di Samuele Calabria
Classe media. Oggigiorno l’accostamento di tali parole appare quasi insensato. Tanto per la mutevolezza delle situazioni particolari, economiche o politiche, quanto per la mancanza di termini di paragone. Il sociologo francese Pierre Bourdieu è conosciuto per aver contribuito a ringiovanire la definizione marxiana di classe, adattandola ai temi contemporanei della globalizzazione e del neoliberalismo.
La classe media è composta per Bourdieu da individui che, pur disponendo di alcune possibilità economiche, spesso mancano di mentalità imprenditoriale (oppure viceversa). Ma la classe media è anche quella classe che, pur avendo tutte le carte in regola, non riesce – per motivi soprattutto economici non dipendenti dal singolo, bensì dal mercato – a fare il grande salto. Si tratta insomma di una classe favorita, ma non troppo. Per certi versi indipendente, ma dipendente dal denaro, da chi ne controlla i flussi, dall’economia. Una classe libera, ma schiava del mercato. Parafrasando Bourdieu stesso, potremmo dire che la classe media è composta da coloro che bramano di appartenere alla classe superiore, mentre temono e rischiano di precipitare nel baratro di quella inferiore. Una classe evanescente, con entrambi i piedi al di là: uno nella classe alta, l’altro in quella bassa.
In Italia, la classe media è forse più facilmente identificabile che altrove, sebbene stia via via scemando, inglobata da quella alta e, soprattutto, da quella bassa. Si tratta dei piccoli imprenditori e delle piccole e piccolissime imprese – ristoratori, liberi professionisti, parrucchieri, proprietari di bar. Proprio in virtù della sua variegata composizione, la classe media collega la classe bassa, in cui pesca la propria manodopera, con quella alta, da cui reperisce le risorse finanziarie. Essa è un tramite, un’ Astria Porta, un portale, uno “scambiatore” tra classe alta e classe bassa. La cosiddetta nuova borghesia (quella che si è costuita durante il boom degli anni Sessanta, per intenderci) sta però con tutta evidenza cessando di essere l’ago della bilancia della nostra società, e sta piuttosto subendo negli ultimi decenni un fulmineo quanto irreversibile processo di assimilazione.
Da ormai troppo tempo i ricchi sono infatti sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, mentre la classe media non smette di erodersi e perdere pezzi, lasciando addirittura presagire una sua non troppo lontana scomparsa, Una sua totale fagocitazione da parte dai grandi capitali, da un lato, e dalla correlativa schiavitù salariata dall’altro. In questo sfarinamento alcuni, pochi, sono riusciti ad accumulare una gonfia fetta di capitale – economico, sociale o culturale che sia – integrandosi nella classe alta, mentre la maggioranza di coloro che un tempo appartenevano (per storia familiare e tradizioni culturali) alla classe media – vessati da indisponibilità economiche dovute a debiti, mutui e via dicendo – sono miseramente scivolati nella classe bassa.
Non serve una grande penetrazione psicologica per comprendere che chi è stato vittima di questo scivolamento, oltre a provare parecchio rancore, si è ritrovato in uno stato di totale passività: non solo per essere stato retrocesso suo malgrado, perdendo qualsivoglia privilegio conquistato sovente a fatica, ma soprattutto per aver dovuto osservare inerme istituzioni totalmente incapaci di garantirgli una mobile immobilità. Ovvero una mobilità sociale chiusa verso il basso, ma aperta verso l’alto.
Sorge spontanea a questo punto una domanda che potremmo definire etica. La classe media italiana – storicamente composta da persone intraprendenti e creative, che hanno reso il marchio italiano famoso in tutto il mondo – ha risentito moltissimo delle recenti crisi, che hanno svelato tutta la pericolosità del tristemente famoso “rischio d’impresa” e la spietatezza di un sistema e di uno Stato sempre pronti a socializzare le perdite, ma estremamente pigri nel ripagare debiti e nell’assumersi le proprie responsabilità di fronte alle imprese. A monte di tutto ciò, tuttavia, senza chiudere gli occhi su questi cruciali aspetti economico-politici, ci si potrebbe anche chiedere candidamente: «Perché mai una persona dovrebbe esporsi così tanto, economicamente ed esistenzialmente? Perché uomini e donne decidono, a un certo punto, di rischiare, di mettere in gioco fin anche la propria vita e la propria salute in nome di un potenziale aumento di ricchezza e/o di posizione sociale? Può apparire una domanda banale, quasi ingenua. Ciononostante credo che essa richieda, nella propria semplicità, delle risposte essenziali, chiare e incisive, proprio perché semplici.
