. Vorrei ricordare la figura di Allende perché a mio avviso rappresenta un modello etico e umano a cui chiunque, indipendentemente dal proprio colore politico, potrebbe (e forse addirittura dovrebbe) guardare con ammirazione.
Dopo vent’anni di lotta politica, e giunto alla sua terza candidatura presidenziale, Allende vince le elezioni politiche del 1970 capeggiando una coalizione, chiamata “Unidad popular”, in cui confluiscono comunisti, anarchici, socialisti, cattolici di sinistra e persino una piccola parte di borghesia cosiddetta “illuminata”. Allende ottiene il 36,6% dei voti, seguito dal 35% della destra e dal 28% della Democrazia cristiana. Il sistema elettorale cileno prevedeva che successivamente il parlamento ratificasse a maggioranza di almeno due terzi l’elezione del presidente, e così accadde che la DC, temendo il fascismo più del comunismo, preferì optare – tra la padella e la brace – per un governo Allende, che verrà eletto presidente dal parlamento con l’81% dei voti. Il programma del nuovo governo prevedeva un ambizioso progetto di espropri che comprendeva la nazionalizzazione delle proprietà dei grandi latifondisti e delle miniere (di rame) controllate dalle multinazionali americane. Il primo anno di governo trascorse senza scossoni e iniziarono le nazionalizzazioni previste fino a quando, nel ’72, la controffensiva (ancora legittima) delle destre non si tradusse in una formidabile serie di scioperi dei trasporti privati, che rapidamente mise in ginocchio un paese ancora decisamente sottosviluppato dal punto di vista infrastrutturale. Nonostante ciò, pur perdendo molti consensi, Allende resse l’urto delle successive elezioni (elezioni equiparabili a quelle statunitensi dette di mid-term). In queste elezioni le destre superarono percentualmente il partito di Allende, ma non raggiunsero la soglia necessaria (dei due terzi) che avrebbe permesso legittimamente e costituzionalmente di destituirlo.
Giungiamo così al 1973: gli scontri di strada tra fazioni si fanno ogni giorno più frequenti, si instaura inoltre un’impasse istituzionale tra potere esecutivo e giudiziario riguardante la legittimità e la legalità di alcuni espropri. Allende nomina ministro dell’interno il generale delle forze armate Carlos Pratz (novembre 1972 – agosto 1973), il quale sarà a sua volta assassinato nel 1974 dalla polizia militare. Mentre il generale si sforza di mantenere l’equilibrio tra le fazioni più facinorose e per le strade, il 29 giugno un primo tentativo di colpo di stato militare fallisce lasciando una trentina di morti per le strade (tra i generali apparentemente “fedeli” c’è anche Pinochet, ma il mini-golpe è in realtà un diversivo per distrarre da quello “vero” che sta già venendo segretamente preparato). Il 21 agosto il generale Pratz viene pubblicamente umiliato da parte degli alti comandi dell’esercito (e dalle loro mogli), che lo insultano perché vogliono manifestamente il colpo di stato che il generale si rifiuta di avallare. Pratz, dopo aver un’ultima volta cercato la fiducia delle sue truppe senza ricevere alcun riscontro, si dimette, lasciando l’incarico al suo secondo Augusto Pinochet, consigliandolo personalmente ad Allende come proprio successore al comando delle forze armate. L’11 settembre la marina, la fanteria e l’aviazione cilena convergono verso Santiago; il palazzo presidenziale viene assediato, iniziano le persecuzioni mentre Allende si suicida “misteriosamente” difendendo il palazzo presidenziale de “La Moneda” insieme a pochi ultimi compagni.
Augusto Pinochet, difendendo a sua volta il proprio operato in un’intervista (clicca per vederla), sosterrà l’elegante concetto di “democrazia autoritaria”: una raffinata teoria politica capace, a suo avviso, di giustificare i quasi vent’anni di dittatura militare di cui si macchierà gioiosamente e serenamente, accompagnato dall’affetto e dalla stima di Nixon, Reagan e Margaret Thatcher (che addirittura lo incontrerà calorosamente e lo ospiterà in Inghilterra).
Allende è stato il primo presidente marxista ad essere democraticamente eletto in uno stato di diritto; ha costretto Castro ad ammettere che il socialismo in Occidente era possibile senza violenza e senza restrizione delle libertà individuali (nonostante alcune dichiarazioni omofobe, che di certo non gli rendono onore e che vanno però collocate nel loro contesto storico-politico); ha rispettato fino in fondo la costituzione anche a costo di perdere efficacia politica e consenso interno al proprio partito; ha rifiutato le spinte controgolpiste delle fazioni più estreme della sua coalizione. E infine è morto, da eroe: un eroe democratico, prima ancora che un eroe socialista. Una persona che ha dimostrato nella pratica e nella vita cosa significa avere “il coraggio della verità”: tenere fede a una promessa, osare “essere all’altezza delle proprie parole”.
Un coraggio che rende disposti a morire pur di non tradire milioni di persone: mai spargere sangue, mai seminare odio e violenza, mai cancellare i diritti, mai democrazia “autoritaria”. Un uomo che non ha voluto giocare del totalitarismo, che non ha accettato le regole del mors tua vita mea politico della guerra fredda, che ha sacrificato la vita per lasciare a chi viene la speranza, o almeno il sospetto, che un’altra via e un altro modo di comunisti, socialisti e democratici.
Fanno quasi sorridere l’onesta ingenuità e il patriottismo di quest’uomo semplice e di cultura che, ancora a poche ore dal golpe, credeva fermamente nella tradizione democratica delle forze armate cilene e dei loro comandi; gli stessi che ancora il giorno prima giuravano fedeltà al governo e alle istituzioni, e che il giorno dopo stavano invadendo senza scrupoli il proprio stesso paese.
Qui il link all’ultimo commovente discorso di Allende il giorno stesso del golpe e del suo suicidio, registrato su una radio che ormai era già stata silenziata dai golpisti.