La risposta corretta, tutt’altro che enigmatica, sarebbe l’unica sincera: ossia che la mentalità dominante della classe media è intrisa di pedagogia capitalistica, fin dalla più tenera età. E con pedagogia non intendo l’educazione canonica, scolastica, normalizzata, ma soprattutto quella implicita – che tale non è. La vera educazione, vergognosamente esplicita, che va dalla pubblicità alla propaganda, dai mezzi di comunicazione all’intrattenimento, dalla politica all’arte alla moda. L’educazione che spinge continuamente l’individuo (o un gruppo) a intraprendere la fantomatica scalata sociale. In questo senso la ricchezza non è che un’insegna, un simbolo della riuscita di questa curiosa scalata. Essa si traduce in ricchezza, fama, notorietà: potere, su tutto e su tutti. Ciò che muove è null’altro che il denaro: la promessa di una vita materiale paradisiaca.
Con questo non intendo minimamente accanirmi acriticamente su coloro che ricadono in quelle che Gramsci chiamava le illusioni del capitalismo. Poiché, indipendentemente dall’ orientamento politico o dall’estrazione sociale, nessuno è al riparo da simili illusioni. Il mio scopo è però quello di mettere in guardia dai pericoli e dai tranelli dell’euforia capitalistica e dalle seduzioni del Grande Capitale, che non cessa a tutt’oggi di vendere a pacchi il Sogno americano: quello apparentemente privo di svantaggi e zeppo di vantaggi, quello che viene presentato ai poveri cristi come una rapida e trionfante transizione da povero a ricco, da piccolo borghese a miliardario, una scalata lieve, veloce, infallibile. Se a tutto ciò aggiungiamo la tradizionale volontà di riscatto dalla mediocrità o dalla miseria delle classi meno abbienti, il gioco è fatto.
Per l’intera esistenza ogni essere umano è influenzato nel pensiero, nella cultura e nelle azioni dal mercato e da chi lo controlla: i ricchissimi, le multinazionali. Gli Stati, di conseguenza, sono obbligati a insistere in politiche che favoriscono i super-ricchi, in quanto sono loro a garantirgli buona parte delle entrate nelle casse statali. Sono loro i maggiori azionisti dei nostri stati “democratici”; ed è a tal fine che questi ultimi divengono, giorno dopo giorno, sempre più misere pedine nel grande gioco del mercato e della finanza globali.
La borghesia moderna è la discendente di chi, un tempo, non aveva nulla: modesti artigiani, contadini o agricoltori. Ma un tempo i primi borghesi diventavano tali, cioè si arricchivano, partendo da condizioni disperate: non avevano niente da perdere. Il giovane ultimogenito di una famiglia contadina durante una carestia (o una pestilenza) per non morire di fame, fugge in città, si inurba, e rocambolescamente – sfruttando la buona congiuntura economica e la propria inventiva – diviene ricco. Si tratta di una dinamica che, con sfumature diverse, è giunta sino alla soglia della nostra contemporaneità. Ciò che stupisce oggi è il movimento opposto, ossia il fatto inquietante che una moltitudine di persone si sia rovinata e spremuta fino all’osso, non per riuscire a sopravvivere, bensì per perseguire il desiderio di essere più “ricchi”, di migliorare il proprio status sociale. Se il germe dell’illusione capitalista attacca infatti anche poveri e poverissimi, bisogna pur dire che questi ultimi spesso sono più accorti nell’evitare di cadere nella trappola-miraggio della fulminea scalata sociale.
Ecco la ragione per cui la classe media è la più ideologicamente assoggettata e la più indottrinata. L’influenza dei media sociali è a tal punto potente e intensa da instillare idee, spesso insensate e irrazionali, spacciate come razionali ed essenziali. Il gioco della società odierna, dei consumi e dell’immagine, è proprio questo: creare un bisogno irrazionale, facendolo apparire come naturale e insostituibile, implacabile, per poi colmarlo proponendo una “soluzione”. Il nuovo iPhone, il nuovo televisore, il nuovo pc. L’idea del “vecchio” spinge il consumatore a un sempiterno rinnovamento: davanti all’inesorabile scorrere del tempo, che segna l’uomo fisicamente e spiritualmente. Come se l’atto del consumo fosse un rito di rigenerazione materiale che interviene in magico e tragicomico soccorso dell’individuo-consumatore.
Si tratta in fondo della mutazione antropologica di cui già parlava Pasolini: un processo di omologazione culturale dettato da svariati fattori, molti dei quali puramente mediatici, altri ben più pratici ed esplicitamente politici, come la globalizzazione e l’esportazione occidentale del sistema liberal-democratico in tutto il mondo – democratico, sì, ma sulla carta. Il conformismo è forse la vera pietra scagliata contro la “libertà” degli uomini, siano essi ricchi, poveri, borghesi o straccioni. In particolar modo la classe media, che ha visto tra il dopoguerra e la crisi del 2008 ingrossare continuamente le proprie fila, è stata letteralmente assillata nell’ultimo mezzo secolo, costretta a indossare abiti culturali che non le appartenevano, né appartenevano ai loro avi.
La classe media è vittima – ostinatamente e morbosamente legata, come in una Sindrome di Stoccolma, ai suoi ricchi carnefici (i grandi capitali) – ma è al contempo anche carnefice, perché insostituibile ingranaggio del meccanismo neoliberale che opprime i lavoratori salariati e i più deboli. Essa è intrappolata in un limbo, in un paradosso apparentemente senza fine o soluzione.
Il fatto che stia scomparendo, e che scomparendo vada dissolvendosi principalmente nella classe “bassa”, tuttavia, è qualcosa che apre uno spiraglio di speranza per il futuro. Uno spiraglio che ci lascia immaginare il giorno in cui questa Sindrome di Stoccolma vedrà, forse, la propria fine. Il giorno in cui la società includerà e soccorrerà i più deboli. Per quanto radicata sia ormai la cultura auto-imprenditoriale, essa – come tutto ciò che è umano – è destinata un giorno a perire, a mutare, a divenire altro.
La pandemia ha messo in luce tutti i limiti della nostra società, basata sul consumismo ossessivo, sull’arrivismo e sull’omologazione. Ora che le due classi subalterne, media e bassa, hanno finalmente la possibilità di smascherare i loro vessatori, uscendo dal circolo di violenza e oppressione che rende statica la società e i suoi valori dominanti, non si potrebbe forse cominciare ad agire in maniera maggiormente “razionale”? Cominciando magari col capire, in primo luogo, che quella neoliberale altro non è che una pseudo-razionalità. Capire che è necessario che entrambe queste due classi – media e bassa – cessino di combattere tra loro la guerra tra poveri, per volgere le loro forze comuni contro chi tiene in saldo l’economia, la politica, il potere e riduce alla mera sopravvivenza tutti gli altri.
La vera guerra infatti è quella tra i pochi, che hanno in mano le sorti del mondo, e gli “altri”. Anche se spesso, proprio a causa della penetrazione profonda dell’ideologia in cui siamo immersi, è molto difficile distinguere vittima e carnefice, come difficile è capire con precisione dov’è lo schiavo e dov’il padrone – soprattutto quando ci rendiamo conto che una parte di questa lotta si gioca non nel “fuori”, ma “dentro” di noi. Che si gioca cioè contro la parte di noi che è controllata, captata da questo discorso dominante e ossessivo, da cui nessuno è immune. Contro un discorso che ci abita, e che tiene in catene il nostro animo desideroso di libertà.
Liberarsi dal tiranno significa sopprimere il naturale istinto che ci rende desiderosi d’essere come lui; che ci rende consumisti, avari e perfettamente omologati.
Liberarsi del tiranno, forse, è proprio capire che è questo voler essere come tutti, per paura, per conformismo, per convenienza, a renderci dei nessuno.